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31/05/2023

Il “vento di destra” è il “vento di guerra”

È davvero noioso leggere le interpretazioni sui risultati elettorali nei ballottaggi.

Che abbiano vinto i candidati della destra, che l’astensione sia il primo partito, che non ci sia una “sinistra” (una forza politica la cui pratica corrisponda all’”idea” che si ha della “sinistra”), è così evidente che bisognerebbe interrogarsi sulle ragioni, piuttosto che – sui “giornaloni” come sui social – cercare di soppesare quanto abbia influito l’ininfluenza della Schlein o “l’abilità” della Meloni. Degli altri inutile parlare...

Mai come in questo caso restare con gli occhi e la mente inchiodati alle dinamiche italiche significa diventare ciechi.

La stessa tendenza – lo stesso “vento” – spira infatti su tutta Europa. Inchioda al muro la Spagna, la Grecia, la Slovenia, i paesi scandinavi, in varia misura anche la Germania e la Francia, dove pure per fortuna c’è ancora vivo e forte un movimento sociale contro Macron e il neoliberismo che non regala spazio a Le Pen et similia.

Qualche anno fa si era imposta una “alternativa populista” che sembrava in grado di modificare quadri politici ingessati da quelle che venivano lette – stupidamente – come “logiche di partito”, anziché come crisi del meccanismo della rappresentanza.

Ci si era insomma illusi che – a destra, al centro, “a sinistra” – bastasse sostituire gli esausti comitati elettorali dei “soliti noti” con formazioni “fresche, giovani, inclusive”, dai confini mobili e dalle caratteristiche organizzative “disinvolte”, per ottenere un cambiamento significativo. Se non del modello sociale e produttivo, almeno della sua capacità inclusiva, riscoprendo l’utilità di qualche diritto sociale smantellato e diversi diritti civili ormai scontati nella sensibilità del “senso comune” sociale.

In pochi mesi abbiamo visto collassare tutte le forze nate in quella stagione, qualsiasi fosse la percentuale – anche notevole – di consensi raccolti nel recente passato. È difficile trovare traccia nei risultati elettorali dei Cinque Stelle in Italia, di Podemos e Ciudadanos (centristi) in Spagna, la stessa Syiriza in Grecia (sia pure con un crollo meno catastrofico), ecc.

Se un fenomeno è comune a tutta l’Europa chiaramente non può essere analizzato ricorrendo alle solite argomentazioni ad hoc che si usano per giustificare o richiedere un cambiamento di linea o di leadership qui sotto casa.

Ed è altrettanto evidente che quelle linee politiche e le relative leadership sono il punto di arrivo di un processo di decadimento che sta arrivando al punto di decomposizione.

La “sinistra” è ormai un termine insignificante. Sta ad indicare formazioni in qualche modo derivanti alla lontana dalle ex socialdemocrazie europee, con agglomerati estremamente confusi – ad esempio in Italia – che hanno visto confluire ex comunisti ed ex democristiani, ma che hanno co-gestito negli ultimi 30 anni tutti i processi di privatizzazione-liberalizzazione attraverso cui è stato smantellato il welfare state.

Queste formazioni para-socialdemocratiche hanno insomma contribuito a quel continuo peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e della generiche “masse” su cui si è andata incistando l’ideologia fascista che oggi raccoglie consensi inquietanti, anche al lordo dell’elevatissima astensione.

Non è la prima volta che accade. Ma per le similitudini – e le lezioni della Storia – tocca tornare ad un secolo fa, alla nascita dei regimi nazifascisti in Italia e in Germania.

A leggere, per esempio, l’introduzione di Giorgy Lukacs alla sua Critica dell’ideologia fascista (chissà perché mai tradotta in italiano), dove possiamo ritrovare un meccanismo assolutamente contemporaneo, quello dell’”unità a prescindere per non far vincere la destra” che in realtà accetta il processo di fascistizzazione, ma cerca di limitarlo alle sue espressioni “meno peggio”.

“La famosa teoria del “male minore” si basa su questa visione fatalistica dell’inevitabilità del fascismo: Brüning è il male minore rispetto a Papen, Schleicher rispetto a Hitler, domani forse Hitler rispetto agli “estremisti nazionalsocialisti” ecc. E così all’infinito.”

Ma guai a interpretare le dinamiche politiche come il “motore” dell’evoluzione storica. La domanda centrale è infatti “qual è il momento generale? Ovvero, dov’è il centro di gravità degli interessi generali di classe della borghesia nel suo complesso?”

Detto altrimenti: non esiste oggi un “partito dei lavoratori e degli sfruttati”, dunque le forze politiche esistenti interpretano più o meno bene gli interessi di settori della borghesia. Che la parte numericamente dominante, in paesi come l’Italia, sia fatta di ristoratori, operatori turistici, piccola e piccolissima impresa, è certamente una disgrazia che impedisce persino di intravedere una ipotesi di “sviluppo”. A questa gente basta pagare salari da fame (o anche nulla) e vedersi togliere le tasse. Tutto il resto, per loro, non conta.

Ma in una crisi come l’attuale, che sta sfociando a passi sempre più grandi verso la guerra, non sono certo questi settori a poter “dare la linea” che mette insieme tutti i settori della borghesia.

O, se volete, è qui la ragione “strutturale” per cui un governo a guida neofascista come quello attuale segue pedissequamente – con qualche mal di pancia che mette in fibrillazione la gestione del PNRR – il solco tracciato da tutti i governi precedenti sotto la supervisione della Nato (per quanto riguarda la politica estera) e dell’Unione Europea (per quanto riguarda le politiche economiche).

“Non c’è differenza” tra le forze politiche in campo se non per le questioni puramente “ideologiche”. Ed allora ecco i Lollobrigida che ancora rimestano nei misteri della “difesa della razza”, i Pillon che vorrebbero inquisire cosa avviene sotto le lenzuola, i tanti mentecatti finalmente arrivati a poter “dire la loro” (ma è una stronzata...).

Lo stesso avviene con Vox e altre formazioni inguardabili, un po’ dappertutto, compresi gli Stati Uniti sull’orlo della guerra civile e con armi in casa sufficienti per farla davvero.

È l’Occidente neoliberista – o ”area euro-atlantica” – a trovarsi di fronte ad una perdita dell’egemonia sul resto del mondo, che comporta anche la perdita dei vantaggi competitivi storicamente sedimentati. Basti pensare alla possibilità della Francia di ramazzare l’uranio nel Sahel pagandolo con quanto bastava a nutrire l’appetito di qualche dittatore intercambiabile.

“Crisi” non è una parola magica da tirar fuori per indicare cosa non si sa descrivere dettagliatamente. È un fatto.

E la crisi di egemonia dell’imperialismo temporaneamente dominante produce guerra.

“Le masse”, i lavoratori, gli elettori insomma, “sentono” confusamente che sta avvenendo qualcosa che mette in discussione la loro vita grama, ma comunque in qualche misura migliore – grazie agli storici “vantaggi competitivi” – di quella dei popoli colonizzati.

In assenza di alternative tendono ad arruolarsi, a seguire i pifferai che provano ancora una volta ad illudere che possa esserci una soluzione “vincente”. Ovvero quella che rimette gli altri “al loro posto” e consente ai “nostri oligarchi” di andare avanti come prima.

È un’illusione, certo, perché il resto del mondo è cresciuto molto ed è ora più consapevole, sia della propria forza che della necessità di un “ordine mondiale” senza un dominus rapinatore.

Ma il velo dell’illusione non cade soltanto perché qualcuno lo indica. E il “vento di destra” non smette di soffiare fino a quando non si rompe il motore che lo aziona.

È il “vento di guerra” che va fermato. Il resto segue.

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