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20/05/2023

Modelli alluvionali

Basterebbe affermare con onesta e olimpica tranquillità che, in cima alle regioni per consumo di suolo anche in territori protetti, c’è l’Emilia Romagna. Sempre più copiosamente i nostri mezzi di informazione mainstream non possono non ammettere l’enorme tragedia: la devastazione che ha colpito in particolar modo la Romagna assume contorni biblici mai visti prima. Dire che la natura è matrigna, anche in questo caso, è semplicistico, fuorviante e disonesto. I numeri hanno la caratteristica di essere estremamente dolorosi, talvolta drammatici: la cementificazione come modello di sviluppo, nella regione muscolare di Stefano Bonaccini, si innalza al 9% di suolo impermeabilizzato, sopra la media italiana già inverosimilmente attestata al 7,1%.

Come di solito capita in questo Paese dopo il verificarsi di una tragedia, si scoprono quelle cause che, in realtà, qualcuno già conosce nei dettagli. Questa drammatica situazione è la prova di quanto siano superficiali le politiche ambientali. Molto spesso, viene da pensare, si è consapevolmente “flessibili” nei confronti di quelle norme che sono state emanate a tutela dell’ambiente. Un altro dato davvero raccapricciante emerge in questi giorni (tutti finalmente allo scoperto per denunciare le responsabilità): nelle casse dello Stato rimangono inutilizzati 8,4 miliardi dedicati al rischio idrogeologico, soldi mai spesi e pietrificati nelle stanze soporifere del potere dal 2018. Ai sindaci è doveroso porre il quesito, a questo punto dettato da una legittima rabbia: perché non abbiano fatto in modo che i fondi appositamente stanziati per il miglioramento delle condizioni dei territori si materializzassero in interventi virtuosi.

Al centro della questione, come capita sempre più di sovente (senza che però si migliorino sensibilità, stili di vita, capacità gestionali), c’è lo sfruttamento, causa del conseguente incremento delle politiche liberiste e tecnocratiche che diffondono, ben articolate in tutti i settori della comunicazione, il verbo della produzione, del conforto economico, della solidarietà sostenibile. Quest’ultimo aggettivo, per molti versi, è entrato a far parte di un consapevole rimedio che ipocritamente giustifica, legittima e definisce lo sfruttamento indiscriminato dei territori secondo “regole” green, con buona pace di quelli che invece conoscono bene l’entità dei disastri che si stanno progettando. Il punto è proprio questo e risiede anche nel lessico che si usa.

Dopo aver chiarito senza semplificazioni che la parola magica della tragedia umana che ci sta colpendo inesorabilmente è lo “sfruttamento”, possiamo comprendere quanto questa dinamica ci stia facendo arretrare soprattutto sul rispetto dei diritti umani, considerando che il primo fra tutti è quello di vivere in armonia con la natura senza immaginare di poterla governare sempre e deturparla quando si ritiene necessario. Sfruttare la natura a mero fine di lucro è esercizio criminoso. La “necessarietà” dello sfruttamento è un ulteriore postulato che viene sublimato al fine di veicolare un messaggio di inesorabilità in termini di depauperamento dei territori in ogni dimensione e condizione. Addirittura, qualcuno ritiene di poter sostenere una assurda quanto opinabile contrapposizione fra suolo e atmosfera. Si sostiene che le due crisi non solo sono diverse, ma anche parallelamente indirizzate su due tracce differenziate. Non voler leggere le complessità ed essere indisponibili a capire che in natura esistono, invece, solo condizioni di mera osmosi è fuorviante e, per chi adotta queste tesi consapevolmente, criminoso. Il suolo, l’aria e le acque hanno chiaramente un equilibrio sottilissimo, complesso e fortemente fragile: gli effetti si vedono.

La drammatica cronaca di questi giorni, per me che vivo ormai da quasi un decennio a Ravenna, è semplicemente dolorosa. Persone care e colleghi, migliaia di evacuati, morti e feriti, interi campi devastati e desertificati dal fango, la cui entità del disastro ancora non è quantificabile, sono l’esempio plastico di quello che gli amministratori locali hanno irresponsabilmente sottovalutato, indifferenti alle richieste dei cittadini. Doloroso e deludente è l’appartenenza a una idea di territorio che risiede nel “rispetto” del posto in cui si vive. Molti amministratori locali avevano promesso di aderire in piena campagna elettorale a questa idea di ritenere i propri territori sacri e inviolabili. Hanno tradito e negato il criterio del loro buon governo, quella promessa che trovava residenza nella sublimazione del rispetto per l’ambiente.

Coraggiosi e meno coraggiosi in politica hanno dimostrato di non essere molto dissimili da quelli che non si presentavano, in campagna elettorale, in nome dell’ambiente. Alcuni hanno invece adeguato il proprio credo ambientalista, insincero, a scelte tipiche di una certa area geografica in senso politico, per niente affine. I tradimenti dei valori costituenti uno spazio politico determinato, alla fine, realizzano un prezzo oneroso anche in termini di consenso. Queste politiche divengono controproducenti e pericolose, tanto che si permette anche all’oppositore politico (che nella realtà dei fatti concreti la pensa egualmente da chi amministra oggi), di criticare e porsi in una condizione etica e politica addirittura di superiorità. Una dinamica che non la si capisce da chi viene costantemente alimentata, che ignora incredibilmente l’abbecedario della politica e delle ideologie.

Inoltre, la questione dei rigassificatori in questo Paese risiede anche e soprattutto a Ravenna: una città determinante a livello nazionale nel settore petrolchimico, che ricopre indubbiamente un’importanza vitale per il tessuto sociale ed economico non solo locale. Le istituzioni hanno mostrato una buona dose di impermeabilità alle critiche e, colpevolmente, ai dubbi emersi e manifestati da molti cittadini anche con eventi a cui hanno preso parte migliaia di persone. La questione avrebbe trovato, forse, una migliore comprensione e soluzione qualora fosse stata discussa in un dibattito pubblico, in un confronto con i cittadini e le istituzioni, ma è stato ritenuto di dover superare ogni dissenso, anche non “assolutamente antagonista”, con imperio e arroganza. Non sembra interessare molto ai governatori, ai sindaci e agli amministratori, consiglieri e assessori vari la distanza che si crea con i cittadini, fra sgrammaticature comunicative e consapevoli allontanamenti, al fine di rimanere ben saldi sui propri confortevoli scranni. Come cicale in estate presto arriverà l’autunno, con orizzonti ancora più plumbei per loro, ma soprattutto per noi. Lontane sono le intenzioni di trasformare strutturalmente le politiche ambientali di questo Paese e di questa importante area, sempre più protesa a una politica che vuole dimostrare efficienza e puntualità, buongoverno e competenza, il tutto fragilmente costruito su piedi d’argilla come quest’ultima alluvione dimostra. La speranza è che in futuro non ci si debba trovare a fronteggiare una ennesima crisi dovuta all’inquinamento da conversione del gas liquido e, a un eventuale danno ambientale, che assumerebbe i contorni di una ecatombe per il Delta del Po.

La miopia però che colpisce queste aree nella gestione dei territori è semplicemente irrazionale, considerando che l’intero Paese si sostiene su quanto si produce in massima parte nella Pianura padana. In termini tecnici (ma comprensibili anche a coloro i quali non hanno competenze di carattere scientifico), la perdita di superficie e la copertura artificiale del suolo, originariamente agricolo, crea una certa distorsione ambientale, sociale ed economica i cui effetti sono subito percepibili. Per l’Istituto Superiore per la Protezione e la ricerca Ambientale, l’Emilia-Romagna è la terza regione per incremento di suolo consumato tra il 2020 e il 2021, con 658 ettari; il totale di suolo consumato nel 2021, con oltre 200.000 ettari, pone Ravenna al secondo posto in classifica dei comuni in Italia, preceduta soltanto da Roma. Il problema si riscontra anche in termini concettuali: l’economia più che essere circolare come tanto si ostenta, procede in modo lineare nel senso che vengono bruciate risorse, dunque anche terreno, in modo indiscriminato senza altre soluzioni che diano una più virtuosa soluzione. L’Emilia-Romagna è una delle residue regioni che sul consumo di suolo, in attesa di una regolamentazione nazionale, si è dotata di una propria legge regionale nel 2017: decreta che l’incremento annuale di superficie cementificata deve restare in ogni Comune al di sotto del 3%. Non sembra che i limiti in percentuali siano stati rispettati. Perché? Sono rimasti al di fuori di questa previsione di legge le opere pubbliche, gli insediamenti strategici di rilievo regionale, gli ampliamenti delle attività produttive esistenti, i nuovi insediamenti residenziali collegati a interventi di rigenerazione urbana. E qui si fermano le speranze del sano virtuosismo normativo emiliano-romagnolo. Il tutto è stato vanificato con le eccezioni alla regola, in perfetto stile italiota.

Dal governo centrale, infine, le notizie sono facilmente interpretabili. Qualcuno ha già dimenticato Ischia, con il suo dissesto idrogeologico. Dopo questo evento, il ministro Nello Musumeci ci riferisce di aver costituito un gruppo di lavoro interministeriale. Di che cosa si occuperà? Forse di piani che fronteggino il dissesto idrogeologico in corso. Non ci pare che lo sforzo abbia evitato l’ennesima tragedia che conta numerosi morti e dispersi in Romagna. Quale sarà il prossimo provvedimento? Palazzo Chigi per sopperire alla calamità della mancanza d’acqua, pensa di investire in costruzione di dighe e invasi, nominando (ancora uno) un commissario ad hoc per l’emergenza idrica: nomen omen, tal Nicola dell’Acqua. Il su citato ha già fatto sapere di far riferimento alla cabina di regia che è stata affidata al ministro Matteo Salvini, intento alla sua personale e ossessiva progettazione che riguarda la costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, mentre l’Italia rotola a pezzi in fondo ai quattro mari.

Poco fa, da Lugo, un amico mi ha scritto un messaggio: è terrorizzato dall’acqua che ha sommerso la sua città. In isolamento da due giorni, senza elettricità, né acqua potabile e viveri, mi ha detto che mai avrebbe creduto che potessero essere necessari fiammiferi, pile per la radio, candele, scorte di scatolame, carica-batterie per i cellulari. È una questione di modelli, alluvionali.

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