di Guido Salerno Aletta
Per quanto riguarda la Cina, è risaputo che già da tempo ha rinunciato ad investire in titoli di Stato americani: le sue detenzioni diminuiscono mese dopo mese, segno che le sottoscrizioni non vengono rinnovate alle scadenze. Prendendo in considerazione l'ultimo anno, il periodo che va dal marzo 2022 a quello scorso, si rileva che le detenzioni intestate alla Cina sono passate da 1.013 miliardi di dollari ad 869 miliardi (-144).
C'è un altro dato che fa riflettere: nello stesso periodo, è diminuito il totale delle detenzioni estere, passando da 7.604 a 7.573 miliardi (-31). Poca cosa, si dirà; ma questo andamento è abbastanza inconsueto, visto che l'innalzamento dei tassi da parte della Fed attira capitali per il maggior rendimento che ne deriva. Ed infatti, se andiamo a controllare le detenzioni "Foreign – Non Official", che sono quelle degli investitori privati, si rileva che infatti sono aumentate parecchio, passando da 3.579 a 3.794 miliardi (+215).
La spiegazione di questa apparente contraddizione sta nella ancor più forte riduzione delle detenzioni "Foreign – Official", che sono principalmente quelle delle Banche centrali: sono passate da 4.025 a 3.779 miliardi (-246).
Ci troviamo di fronte ad una riduzione massiccia di detenzioni "Official" di Treasury, che va ascritta alla insoddisfazione per la politica monetaria restrittiva adottata dalla Fed, che per prima ha deciso di alzare i tassi per contrastare l'inflazione interna, obbligando via via le altre Banche centrali a seguirla per evitare la fuga di capitali verso il dollaro. Questa decisione andava presa soprattutto per evitare la svalutazione indotta dalla fuga dei capitali verso il dollaro, causato dallo smobilizzo degli impieghi nelle rispettive valute e dalla conseguente domanda di dollari: l'euro si era svalutato di circa il 20% portandosi quasi alla parità col dollaro, e lo yen aveva toccato il livello più basso rispetto al dollaro da ben 32 anni.
Questa svalutazione rispetto al dollaro comportava un ulteriore aumento del costo delle importazioni dei prodotti che sui mercati internazionali sono quotati in dollari, come quelli energetici, aggravando il fenomeno inflazionistico.
In pratica, mentre l'inflazione americana aveva origini fiscali, essendo determinata da un eccesso di spesa pubblica finanziata in disavanzo ed in un contesto di bassa disoccupazione, la Fed ha adottato misure di violenta restrizione monetaria, aumentando i tassi e riducendo la liquidità: così facendo, ha destabilizzato in molti Paesi la allocazione dei capitali, il sistema dei cambi e quello dei tassi di interesse.
Ed è stato il Giappone a risentire più di ogni altro Paese di questo orientamento della Fed: c'è stato un vero e proprio crollo delle sue detenzioni di Treasury, che sono passate in un anno da 1.229 a 1.088 miliardi di dollari. La riduzione di 141 miliardi è stata praticamente identica a quella della Cina, che è stata di 144 miliardi. Nel caso del Giappone, la tendenza dello yen a svalutarsi rispetto al dollaro ha infatti aumentato notevolmente il costo della copertura contro questo rischio, arrivando ad eguagliare il tasso di rendimento dei Treasury: non valeva più la pena tenere fermi lì i capitali.
Si è rotto un equilibrio di interessi reciprocamente vantaggiosi tra Giappone e Stati Uniti che durava da decenni, con i giapponesi che sono stati sempre grandi acquirenti di titoli americani ritornando ad essere i primi creditori dopo che la Cina ha smesso di investire in Treasury.
Il rapporto tra Giappone e Usa è stato in questi anni fortemente sinergico. Il primo ha un attivo commerciale strutturale sull'estero ma un enorme debito pubblico: per evitare di affondare il bilancio con alte spese per interessi, la Banca centrale (BoJ) non solo deve quindi tenere bassi i tassi di interesse, ma deve anche acquistare direttamente gli stessi titoli di Stato che non hanno acquirenti perché rendono zero. Gli investitori giapponesi hanno sempre avuto quindi tutto l'interesse a reinvestire il surplus commerciale comprando i titoli di Stato americani, i Treasury, per via del buon rendimento garantito loro.
Gli USA, che invece sono penalizzati da un forte disavanzo commerciale strutturale sull'estero e da poco risparmio interno, hanno visto a loro volta con estremo favore gli investimenti finanziari giapponesi in Treasury.
Questo equilibrio di interessi è venuto meno per via della politica monetaria restrittiva della Fed, cui la BoJ non si è potuta subito adeguare alzando i tassi come hanno fatto la Bce o la Banca d'Inghilterra: il colossale debito pubblico giapponese ha impedito finora di alzare i tassi, se non in modo modestissimo, portando a dicembre scorso quello sui prestiti a dieci anni allo 0,50%. È ancora una inezia rispetto a quelli della Fed, della Bce o della BoE, ma è il segnale che in futuro converrà investire in Giappone anziché negli Usa, visto il costo raggiunto dalla copertura del rischio di svalutazione dello yen.
Sembra che negli USA sia stata tirata la corda sbagliata, usando la leva monetaria quando invece doveva essere la politica fiscale a dover tornare restrittiva.
Dopo la Cina, anche il Giappone, che è ancora il più grande sottoscrittore di titoli di Stato americani ha battuto in ritirata, riducendo le detenzioni: la regola secondo cui l'aumento dei tassi americani determina automaticamente un afflusso di capitali da tutto il mondo ha subito due eccezioni, da parte dei più grandi finanziatori del debito americano. Mentre nel caso della Cina la ragione è stata prevalentemente politica, per il Giappone la scelta è stata squisitamente valutaria e finanziaria: i capitali giapponesi ritornano a casa.
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