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31/01/2022

Primo Amore (2004) di Matteo Garrone - Minirece

Ucraina, l’ultima frontiera USA

La costruzione ad hoc della crisi ucraina prosegue incessante. Indifferenti al lavoro di mediazione della Francia, presidente di turno della UE, ed ai colloqui in corso tra i Paesi coinvolti sin dal 2014 nel reset dell’area, gli USA alzano la tensione oltre i livelli di guardia. Un atteggiamento provocatorio denunciato persino dal Presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che ha invitato l’Occidente a smetterla di alzare la tensione sulla pelle dell’Ucraina.

Gli Stati Uniti temono che dai colloqui del Gruppo di contatto emerga uno stop all’escalation e anche la verità dei fatti, ovvero che la Russia non ha mai pensato di invadere l’Ucraina e che la stessa Kiev ne sia perfettamente conscia, come ha tentato di dire sin dall’inizio. L’intera narrazione di questa crisi, del resto, viaggia su un rovesciamento completo della realtà: si racconta una inesistente invasione dell’Ucraina, mentre è vero il contrario: Mosca mobilita il suo esercito in chiave difensiva di fronte all’ammassamento di militari, rampe missilistiche, navi, aerei da combattimento e droni della NATO alle porte di casa, fino a tutto il Mar Nero.

Nella narrazione occidentale c’è un assurdo concettuale prima che politico, secondo cui Washington può muovere soldati e armi per migliaia e migliaia di chilometri e schierarli alla porta della Russia, la quale però non può invece muovere armi e soldati nel suo territorio. La prima mossa da offensiva diventa difensiva e la seconda, da risposta, si trasforma in aggressione. La Nato può muovere dove vuole, la Russia nemmeno dentro casa.

Una riaffermazione arrogante della “eccezionalità” statunitense di fronte al Diritto Internazionale, al rispetto degli accordi ed alla eredità storica dei Trattati. Una narrazione menzognera alimentata dai media europei e statunitensi e denunciata dallo stesso ex Capo di Stato Maggiore della Marina Tedesca, l’Ammiraglio Kay-Achim Schönbach, che è stato costretto alle dimissioni per aver detto che "Putin chiede soltanto un po’ di rispetto e probabilmente se lo merita”.

L’innesco della crisi è l’intenzione del governo statunitense di incorporare l’Ucraina nella Nato, minacciando direttamente la sicurezza russa. Chiaro che Mosca non resti a guardare: ove il governo nazista ucraino decidesse di aderire alla Nato ed ospitare soldati e armamenti nucleari dell’Alleanza Atlantica, ne deriverebbe una minaccia immediata e di assoluta gravità alla sicurezza della Russia, che si troverebbe costretta ad intervenire militarmente per scongiurarla. Ma, fino ad ora, chi porta i suoi militari fuori dalle proprie frontiere è Washington e non Mosca.

Putin ha tutto il diritto di tenere in allerta il suo dispositivo militare. Il biglietto da visita con il quale le ultime due amministrazioni USA si sono presentate alla Russia parla chiaro: annullamento degli accordi balistici a medio raggio, azzeramento degli accordi per la protezione dei cieli, ritiro del trattato di pace con l’Iran e aumento della presenza della Nato ai confini della Russia, guerra in Siria, intenti di colpi di stato in Bielorussia e Kazakhistan, tentativi di ingerenze nella politica interna russa e finti avvelenamenti a improbabili dissidenti che servono a innescare le sanzioni. E poi altre sanzioni economiche e commerciali verso Mosca e Teheran, la definizione di “assassino” del presidente russo Putin.

Il gas, le armi, il comando

La crisi Ucraina, che può in qualunque momento trasformarsi in una guerra vera e propria, è stata generata dalla volontà statunitense di portare un vero e proprio assedio militare alla frontiera russa e di convincere gli europei a scatenare una guerra finanziaria e commerciale con il fine di piegare l’economia russa e sostenere quella statunitense.

Washington mostra i muscoli verso Russia e Cina e usa la Nato come strumento di politica estera statunitense, riaffermando la propria leadership politica nei confronti dell’Occidente. Sul piano dell’analisi bellica prova la reazione russa a difesa della sua sicurezza nazionale. Misurare tempi, modalità ed efficacia di azione/reazione in una crisi dai possibili esiti militari, è vitale per gli strateghi del Pentagono. Ma non è detto che le risposte siano esaustive, sarebbe ingenuo sperare che Putin stia agendo a carte scoperte.

C’è poi da verificare la solidità del “pacchetto difensivo” rappresentato dai paesi dell’Est, un tempo parte dell’Unione Sovietica o alleati della stessa. Qui le notizie non sono eccellenti per gli USA: sia l’Ungheria che la Croazia si oppongono allo scontro con Mosca sull’Ucraina ed hanno già assicurato la loro uscita dall’alleanza atlantica in caso di conflitto. Non sono due paesi minori: slavi e magiari rappresentano una componente importante nello scacchiere dell’Est e la possibilità che altri li seguano nel disimpegno è concreta. Nel caso avvenisse, la provocazione statunitense alla Russia si trasformerebbe in un colossale boomerang che metterebbe in crisi le politiche di espansione ad Est che dal 1989 Washington ha intrapreso mentre assicurava il contrario.

È noto a tutti gli analisti di politiche della Difesa come Washington preveda un conflitto nucleare tattico circoscritto con Russia e Cina tra gli scenari plausibili. Non si tratta solo di un’ipotesi di scuola, ma di una opzione politica a breve termine da consumarsi sia per puntellare una presidenza ai minimi storici, sia per riporre le esigenze di dominio politico sull’Europa che vacillano da tempo.

Business as usual

L’aspetto prevalente è però economico. La crisi esiste per l’interesse finanziario e strategico USA, l’Ucraina è un attore ininfluente destinato al ruolo di capro espiatorio delle mosse statunitensi. È una crisi concepita per interrompere i legami tra Russia ed Europa, particolarmente riferibili alla fornitura del gas russo al Vecchio Continente, che renderebbe svantaggioso, oltre che insufficiente, l’acquisto di quello statunitense. La Casa Bianca vuole che la Germania blocchi la messa in opera del gasdotto North Stream 2 e auspica si possa scatenare un conflitto che consentirebbe a Washington di bloccare la Russia sul circuito bancario internazionale, così da poter raggiungere l’apoteosi delle sue sanzioni, determinando il più grande vantaggio commerciale agli USA di tutta la loro storia. Che questo possa essere pagato con sangue ucraino e russo poco interessa agli USA, anzi. Più la guerra avanza più l’armamento USA si vende, più si distrugge e più le imprese USA potranno candidarsi a ricostruire: il business sulla pelle degli altri non ha limiti.

I conti di Washington non sono però semplici. Per Berlino il North-Stream 2 vale 25 miliardi di dollari all’anno ed è chiaro che continuare a finanziare l’economia statunitense affondando quella europea non può rappresentare un cammino viabile, meno che mai se s’innesca pure in una crisi militare dagli esiti pericolosissimi per l’Europa. La stessa minaccia di blocco bancario a Mosca avrebbe ripercussioni pesantissime sulle banche UE esposte con la Russia, mentre ne uscirebbero indenni le banche USA, che potrebbero così rafforzarsi nei confronti di quelle europee. Per questo nemmeno Parigi e Roma vedono di buon occhio questa gigantesca provocazione che rischia di mettere l’Europa finanziariamente in crisi e di lasciarla al gelo, al solo scopo di sostenere gli interessi commerciali statunitensi.

Gli obiettivi statunitensi

Quella USA però non è solo una volgare azione di pirateria commerciale: contestualmente si ribadisce il comando unipolare l’intenzione di ridurre il crescente peso russo nel sistema internazionale limitandolo alla sfera regionale.

Il retroterra di quanto avviene è la consapevolezza statunitense della fine di un’epoca, dove Washington era l’unica padrona del mondo, a cui imponeva le sue ricette destinate ad arricchire gli USA impoverendo il resto del pianeta, considerato a Washington e Langley solo un’area vitale per la sicurezza nazionale statunitense e destinato soprattutto a garantire la sopravvivenza del proprio modello.

In sintesi, la spremitura delle risorse planetarie per finanziare la fallimentare economia statunitense, giunta al record storico di inflazione e viva ancora solo grazie alla produzione di dollari senza nessun controllo ed al dominio militare sul pianeta, che li difende anche dal dover rientrare dal colossale debito estero, visto che la leadership tecnologica e finanziaria è un ricordo sbiadito. La destabilizzazione planetaria è la vera sostanza della politica estera statunitense, dato che il ruolo di gendarme mondiale è l’unico terreno possibile per chi tende a conservare almeno la leadership militare.

Per gli USA, insomma, la guerra non è una opzione bensì un indirizzo inevitabile. Ad ammortizzare il gap tra il 24% della produzione mondiale con il 60% del consumo per una popolazione che è solo il 4,1% del pianeta, ci sono le 686 basi militari USA e le centinaia di migliaia di soldati allocati in 149 paesi, il 75% del pianeta. E poi le sanzioni commerciali, i blocchi economici, le pressioni finanziarie e le minacce militari. A questo serve l’allargamento della NATO ovunque: a ribadire il dominio statunitense sul globo e ad evitare che altre economie ed altri progetti trovino spazio, possano assumere spessore egemonico internazionale e mettano gli USA di fronte al multipolarismo, autentica fobia per l’impero decadente.

Quella che si sta giocando su Kiev è una partita a scacchi giocata da un Occidente obbligato a correre al capezzale dell’impero statunitense, che non vuole e non può accettare l’idea della fine del comando unico unipolare perché ciò comporterebbe la fine del suo modello imperiale e la sua riduzione a rango di superpotenza ma non più globale, con tutto ciò che questo comporta sul piano del saccheggio continuato di risorse internazionali da finalizzare al mantenimento interno del suo modello.

Tocca all’Europa, che in questa crisi rischia di rimetterci soldi e morti, alzare la voce, imporre il dialogo ed isolare la Casa Bianca. La crisi ucraina, prima e sopra ogni altra considerazione, dimostra quanto già apparve chiaro dalla caduta del campo socialista nel 1989. Per il governo planetario, gli Stati Uniti, se mai lo sono stati nella loro storia, non sono più una risorsa. Sono il problema.

Fonte

Usa, Cina e futuro del dollaro

Qiao Liang è un ex generale maggiore dell'aviazione dell'Esercito Popolare di Liberazione diventato celebre nel 1999 con il libro Guerra senza limiti (LEG Edizioni, 2001) di cui è coautore insieme con il collega Wang Xiangsui. Con gli usuali occhiali ideologici, i media occidentali hanno presentato lo studio come l'annuncio di un nuovo tipo di guerra che la Cina stava progettando contro l'America. Gli autori affrontavano il concetto di conflitto asimmetrico, prefigurando in qualche modo eventi che sarebbero accaduti di lì a poco, come l'attacco dell'11 settembre.

Qualche anno fa, Qiao ha scritto un nuovo libro, L’arco dell’impero, ancora tradotto dalla LEG (Libreria editrice goriziana). È la prima edizione in una lingua occidentale ed è stata curata dal generale Fabio Mini, già capo di stato maggiore del Comando NATO del Sud Europa nel 2000-2001 e comandante della Forza internazionale in Kosovo (KFOR) a guida NATO dal 2002 al 2003. Mini aveva introdotto in Italia anche Guerra senza limiti: la sua prefazione italiana è stata tradotta e inclusa nella seconda edizione cinese.

Il nuovo lavoro di Qiao è uno studio sulla superpotenza americana. Spiega il suo incredibile successo e le possibili ragioni del suo declino. Secondo Qiao, gli Stati Uniti hanno superato la logica imperiale colonialista dell’Impero britannico del XIX secolo, adottando un rivoluzionario sistema di dominio economico, che ha raggiunto il suo apice con la fine degli accordi di Bretton Woods del 1971. Il potere del dollaro come moneta universale sostiene il primo impero finanziario della storia. The City Upon a Hill dei Padri Pellegrini, l'immagine dell'eccezionalismo americano amata da Reagan, è, in realtà, la Zecca sulla Collina. Con questa "economia finanziaria coloniale", la ricchezza americana è pagata dal resto del mondo. Qiao scrive che le "guerre senza fine" del Pentagono sono progettate per garantire "non solo che i dollari fluiscano senza intoppi fuori dal paese, ma anche che il capitale in giro per il mondo ritorni negli Stati Uniti". Questo meccanismo ha straordinariamente arricchito l'America a spese del mondo, ma ora potrebbe cominciare a incrinarsi. Abbiamo chiesto al generale Mini di presentarci la concezione di Qiao dell'impero americano e del suo declino.

Durante una videoconferenza all'inizio dello scorso dicembre, il presidente cinese Xi Jinping e quello russo Vladimir Putin hanno sottolineato l'esigenza di "accelerare gli sforzi per la creazione di una struttura finanziaria indipendente per i commerci tra Russia e Cina”. Secondo lei è l'inizio della fine del sistema del dollaro?

“Vedo nell’esigenza individuata dai due leader il tentativo concreto di far cessare l’egemonia del dollaro che, come dice Qiao, può segnare l’inizio della fine dell’egemonia economica e geopolitica statunitense. Tuttavia questo non significa che il tentativo riesca o che non induca gli americani a minacciare o attuare ritorsioni non necessariamente di mero carattere commerciale. Per ora, la comune intenzione di Putin e Xi Jinping sembra avere lo scopo di sottrarre al passaggio forzato per il dollaro, che penalizza entrambi, soltanto gli scambi commerciali bilaterali. Cina e Russia contano molto sulle esportazioni e la credibilità delle loro valute non è molto alta. Di fatto, gli scambi cinesi e russi in valute diverse dal dollaro avvengono soltanto per motivi politici. La Cina, nonostante i dazi statunitensi, non ha fretta e punta ad un accordo internazionale che riconosca almeno altre due monete, oltre al dollaro, come riferimento degli scambi: euro e yuan. La Russia si trova in una situazione diversa: si rende conto che ogni tentativo di salvaguardare la propria sovranità e i propri interessi regionali viene contrastato dalle sanzioni americane. È penalizzata tre volte: due in campo economico e una in campo politico. In particolare: le sue risorse d’esportazione sono depotenziate nella quantità e nel prezzo (in calo per effetto della contrazione della domanda) e le sue importazioni sono penalizzate dai prezzi (in aumento per effetto della minore offerta) e dai pagamenti in dollari. La terza, e più importante, è la penalizzazione politica: sottostare ai ricatti esterni fa perdere credibilità e influenza. Ormai sono anni che nella parte continentale dell’Europa, la Russia deve subire il tentativo di espansione a Est della Nato. Il distacco dal dollaro per la Russia è diventato una questione di sopravvivenza politica in Europa e nel mondo. Tuttavia la Russia sa bene che questa misura è necessaria ma non sufficiente. L’offensiva Usa-Nato fatta di provocazioni, erosione di territori, destabilizzazione ai confini e sostegno all’eversione interna deve essere affrontata anche sul piano della sicurezza e della potenza militare. Mentre la Cina ritiene di avere tempo e vuole agire sul piano economico e finanziario, la Russia deve e vuole dimostrare di poter opporsi alle provocazioni anche con le armi. Ce n’è abbastanza per far ragionare tutti e in particolare Europa e America. Se non fosse per la debolezza politica interna, la sudditanza nei confronti degli americani e la delega permanente della propria sicurezza alla Nato, l’Unione Europea potrebbe essere la potenza equilibratrice per tutto l’Occidente e perfino per Russia e Cina; l’euro potrebbe diventare la nuova moneta equivalente per tutte le transazioni nel mondo. Ma quei “se” pesano come macigni”.

Un altro elemento del declino americano individuato da Qiao, è il fatto che la re-industrializzazione, il ritorno delle industrie trasferite all'estero (spesso in Cina) negli ultimi decenni, evocato a cominciare dal presidente Obama, sembra ormai strutturalmente impossibile e non potrà servire a correggere l'enorme surplus del debito commerciale. Se anche l'America sperimenterà nuove riprese saranno "senza lavoro". Innovazione tecnologica e finanza avrebbero raggiunto "il loro limite energetico", di qui in poi non si potrà che scendere. Le sembra un giudizio realistico?

“Mi sembra ragionevole soprattutto per il periodo in cui è stato formulato. Oggi forse sarebbe da rivedere, ma non da rigettare completamente. Gli Stati Uniti stanno vivendo una crisi dietro l’altra eppure non frenano né ambizioni né avventurismi. È vero che in larga misura il settore manifatturiero è ormai defunto, ma il dominio informatico e tecnologico è ancora forte e quello finanziario fortissimo. Non so se questi due elementi abbiano raggiunto la loro massima espressione. Anche se iniziasse una discesa non sarebbe affatto ripida e comunque i maggiori danni sarebbero per quella parte del mondo che adesso si trova in una situazione migliore proprio grazie alla spinta tecnologica. Anche il disavanzo commerciale statunitense presenta due aspetti: da un lato favorisce i cinesi e dall’altro induce gli americani a misure di contenimento proprio nei confronti della Cina. Inoltre il disavanzo manifatturiero può essere compensato dall’esportazione di strumenti e tecnologie avanzate e nel settore energetico. Da quando è iniziata la stretta americana sulla Russia e le sue risorse, gli Stati Uniti hanno moltiplicato le esportazioni di gas verso l’Europa. L’osservazione che eventuali riprese economiche saranno “senza lavoro” è giusta per chi pensa al lavoro e all’occupazione come strumenti di crescita e benessere. Quasi tutto il mondo lo pensa, ma gli Stati Uniti fanno eccezione anche in questo. Da tempo hanno abbandonato l’idea di dare lavoro per aumentare la produzione e quindi la ricchezza e non hanno mai detto che questa debba essere meglio distribuita. Anzi, la concentrazione della ricchezza in poche mani ne agevola il controllo e l’utilizzazione. Per questo, da tempo hanno sostituito i benefici del lavoro con quelli dello sfruttamento e della speculazione. Il lavoro per tutti è ormai un ammortizzatore sociale come da noi è la cassa integrazione. Il lavoro è uno strumento per tenere impegnate le masse e i sindacati sono soltanto associazioni di categoria che devono sostenere le imprese, non i lavoratori. Ogni rinnovo di contratto dipende dai profitti dell’impresa e non da quante famiglie vengono mantenute. A profitti immensi corrispondono cifre da capogiro per i dirigenti e aumenti salariali ridicoli. A perdite immense o alla bancarotta corrispondono sempre cifre da capogiro per i dirigenti e il lastrico per i salariati. In ogni caso il salario “ridicolo” ottenuto negli Stati Uniti o in Europa è un salario da sogno per i paesi più poveri. La Banca mondiale definisce povertà assoluta la disponibilità effettiva di meno di 1,90 dollari al giorno. Nel mondo oltre un miliardo di persone si trova in questa condizione di cui oltre 4 milioni negli Stati Uniti. In Cina la povertà assoluta si è azzerata in meno di dieci anni rispetto ai 90 milioni di poveri del 2012 quando fu avviato il programma di completa eradicazione della povertà assoluta. Tuttavia anche in Cina non è il lavoro a riscattare dalla povertà ma il sussidio. In Cina, il reddito pro capite è dieci volte quello del 2000 (da 940 dollari all’anno a 10.410 dollari nel 2019) e poco più della metà della popolazione rientra nella classe di reddito media secondo la classificazione della Banca Mondiale (tra 3650 e 18.250 dollari l’anno). È senz’altro un risultato importante ma è ancora di 1795-580 dollari al mese al di sotto della povertà americana. È vero che in relazione al costo e al tenore di vita, il reddito cinese vale di più, ma i cinesi che vogliono emulare gli americani, non si soffermano sui dettagli: vogliono uguale ricchezza in termini assoluti e molti di essi ci stanno riuscendo diventando milionari e acquisendo la logica americana del capitale, dello sfruttamento e dell’intolleranza verso la povertà che già ora negli Stati Uniti è diventata una colpa degli individui. L’appello di Qiao alla Cina di non emulare l’impero americano comprende anche questo, ma temo che non sarà ascoltato. Nemo propheta...”.

Una delle cose più sorprendenti del libro dell'analista militare cinese è la tesi che nei fatti gli americani sono più interessati a distruggere l’Europa dell'Euro che non la Cina. Dalla guerra Nato alla Jugoslavia all'indomani della nascita della moneta unica europea nel 1991 fino all'odierno confronto con Mosca in Ucraina, Washington sta perseguendo contemporaneamente l'obiettivo di circondare la Russia (adesso ci mettiamo anche il Kazakistan) insieme a quello di danneggiare l'Ue con l'aiuto degli stessi europei. La prospettiva di un'intesa economica tra Russia ed Europa, naturalmente favorita dalla geopolitica, è così scongiurata. Anche questa è una teoria del complotto?

“No, è un teorema dimostrato dai fatti. Di recente, a seguito delle offensive di Trump con i dazi all’Europa, alcuni analisti europei hanno riproposto la tesi che l’UE è sorta per volere degli americani e che, quindi, gli Stati Uniti non possono volerne la distruzione. È un falso storico, un maldestro tentativo di rassicurare gli europei nel momento in cui cresce il dubbio sulla lealtà del maggiore alleato. L’idea di appoggiare la formazione di una forma di Unione europea è venuta agli americani quando hanno deciso di avviare il programma di aiuti chiamato Piano Marshall. Non era un progetto politico, ma uno scopo di comodo: avevano bisogno di una controparte unita che gestisse gli aiuti. Se per questo ruolo si fosse offerto San Marino o il Vaticano sarebbe andato bene lo stesso. Durante gli ultimi anni di guerra Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti non volevano soltanto la debellatio tedesca ma ne volevano la distruzione completa. I bombardamenti a tappeto sulle città tedesche avevano molto a che fare con la distruzione totale piuttosto che la neutralizzazione della capacità bellica. Alla fine della guerra Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione sovietica approvarono il piano Morgenthau (dal nome del Segretario al Tesoro Usa) che intendeva far tornare la Germania alla “pastorizia”. Morgenthau già prima dell’ingresso statunitense in guerra aveva predicato la distruzione del popolo tedesco e della sua capacità produttiva e riproduttiva. Nella pratica, la direttiva JCS 1067 dei comandi militari alleati di occupazione applicava, anche se in versione ridotta, le proposte di Morgenthau. Di fatto nell’immediato periodo postbellico le epurazioni, le criminalizzazioni e le spoliazioni del patrimonio industriale tedesco si aggiunsero alle distruzioni belliche. In quel periodo furono registrati oltre 100.000 suicidi fra la popolazione tedesca e all’inizio del 1947 quattro milioni di soldati tedeschi erano ancora utilizzati per lavori forzati in Gran Bretagna, Francia e Unione sovietica. La prostrazione della Germania impediva però qualsiasi tentativo di risollevare il resto dell’Europa e quindi eliminava la fonte di illimitati guadagni che il dopoguerra doveva portare agli Stati Uniti.

Il piano Morgenthau fu sostituito dal piano Marshall e la gestione degli aiuti alla ricostruzione divenne la priorità statunitense. Un’apertura diretta alla ricostruzione tedesca sarebbe stata osteggiata sia dalla Gran Bretagna sia dall’Unione sovietica e il timore che l’Urss assumesse il controllo di tutta l’Europa furono quindi i motivi dell’iniziale sostegno all’Unione Europea. Un sostegno che però presto divenne un freno a qualsiasi iniziativa europea che non portasse benefici agli Stati Uniti. I contrasti non sono mai mancati neppure durante la guerra fredda quando il blocco della Nato aveva di fatto trasformato la possibile minaccia sovietica di ritorsione nucleare sugli Stati Uniti, alla certezza di una guerra di devastazione nucleare e convenzionale in Europa. Dopo l’implosione dell’Urss, i contrasti sono aumentati e alla Nato è stato assegnato il doppio compito: espandersi ad oriente e impedire all’Europa di acquisire una capacità di difesa autonoma. L’escamotage adottato dalla Nato è stato il programma di Partnership for peace (Pfp) che offriva ai paesi non Nato la possibilità di cooperazione militare.

Per qualche anno il programma fu seguito con interesse misto a sospetto anche dalla Russia che ebbe perfino una posizione di osservatore presso la Nato. Nel 1999 la Russia aderiva anche alle iniziative di sicurezza delle Nazioni Unite e di “altre organizzazioni regionali”. Tuttavia con l’ingresso nella Nato di alcuni paesi già parte del Patto di Varsavia, e la promessa ad altri di entrare nell’Unione europea come primo passo verso l’ammissione alla Nato, sono entrati nell’Ue tutti i paesi che si opponevano alla Russia e che di fatto seguivano le direttive statunitensi anti russe anche a scapito degli interessi del resto d’Europa. Da una decina d’anni gli Stati Uniti impediscono ogni autonomia europea e l’eventualità che l’euro sostituisca il dollaro è plausibile anche se è fortemente contrastata dagli Stati Uniti. Essi la temono più della sostanziale defezione europea dalle avventure americane e della Nato come già dimostrato in Medio Oriente, Nord Africa e Asia centrale. Per questo, non si faranno sfuggire alcuna occasione per costringere l’Europa a tagliare i rapporti sia politici che economici con Russia e Cina. Un corollario di questo teorema niente affatto peregrino è che tali manovre costringono sempre di più la Russia ad armarsi ed armare la Cina, se non altro per spostare il confronto sul piano geo-politico e strategico dove la deterrenza militare può fare molto di più della minaccia economica”.

Ricordando Harold Innis, che però non è mai citato, Qiao sostiene che l'utilizzo di una nuova tecnologia cambia il modo con cui la società percepisce il mondo. Così sarà proprio Internet, la più grande invenzione americana a contribuire alla fine dell'impero. La sua logica de-centralizzata porterà a un mondo multipolare dove la Cina, se riuscirà a sfuggire alla tentazione di imitare l'ultimo impero, potrà avere un ruolo di esempio e guida. Questa fiducia nel progresso tecnologico e nella missione della nazione cinese non rischia di essere un po' ingenua?

“Non solo appare ingenua ma esagerata. D’altra parte fin dal primo libro “Guerra senza limiti” Qiao Liang e il suo coautore Wang Xiangsui avevano dimostrato un’ammirazione profonda nei riguardi della potenza e della tecnologia militare degli Stati Uniti. Erano rimasti colpiti dalle capacità militari e logistiche statunitensi nella prima guerra del Golfo (1991) e non erano certo ottimisti rispetto alla strategia cinese del tempo che mirava a “combattere in un ambiente altamente tecnologico in condizioni d’inferiorità tecnologica”. Nel libro però i due autori attenuavano l’entusiasmo tecnologico individuando i rischi che la guerra condotta con altri mezzi e le “non armi” (come terrorismo e guerra finanziaria) potessero annullare anche il vantaggio tecnologico. Fu questo semplice ragionamento a scatenare la reazione americana che lo interpretò come incitamento cinese alla guerra asimmetrica e al terrorismo di stato. Nel 2015 con il libro di cui discutiamo.

Qiao Liang dimostra ancora la sua ammirazione per la tecnologia e per la capacità statunitense di guerra finanziaria sviluppata attraverso l’egemonia del dollaro. Tuttavia l’eccessivo entusiasmo viene stemperato da alcune considerazioni: 1) nonostante il vantaggio tecnologico e la potenza militare gli Stati Uniti non hanno più vinto una guerra dalla Seconda mondiale in poi, 2) la guerra finanziaria è assistita e consentita soltanto dalla potenza militare 3) i sistemi di internet possono essere chiusi o distrutti con facilità 3) le infrastrutture altamente tecnologizzate sono più sensibili alle minacce interne o esterne al sistema che le utilizza, 4) la corsa tecnologica vede alla pari Cina e Stati Uniti, ma è una parità che per la Cina è un punto d’arrivo mobile, mentre per gli Stati Uniti è un punto di partenza. Quindi, nella sfida tecnologica gli Stati Uniti mantengono l’iniziativa e in quella finanziaria detengono l’egemonia. Contare sulla tecnologia internet come strumento che da solo può fare implodere l’egemonia è una prova di approccio popolar-democratico che non è affatto adottato né dagli Stati Uniti né dalla Cina o dalla Russia. Tutte e tre le potenze mantengono la capacità di controllo centralizzato sui nodi delle reti e il decentramento avviene soltanto per questioni non strategiche o per operazioni d’influenza ideologica a lunga scadenza. Anche la presunta “missione “cinese nel mondo appartiene al campo della speculazione idealistica o alla retorica occidentale. Di fatto chi la propone pensa in termini occidentali e in particolare nei termini del radicalismo religioso anglosassone. La Cina degli ultimi 50 anni non ha mai rivendicato né agito in nome di una “missione divina”. Se negli ultimi tempi qualche cinese ha parlato di ruolo di guida lo ha fatto dando al termine il significato implicito nella concezione del Partito comunista cinese: “guida” significa farsi carico delle esigenze degli altri e di adottare un sistema virtuoso che possa soddisfare anche gli altri. Gli “altri” sono tutti i non cinesi con i quali la Cina vuole convivere senza adottare alcuna pratica imperiale. È certamente una visione idealistica.

La Cina non è tutta uguale e non è quello che Qiao Liang vorrebbe. Le divisioni interne sono più forti del senso di unità e non è soltanto un fatto di etnia. La stessa etnia dominante, la Han, è divisa al suo interno. Molti osservatori occidentali sono anche convinti che a causa delle diversità interne la Cina imploderà. Sono cinquant’anni che sento e leggo di questa fantomatica implosione o regionalizzazione o frattura come in varie occasioni è stata chiamata. Non è ancora accaduto e da trent’anni ad oggi il partito comunista cinese è passato da 53 milioni di iscritti a quasi 90 milioni. Può sembrare un numero irrisorio rispetto alla popolazione, ma è lo stesso PCC a non essere unito ed è proprio la rappresentanza delle sue varie anime a tenerlo in piedi e non la sua compattezza, come si crede. Si crede in un sistema ferreo e dittatoriale che non esiste né all’interno del partito e meno che mai nei rapporti tra potere centrale e periferico. Quello che è unitario è l’indirizzo politico economico e sociale che esce dal confronto e spesso dallo scontro interno al partito. E anche questo non è necessariamente un dogma e neppure una guida che tutti seguono ciecamente”.

L'Italia, che ospita sul suo territorio armi atomiche americane, ha storicamente una forte dipendenza da Washington. Adesso un fondo americano vuole comprare la rete di Tim, la più importante società di telecomunicazioni del Paese. Sembra un esempio perfetto di quel saccheggio dei gioielli di famiglia che, secondo Qiao, l'impero del dollaro compie ciclicamente a spese del resto del mondo. È così?

“Ha ragione nel dire che il dollaro si appropria della ricchezza prodotta dal sudore della gente in cambio di un pezzo di pane. Sostiene che il dollaro non fluttua solo in relazione alla situazione economica o geopolitica, ma segue un modello ciclico che influenza l'economia e la geopolitica. Questa brillante intuizione di Qiao è ora un fenomeno verificato da ricercatori giapponesi e cinesi. Questi studi hanno scoperto che l'indice del dollaro varia verso il basso per trentadue mesi e verso l'alto per un periodo equivalente. Il primo intervallo inizia con grandi quantità di denaro che entrano nel mercato finanziario. Questo provoca un calo dei tassi d'interesse, un maggiore accesso al credito e un aumento della produttività da parte di coloro che nel mondo hanno approfittato della liquidità. Così la ricchezza aumenta, e ci sono significativi "boom economici". Ma questa ricchezza non può essere lasciata nelle mani dei beneficiari. Così inizia l'intervallo in cui i dollari deve tornare negli Stati Uniti. Il flusso monetario diminuisce, i tassi d'interesse aumentano, i titoli americani diventano redditizi, e nuovi investimenti affluiscono alle imprese statunitensi. Il "ciclo del dollaro" si completa in 65 mesi, durante i quali gli Stati Uniti traggono profitto sia dalle "montagne russe" imposte alla finanza globale sia dalla speculazione basata sul ritorno del capitale.

Ma non dobbiamo farci illusioni, l'appropriazione della ricchezza altrui non è una caratteristica esclusiva del dollaro americano. Le grandi imprese cinesi seguono da vicino o forse hanno già superato le multinazionali statunitensi nell'accaparramento delle risorse e del lavoro altrui. Ma, anche accettando la proposta di Qiao Liang di stabilire un regime globale basato su tre valute di riferimento: dollaro, euro e yuan, il saccheggio economico non sarebbe ridotto o eliminato. Quindi la vera natura del problema non è la moneta, ma chi ne garantisce la convertibilità e la stabilità. Secondo Qiao Liang e molti altri, a fornire queste garanzie per il dollaro è un paese che vive al di sopra delle sue capacità, non permette la concorrenza, esercita l'assolutismo politico. Per mantenere il suo stile di vita, l’America prevarica gli altri e impedisce loro di svilupparsi. Fa la guerra contro tutti, nemici e amici, alleati e avversari. Qiao individua nell'egemonia del dollaro la chiave per smantellare questo potere con i mezzi della finanza e le potenzialità di Internet. Il generale cinese non si dà pace per come gli Stati Uniti esercitano l’egemonia globale: convincendo il mondo che il pericolo, economico e militare, venga da Russia e Cina e non invece da loro”.

Fonte

La sovranità è dei mercati finanziari, mettetevelo in testa

Dedicato a quei compagni che continuano a ragionare di politica secondo gli input provenienti dai talk show o dagli editoriali di regime.

Ossia agli “intossicati” di pettegolezzi, dichiarazioni, battute, retroscena (un genere giornalistico tutto italiota), “indiscrezioni” rilasciate da portaborse o segretari di partito. E che perciò, sommersi da informazione-spazzatura priva di un qualsiasi disegno razionale si ritrovano a castellare a loro volta “intorno ai nomi” invece che intorno agli interessi sociali in campo.

Dimentichi, insomma, della prima lezione dei nostri maestri: “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza.”

Condannati a non capirci nulla o addirittura a fare il tifo per questo o quel “nome” buttato lì nel calderone. Indimenticabili alcuni “marxisti per caso” che hanno tifato per il capo dei servizi segreti (quelli italiani! Quelli di Piazza Fontana e della stazione di Bologna!) “in quanto donna”. Come se per piazzare una bomba fosse indispensabile una specificità di genere...

Ma anche quelli che ha covato in fondo al cuore un speranziella per Casini (avevamo pronto il titolo, se fosse accaduto: “un Mattarella da discoteca”), Cartabia (Comunione e liberazione) o qualche altro “peone quirinabile”.

Un “pensiero politico”, insomma, dove tutto è possibile perché ridotto a “comunicazione”, giochi di parole, personaggi e progetti intercambiabili, come certe liste elettorali usa-e-getta.

Un “pensiero politico” dove i rapporti di forza sono ignorati e la “dura necessità” accantonata tra le “cose pesanti e noiose”. Tranne sottomettervisi poi, quando risulta chiaro che “non si può fare altrimenti” (“non c’è alternativa”, diceva la Thatcher).

Così, per rafforzare i giudizi e i concetti espressi più volte nei giorni del “romanzo Quirinale”, preferiamo proporvi qui la lettura di un articolo dell’Agenzia Agi. Una delle diverse agenzie di informazione, niente affatto impelagata con le paturnie “democratiche” o “di sinistra”.

Anzi, visto che è di proprietà dell’Eni, con ottime “entrature” nel mondo ovattato dei consigli di amministrazione internazionali. Principalmente europei, ma con robuste interlocuzioni internazionali.

Un modo dove le favole preferiscono raccontarle ai beoti, non bersele. E fin dal titolo il senso è inequivocabile: “Perché i mercati hanno fiducia in Mattarella e Draghi”.

La spiegazione è altrettanto chiara, a volte persino sprezzante verso chi si ostina a blaterare dei “politici” come se fossero protagonisti di qualcosa.

Il succo da trarre è a sua volta semplice, per chi voglia guardare quel che ha davanti invece di lambiccarsi l’ultimo neurone con “chissà che c’è dietro”.

Lo Stato italiano è uno Stato commissariato dai “mercati” e dal costruendo super-Stato chiamato Unione Europea.

La “sovranità” sta infatti ora nei “mercati”, non più nelle “nazioni” e tanto meno nel “popolo”. Gli antisovranisti – esattamente come i nazionalisti – non sono “democratici”, ma oligarchici, in senso stretto (i “felici pochi” che possiedono e decidono). E qualche volta lo dicono pure, anche se a bassa voce.

Alla “politica nazionale” spetta il compito di far accettare alla popolazione – divisa in classi, con livelli diversi di benessere e fonti di reddito – le decisioni perse nei consigli di amministrazione che contano, di concerto con Bruxelles (Ue) e Francoforte (Bce).

Il “patto di stabilità” inchioda tutti i livelli amministrativi “politici”, dallo Stato centrale all’ultimo consiglio municipale metropolitano. Il margine che a ogni livello viene lasciato è quello sufficiente a nutrire le (poche, ormai) clientele e cordate che servono ad assicurare un minimo livello di consenso sociale.

I “fondi del PNRR” – o del Recovery Fund – sono ora in mani considerate “sicure” e nessuno può neanche sognare di metterci il naso. Al massimo potrà consolarsi e arricchirsi continuando ad evadere il fisco (se non è un lavoratore dipendente o un pensionato, ovvio).

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Perché i mercati hanno fiducia in Mattarella e Draghi

Giandomenico Serrao – Agenzia Agi

Nelle cancellerie europee tirano un sospiro di sollievo. Così come ai piani alti delle grandi istituzioni finanziarie che detengono gran parte del debito pubblico italiano. La conferma del ticket Mattarella-Draghi, infatti, è garanzia di stabilità e continuità. E soprattutto di fiducia. “La fiducia in finanza è praticamente tutto”, spiega un analista.

E l’incertezza nell’ultimo periodo si cominciava ad avvertire. Perché la partita del Quirinale, questa volta, era strettamente legata a quella del governo. Lo sapevano i cittadini comuni così come ne erano consapevoli gli investitori dei grandi fondi e delle banche d’affari che ogni giorno fanno muovere la finanza globale.

Lo spread, termometro della fiducia

Per l’Italia lo spread rappresenta il termometro di questa fiducia. E nell’ultimo mese qualche linea di febbre si era registrata, con il differenziale passato dai 130 punti base di inizio mese fin quasi ai 150 punti base (148 pp) di giovedì 27 gennaio.

Certo ci sono in gioco anche altri fattori. Primo tra tutti la fine del programma pandemico della Bce (il Pepp, Pandemic emergency purchase programme, da 1.850 miliardi di euro), il prossimo mese di marzo. Ma nelle “stanze dei bottoni” sono pronti a scommettere che la stabilita’ politica porta anche stabilità finanziaria.

In un anno per ftse mib +21%

A ulteriore dimostrazione di ciò – da quando in carica il governo Draghi, l’indice principale di Piazza Affari, l’Ftse Mib ha guadagnato il 21,72%. Certo non è solo merito di mister ‘whatever it takes’. Nell’ultimo anno, il rimbalzo economico e finanziario si è registrato in tutto il mondo di pari passo con le riaperture delle attività, le vaccinazioni e la ripresa di una vita quasi ‘normale’.

La partita del PNRR

C’è poi la partita del Recovery fund. La gara a tappe in cui l’Italia è impegnata per non perdere i 191,5 miliardi (68,88 miliardi in sovvenzioni e 122,6 miliardi in prestiti). Nel 2021 l’Italia ha raggiunto i 51 obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr) concordati con la Commissione Europea con scadenza il 31 dicembre 2021.

Nel corso della conferenza stampa di fine anno, Draghi sottolineò come “occorre dimostrare che la fiducia degli altri Paesi europei, mostrata dando all’Italia questi fondi, è stata ben riposta”.

La fiducia che l’Europa dovrà avere nell’Italia. Nel 2022 infatti andranno centrati altri 102 obiettivi per assicurarsi la seconda e la terza tranche dei fondi europei, in tutto 40 miliardi.

Tagliando al governo?

Certo non tutto è definito. Nella maggioranza di governo, uno dei partiti ‘di peso’ come la Lega ha chiesto a Draghi una nuova fase di governo perché l’ultimo anno di legislatura non si trasformi in una campagna elettorale permanente.

“Per affrontare questa nuova fase serve una messa a punto: il Governo con la sua maggioranza dovrebbe adottare un nuovo tipo di metodo di lavoro che ci permetta di affrontare in maniera costruttiva i tanti dossier, anche divisi, per non trasformare quest’anno in una lunghissima, dannosa campagna elettorale che non serve al paese“, ha detto il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti al termine di un incontro con il segretario della Lega Matteo Salvini.

A dimostrazione che, pur se nella stabilità, quest’ultima settimana di votazioni per il Quirinale, qualche novità nel governo la porterà. E lunedì i mercati ricominceranno a giudicarci per vedere se la fiducia concessa è ben riposta.

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Come ti sfrutto facendoti divertire

Come rendere attraente un’attività intrinsecamente noiosa?

Nei Corsi Avanzati delle più prestigiose Business School questa domanda impegna i migliori cervelli.

Ayelet Fishbach, ricercatrice alla Prestigiosa Booth School of Business dell’University of Chicago, esperta di “Psicologia sociale, Motivazione del processo decisionale, Management e Comportamento dei consumatori”, in un recente studio ha censito tre modi o strategie per rendere un’attività noiosa o faticosa più intrinsecamente motivante (chicagobooth.edu).

Innanzitutto, scrive, c’è la strategia “make-it-fun” – rendi divertente l’attività. Bisogna associare all’attività incentivi immediati – mini-obiettivi. Quando la persona raggiunge l’obiettivo, il regolatore (che di solito è una macchina) eroga un token o un cookie (un biscottino).

In questo modo, scrive Fishbach, l’attenzione della persona viene deviata dall’attività vera e propria verso la gratificazione (il biscottino). Il fine diventa la gratificazione, mentre l’attività vera e propria diventa il mezzo per realizzarla.

Fishbach, esperta psicologa, non si avventura, come avrebbe fatto Zizek, in una analisi del profondo. Si limita a dire che gli incentivi sfruttano il bisogno immediato di gratificazione, soddisfano un desiderio crescente (ma minuscolo) con dosi minime e ripetute di biscotti e zuccherini, creando una dipendenza che attiva il desiderio alla sola vista del biscotto.

Non siamo lontani dalle pubblicità tradizionali che passano in TV, dove, ai signori sintonizzati su Carta Bianca, si fanno vedere cioccolatini e merendine, non tanto per promuovere la marca, quanto per dare il segnale operativo, la scossa che fa alzare dal divano e andare alla credenza – in stato di semi-coscienza.

In un esperimento con studenti delle superiori, Fishbach ha somministrato musica e merendine e ha scoperto che il piccolo incentivo aumentava l’impegno e le ore di studio. L’offerta immediata di piccoli incentivi rendeva la matematica più sopportabile.

Non si tratta di fornire un incentivo unico e corposo al termine di un lavoro, come la paga per un lavoratore. Si tratta di segmentare un’attività lineare e noiosa, dirottando l’attenzione dallo scopo dell’attività vera e propria verso il micro-incentivo.

L’incentivo deve essere piccolo, e continuo, in quanto solo se somministrato con una cadenza che alterna rapidamente movimenti di ascesa (mini-incentivo) a movimenti di discesa, si tiene ritta e salda la tensione lavorativa.

Questo metodo, usato per legare le persone alla postazione, è stato introdotto nei videogame. Solo in un secondo momento si è capito che poteva essere esportato dalle console di gioco e innestato nel processo lavorativo.

La Scienza delle Organizzazioni Complesse, quel ramo della socio-psicologia che studia il processo lavorativo, cercando metodi per incrementare la produttività del lavoro, ha cominciato a interessarsi al fenomeno catalogandolo sotto l’etichetta Gamification.

Oggi disponiamo di una vasta letteratura. Persino in lingua italiana. Ciò che si cerca di fare è esportare le tecniche di game design in contesti esterni ai giochi. L’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano, che vuol fare la sua bella figura sul mercato dell’MBA e della graduate school, ha attivato una cattedra di “Engagement e Gamification”.

Fabio Viola, che vi professa, spiega come l’intenzione è di implementare meccaniche ludiche capaci di produrre cambiamenti apprezzabili sui comportamenti e sulle performance individuali. Per esempio: un manager che proibisce i ritardi nella propria azienda sta impartendo un ordine; se invece incentiva la puntualità attraverso una classifica aziendale dei lavoratori più puntuali, sta sfruttando un mini-incentivo (V. Petruzzi).

Per i patiti di VideoGame si tratta di meccanismi stra-conosciuti. Il Tamagotchi, un videogioco giapponese, era formato da una console portatile a forma di uovo, con un piccolo schermo e tre tasti.

Il gioco era un simulatore di vita. Il compito del giocatore era prendersi cura di un piccolo animaletto (Tamagotchi), trattandolo come un animale domestico, dunque facendolo mangiare, dormire, cacare, eccetera. Il pungolo era rappresentato dalle richieste dell’animaletto, il token dal fatto di averlo tenuto in vita per quel giorno.

Poi è arrivato Pokémon GO, in cui l’obiettivo pedagogico di far camminare o uscire di casa (in contro-tendenza con i giochi più tradizionali) veniva perseguito mediante i mini-incentivi costituiti dal Desiderio di “acchiapparli tutti”.

La Gamification si affianca e supera le vecchie tecniche di Controllo del Lavoro – Kaizen, TQM, Just in time, Statistical process control, eccetera. Ippolita, un gruppo milanese di reality hacking, in un manuale di autodifesa digitale, fornisce suggerimenti molto utili per comprendere se ci si trova in un ambiente gamificato.

Se nell’ambiente la stimolazione predominante è visiva (l’occhio domina gli altri sensi); se si ha una dispercezione spazio-temporale (il tempo sembra scorrere molto velocemente); se c’è astrazione ambientale (l’ambiente esterno alla procedura non raggiunge lo stadio percettivo conscio); se c’è la tendenza all’aumento quantitativo di sessioni o di accessi; se le azioni sono semplici e ripetitive ed effettuate in modo meccanica, “senza pensare” (ricorso alla memoria procedurale), e facilmente quantificabili; se ci sono segni o simboli che misurano ed esprimono in modo quantitativo l’attività; se ci sono premi, classifiche, status, badge, ricompense; se sono assenti marche esplicite che delimitano lo spazio-tempo dell’azione; se non si utilizzano formule esplicite per entrare-iniziare nell’attività o per uscire-finire; se è impossibile cambiare le regole dell’attività in modo concordato; se ci sono tutte o molte di queste caratteristiche ci si trova in un “ambiente gamificato”.

L’esempio tipico di ambiente gamificato è Facebook, e, in genere, tutto ciò che gira intorno alla Fan Culture.

Quando la Cina ingaggia una lotta senza quartiere contro questo sistema, non sta (NON STA) privando i cittadini della loro libertà di espressione. Sta ponendo una questione che attiene alle tecniche di controllo del lavoro, tecniche pervasive in Occidente, e che si tenta di impiantare anche in Cina.

Il capitalismo non ha Nazione, non ha Ideali, non ha una Politica, attacca una cellula (anche comunista) con l’obiettivo di costruire il tandem capitale-lavoro, dove il lavoro e incentivato, anche con biscottini e zuccherini, a riprodurre se stesso e il capitale che lo sfrutta.

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Germania - Economia in retromarcia, il mercantilismo non funziona più

È una sorpresa solo per chi crede alle favole dell’ordoliberismo, ripetute da oltre venti anni su tutti i media come “verità scientifica”: la Germania, campione del bilancio in ordine, dei bassi salari e dei mini-job, tutta “orientata all’esportazione” e perciò modello di firerimento della politica monetaria della Bce nonché delle “raccomandazioni imperative” dell’Unione Europea... è rientrata in crisi.

Momentaneamente, certo, perché nel quarto trimestre del 2021 il prodotto interno lordo tedesco è diminuito dello 0,7% rispetto al terzo trimestre del 2021, in base al dato destagionalizzati dell’ufficio statistico Destatis. Peggio del -0,3% atteso dagli economisti.

Ma anche la “ripresa” era stata molto momentanea: in pratica solo nel trimestre corrispondente all’estate. Di solito quello meno brillante, data la chiusura per ferie di parecchie attività, non compensata da afflussi turistici particolari.

Per l’istituto di statistica è tutta colpa della pandemia, che ha imposto nuove restrizioni (e qualche lockdown, mirato però soltanto ai non vaccinati, che in Germania sono davvero tanti, ancora).

A guidare l’arretramento sono stati in particolare i consumi privati, diminuiti rispetto al trimestre precedente, insieme agli investimenti in costruzioni, nonostante sia aumentata la spesa pubblica per consumi.

Il dato sui consumi conferma che il “gelo salariale” non aiuta più. Il basso costo del lavoro (superiore comunque a quello italiano di parecchi punti) era stato per decenni il punto di forza della “competitività” delle merci tedesche sui mercati mondiali.

Ma proprio la pandemia – e l’aver voluto a tutti i costi mantenere i brevetti sui vaccini, impedendo che il resto del mondo fosse adeguatamente protetto dal Covid – continua a produrre strozzature nelle catene di approvvigionamento, nei processi produttivi, ritardi nelle consegne, ecc.

I vantaggi della globalizzazione – zero magazzino, tutto just-in-time – si rovesciano in problemi, frizioni, disfunzioni. E se la domanda estera cala – quando si sommano quelle diverse “strozzature” – non c’è neanche una domanda interna che possa compensare.

La crescita del pil nell’intero 2021 si è così fermata al 2,8%.

Per il momento si tratta di un problema principalmente tedesco, visto che l’economia francese nel 2021 è invece cresciuta a ritmi record da oltre 50 anni. Il pil è aumentato del 7%, ai massimi dal 1969 (coprendo quasi per intero il - 8% del 2020).

Anche nel solo quarto trimestre (quello in contrazione, in Germania) l’economia francese è cresciuta dello 0,7%. Rispetto al quarto trimestre 2019, pre-pandemia, il prodotto francese è più alto dello 0,9%.

Idem per la Spagna, il cui prodotto interno lordo è cresciuto del 2% su base trimestrale nel quarto trimestre del 2021, oltre le stime degli economisti (+1,4%). Nell’intero 2021 il prodotto interno lordo della Spagna è aumentato del 7,2%.

Dell’Italia si sapeva già. Per il 2021 la crescita arriva al 6,5%, più del 6% indicato a settembre.

Dunque la spiegazione della caduta tedesca con la sola pandemia non regge alla prova dei fatti, ed anche i corrispondenti del Corriere da Berlino sono ora costretti ad ammettere che il “modello tedesco” sta battendo la testa per le ragioni strutturali evidenziate sopra.

Ma la differenza con i dati di Italia, Francia e Spagna non deve sollevare illusioni. Tutti questi paesi, in misura e in comparti diversi, sono strettamente connessi alle filiere produttive – e dunque al tipo di modello di timing tedesco – dunque la frenata di Berlino è destinata a trasmettersi in tempi brevi su ognuno di loro.

È un problema di sistema, non di singoli. Pensare di fare profitti privilegiando la competitività delle esportazioni è stata una “furbata” ordoliberista che ha fatto il suo tempo. Ora è finita.

Qualcuno lo spieghi al “governo dei migliori”, che si stava muovendo proprio in direzione di rendere l’economia italiana più simile e “vicina” (leggi: contoterzista) a quella tedesca.

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30/01/2022

Le notti erotiche dei morti viventi (1980) di Joe D'Amato - Minirece

La Caporetto del "kingmaker"

Chi abbia vinto non è chiaro, ma sullo sconfitto non ci sono dubbi. Matteo Salvini ha gestito la partita del Quirinale come peggio non avrebbe potuto e ora si ritrova senza coalizione, in un partito che gli chiede di cambiare rotta. Nei panni (o nella felpa) del “Kingmaker”, il leader leghista si è prodotto in una serie di bluff senza senso. Innanzitutto, ha assicurato che “per la prima volta in 30 anni” il centrodestra avrebbe avuto “i numeri” per eleggere il Presidente della Repubblica. Poi ha promesso “candidature di altissimo profilo”. Infine, ha garantito che Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia avrebbero votato in modo compatto “dall’inizio alla fine”.

Dopo gli annunci, però, è entrata in gioco la realtà. E questo non è mai un bene per Salvini, che – oltre a macinare propaganda incitando all’odio contro i disperati – non sa fare proprio nulla. Lo ha dimostrato anche stavolta con un bel filotto di disastri.

Prima la rosa dei tre nomi (Moratti, Pera e Nordio), bruciati alla velocità della luce e mai sottoposti alla prova del voto.

Poi il tentativo di spallata più goffo della storia repubblicana, con l’ambiziosa Casellati – talmente pessima da piacere a Giorgia Meloni – polverizzata dai suoi stessi compagni di partito. Difficile ricordare una pattuglia di franchi tiratori più vasta e agguerrita di quella che ha impallinato la numero uno del Senato.

Ma per quanto forte sia stata, la prima sberla non deve aver convinto Salvini, che ha porto l’altra guancia per ricevere la seconda. E così è arrivata la proposta di candidare Belloni, concepita sottobanco con Conte e per questo diventata irricevibile per tutti gli altri partiti.

Quello che resta è un centrodestra a pezzi. Il disastro salviniano dà l’occasione a Forza Italia – che puntava su Casini – di smarcarsi dai sovranisti per creare una nuova area politica al centro insieme a Renzi, Calenda, Toti e "moderati" vari. Perché il progetto abbia speranze di riuscita è necessaria una riforma elettorale in senso proporzionale e – c’è da scommetterci – sarà proprio questo uno dei temi dominanti nel dibattito pubblico dei prossimi mesi.

Quanto a Meloni, ha accolto con un “non ci posso credere” la scelta salviniana di rieleggere Mattarella, per poi decretare che la coalizione “va rifondata”. La leader di Fratelli d’Italia ha lasciato l’ultima cartuccia a Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera, che su Twitter ha ripescato un post pubblicato nel 2015 dal segretario leghista: “Mattarella non è il mio presidente”, scriveva Salvini un settennato fa, definendo il Capo dello Stato un “cattocomunista” e ricordandone i trascorsi come “fondatore dell’Ulivo, vice di D’Alema e ministro con De Mita”.

La situazione non è tranquilla nemmeno all’interno del Carroccio, dove Giancarlo Giorgetti, amico di Draghi e grande sostenitore del suo trasloco al Quirinale, ha minacciato apertamente le dimissioni da ministro dello Sviluppo economico. In seguito l’allarme è rientrato – anche, pare, grazie all’intervento diretto del Presidente del Consiglio – ma il numero due della Lega ha comunque chiesto al segretario una gestione più collegiale del partito.

L’inizio del Mattarella bis, quindi, non solo mette fine alla formula del centrodestra sperimentata negli ultimi anni, ma segna anche un ulteriore indebolimento di Matteo Salvini. Che, dopo aver perso la leadership nella coalizione, ora ha perso anche la coalizione.

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Brancaccio - Critica e crescita della conoscenza in economia

Mattarella bis, la soluzione comoda

L’esito dell’elezione del Presidente della Repubblica ad un occhio attento poteva risultare già prevedibile all’indomani della famosa conferenza stampa senza veli in cui Draghi ha chiaramente messo sul tavolo la sua di candidatura. Un’ambizione che, peraltro, era più di un’ipotesi non appena “super Mario” aveva fatto il suo ingresso a Palazzo Chigi. La sua investitura quale garante, o commissario, dell’establishment euro atlantico aveva ed ha nei due ruoli apicali della Repubblica il punto di approdo, almeno nelle intenzioni, non di breve periodo. Una scelta che nasce non solo dalla evidente debolezza del sistema politico italiano ma dal combinato disposto di questo assunto con il terremoto globale in cui è immerso anche il nostro Paese.

Non c’è dubbio, però, che la sua eventuale elezione a Presidente, con il PD quale maggiore sponsor parlamentare, non avrebbe garantito automaticamente un governo con la stessa maggioranza, con la conseguente possibilità dello scioglimento anticipato delle Camere.

Tale contesto ha sicuramente scatenato in una parte rilevante del parlamento, primi tra tutti larghissimi settori del Movimento 5 stelle, la spinta a trovare la soluzione comoda che potesse tenere a galla la legislatura fino alla sua conclusione insieme alla composizione di un quadro che lasciasse più porte aperte per il futuro.

In tutto il percorso gli schieramenti, logorati da un anno di governo unitario, hanno mostrato non solo la loro debolezza ma quella dell’intero sistema politico. Il tentativo di Salvini di mantenere il doppio ruolo di capo della coalizione del centrodestra assieme a quello di tessitore per la maggioranza di governo, con il fine di eleggere un capo dello stato non proveniente dalle fila del centro sinistra, è naufragato e con esso la sua coalizione è andata in pezzi. Il PD, invece, incapace di andare oltre l’ipotesi principale di sostenere Draghi, ha giocato di rimessa nascondendo abilmente le proprie contraddizioni o riversandole nel solo campo del Movimento 5 stelle in cui Conte e Di Maio si muovono sempre più speditamente verso una collisione.

Allo stesso tempo, il desolante livello del ceto politico costruitosi con la seconda repubblica manifesta l’incapacità di autoriprodursi portando a ricorrere in queste situazioni a quel che resta della prima (Napolitano, Mattarella, Casini) mantenendo nella precarietà ogni equilibrio che momentaneamente costruisce.

Se è vero che tale contesto offre sempre più spazio ad ipotesi che possono portare ad un ulteriore arretramento del sistema democratico, con l’emergere sempre più insistente del dibattito sul presidenzialismo, è anche vero che lascia un potenziale margine anche alla possibilità di una critica complessiva che ridia voce ad un’alternativa politica, economica e sociale.

Lo stesso scenario di breve periodo evidenzia che tale opportunità è tutt’altro che assente. Le dinamiche neocentriste che hanno visto in Forza Italia, Italia Viva (ora più vicina al PD) e nel nuovo spolvero di Casini dei riferimenti in questi giorni, insieme alla possibile disintegrazione del Movimento 5 stelle e il “liberi tutti” nel centrodestra, porteranno il dibattito di quest’anno a concentrarsi sull’ennesima modifica della legge elettorale probabilmente in senso maggiormente proporzionale.

La debolezza del sistema politico sopra esposto porta continuamente a rivedere la forma elettorale per provare a rendere compatibili le esigenze di “stabilità” con quelle della composizione e la forza sempre più mutevole dei soggetti politici in campo. Non è da escludere che si punterà ad una legge che possa portare a consolidare Draghi come presidente del consiglio ben oltre questa legislatura. Fallita la sua elezione immediata a Presidente, la presenza di Mattarella garantisce, infatti, la chance di mantenere l’obiettivo iniziale di tenerlo al timone in uno dei due ruoli apicali del Paese: o con una futura staffetta al Quirinale o direttamente a Palazzo Chigi.

Il terremoto globale che la pandemia ha accelerato si è aggravato e si sta aggravando in questi mesi con la crisi Ucraina, l’inflazione e tutte le conseguenze di un’instabilità mondiale che pesa e peserà sui lavoratori e la gran parte della popolazione anche nel nostro Paese. Sembra difficile che le attuali forze politiche siano in grado di affrontarle con gli schieramenti tradizionali.

Tale contesto dovrebbe essere da sprono a ridare voce, organizzazione e protagonismo a coloro che sono esclusi dal dibattito pubblico affinché tornino a riprendersi lo spazio che meritano.

Questa necessità è fuori discussione, come dimostrano gli studenti medi che proprio mentre il Parlamento discuteva del Presidente della Repubblica urlavano tra i manganelli della polizia che alla loro età si deve andare a scuola senza il rischio di morire di lavoro.

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Irlanda del Nord - Cinquanta anni fa la “Bloody Sunday”

Cinquant’anni dopo, gli abitanti di Derry, la seconda città dell’Irlanda del Nord, ricordano i loro morti e protestano perché nessuno ha mai pagato per quanto accaduto nella Bloody Sunday.

Era il 30 gennaio 1972, ed era una domenica, quando 13 manifestanti nordirlandesi furono uccisi dai paracadutisti britannici trasformando quella tragica giornata nella “Bloody Sunday”, il giorno più simbolico dei tre decenni di conflitto in Nord Irlanda, i cosiddetti “Troubles”.

I parenti delle vittime hanno organizzato per oggi una manifestazione proprio in quelle strade dove, mezzo secolo fa, i paracadutisti inglesi del aprirono il fuoco sui manifestanti, che sfilavano per i diritti civili.

Secondo l’iniziale versione dell’esercito, era stata la reazione alle provocazioni dell’Ira, l’organizzazione indipendentista irlandese che si opponeva alla presenza dei britannici in Irlanda, ma dopo molti anni di inchieste questa versione è stata smentita, anche se solo nel 2010 sarebbero arrivati il riconoscimento dell’innocenza delle vittime e le scuse del governo di Londra.

“Dopo la battaglia di Bogside e i pogrom di Belfast contro i cattolici nel 1969, lo Stato aveva perso il controllo delle sue forze di polizia (la Royal Ulster Constabulary) ed era sull’orlo del collasso a causa delle sue stesse misure repressive” – afferma in una intervista a il manifesto, lo scrittore ed ex prigioniero politico Tom Doherty – “All’inizio del 1970 divenne chiaro che i soldati britannici erano venuti per sostenere lo Stato unionista che, a sua volta, era già coinvolto nella creazione degli squadroni della morte formati dai paramilitari lealisti e nell’attuazione di misure draconiane come l’internamento senza processo contro cui era stata convocata anche la marcia del Bloody Sunday. I parà avevano cominciato ad uccidere persone innocenti su larga scala già nel 1971 a Belfast, senza che vi fosse alcuna «complicazione» legale: quando arrivarono a Derry erano ben addestrati”.

La reazione alla strage fu l’adesione in massa dei giovani irlandesi all’Ira, che avrebbe combattuto fino all’accordo pace del 1998 (il cosiddetto accordo del Venerdì Santo) una vera e propria guerra civile che ha provocato 3.500 vittime. Nessuno dei militari dell’epoca ha mai subito un processo.

Le commemorazioni della Bloody Sunday non avverranno però sulla base di una “memoria condivisa”. The Guardian rileva che il primo ministro del DUP dell’Irlanda del Nord, Paul Givan, si è rifiutato di partecipare ad alcuno degli eventi questo fine settimana (invece, giovedì, i suoi alleati hanno commemorato l’uccisione di due agenti di polizia nei giorni precedenti la Bloody Sunday). Il leader dell’SDLP, Colum Eastwood, il cui collegio elettorale include Derry, ha affermato che il reggimento di paracadutisti è stato “mandato nella mia città per uccidere” ed ha chiesto le scuse ufficiali all’esercito. A Derry domenica dovrebbe essere presente il primo ministro irlandese, ma non, sembra attualmente, quello britannico.

In questi ultimi mesi, gli effetti della Brexit hanno evidenziato la fragilità dell’accordo di pace del 1998. Le disposizioni doganiere destinate a evitare le frontiere terrestri con l’Irlanda, ma stabilendone una di fatto con la Gran Bretagna, sono ancora motivo di trattativa fra Londra e Bruxelles, mentre a Belfast hanno nuovamente dato vita a contrapposizioni e mobilitazioni.

“Quando iniziarono i troubles nel 1968-69 fu davvero l’inizio della fine per l’apartheid dell’Irlanda del Nord. Ora credo che quel sistema sia arrivato alla fine” – commenta Tom Doherty – “L’idea dell’Irlanda in Europa dopo che gli inglesi hanno scelto la Brexit è emozionante. Tuttavia, può essere anche una fase pericolosa”.

Le prossime elezioni locali, in maggio, si preannunciano determinanti per il fragile equilibrio politico: se gli unionisti arretreranno, i repubblicani potrebbero avere la meglio e provare, come auspica il Sinn Fein, a procedere entro 5 anni con un referendum sulla riunificazione con la Repubblica di Irlanda.

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L’avatar è ancora Mattarella

Il nipote del principe di Salina sarebbe rimasto molto deluso. La sua massima – «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» – è stata rovesciata come un guanto: non si è fatta neanche la finta di cambiare nulla, e Mattarella rimane al suo posto.

Ma non tutto è rimasto come prima...

Il caos senza senso che per 15 giorni ha avvolto i tentativi di eleggere un nuovo Presidente della Repubblica rivela un ordine sottostante, comprensibile anche senza farsi aiutare da Giorgio Parisi, massima autorità mondiale in quel ramo.

Procediamo perciò con ordine.

Il custode degli assetti di potere

Nemmeno per un attimo la scelta del Presidente è mai stata una questione di nomi o “di genere”. Il ruolo che viene svolto sul Colle non ha da decenni più nulla a che vedere con quello “notarile” affidatogli dalla Costituzione. E del resto la stessa Carta è stata stravolta in più pilastri – dall’autonomia regionale all’obbligo di pareggio di bilancio – al punto da mostrare contraddizioni interne irrisolvibili in punta di diritto.

Dunque al Quirinale va mandato un garante operativo degli equilibri tra poteri riconosciuti come “legittimi”, e nell’Italia attuale – in termini sociali o di classe – ce ne sono sostanzialmente due:

a) la “borghesia nazionale”, fatta di una sterminata folla di imprese piccole e medie, da oltre un decennio alle prese con la crisi generale di sistema e tramortita infine dalle restrizioni imposte dalla pandemia, con capitali limitati e orizzonti operativi che non valicano i confini;

b) il grande capitale multinazionale, prevalentemente europeo ed “atlantico”, fatto di imprese – sia industriali che finanziarie – che strutturano il proprio business giocando su trattati continentali, legislazioni nazionali, vantaggi fiscali inventati per “attirare capitali”. A questo fanno riferimento subordinato alcune filiere produttive nazionali di non grandi dimensioni, ma con alta integrazione internazionale.

Ma ogni interesse sociale si deve rappresentare in forme istituzionali. E il contrasto continuo tra legislazione italiana e trattati europei – risolto sempre, “legalmente”, a favore dei secondi – è la forma visibile di contrasti sociali confusi nella formula “libertà di impresa”, dove ci sono sia quelli che le prendono sia quelli che le danno.

L’elezione del Presidente è stata così l’ennesima – o ultima – occasione per i “nazionalisti” di determinare un ruolo istituzionale che li aiutasse a trattare meglio, da posizioni di minor debolezza, il “programma di riforme” incorporato nel Recovery Fund ed esplicitato da ogni tappa del PNRR (528 “condizionalità” da rispettare da qui al 2026, di cui 51 già approvate, anche se non ve ne hanno parlato granché).

Del resto è noto che gli “europeisti sovranazionali” hanno dalla loro l’immenso potere del denaro – da prestare, “a fondo perduto” o rendere più caro manovrando sullo spread – mentre i piccoli “nazionalisti” hanno comunque i voti, ricevuti rappresentando o mentendo a una parte della popolazione.

Dunque, se si vogliono far vedere in azione almeno le forme della democrazia parlamentare, bisogna lasciar fare al semi-libero gioco della “politica di palazzo”. Dove ovviamente i primi hanno truppe da impiegare, ma non una visione strategica né, tanto meno, una solidità di intenti. Una maggioranza certa, insomma.

Questa disperata incursione “sovranista” ha smosso la polvere dando l’impressione del caos. Decine di nomi, più o meno improbabili, sono stati buttati nel grande falò delle vanità, scomparendo alla velocità del suono. Hanno rovistato ovunque pur di non mandare sul Colle “l’estraneo” che decide su tutto senza avere un solo voto.

Poi, ci dicono le cronache, Mario Draghi ha fatto la telefonata risolutiva chiedendo a Mattarella “il sacrificio” di tornare al suo posto.

E la polvere si è posata. “La politica” si è arresa alla propria impotenza.

Problemi rimandati

Ma non è rimasto tutto come prima. Lo spappolamento della classe politica attuale, la peggiore di sempre, ha subìto un’accelerazione robusta. Il prossimo Parlamento, tra un anno, sarà inoltre molto più “snello”. Di fatto, molto meno importante, sicuramente meno rappresentativo.

Mattarella ha teoricamente sette anni di tempo per governare i prossimi passaggi e passare lo scettro a SuperMario. Ci sarà da far svolgere le prossime elezioni politiche (marzo 2023) e poi digerirne i risultati per formare il governo.

Da qui ad allora andrà portata a termine la distruzione delle pallide “alternative” gonfiate dalle elezioni del 2018. Quella dei Cinque Stelle – con l’ultima, clamorosa, spaccatura tra Di Maio da una parte e Conte-Grillo dall’altra – è quasi realizzata.

La “variabile impazzita” di Matteo Salvini andrà invece affidata alle battaglie intestine della Lega, con Giorgetti incaricato di realizzare il fratricidio (o il drastico ridimensionamento). In fondo l’hanno già fatto con Umberto Bossi, possono farlo di nuovo.

Ci avviamo quindi a vivere un 2022 fatto di grandi conflitti a parole, su questioni secondarie (a fini elettorali, come sempre), mentre Mario Draghi e i suoi “tecnici” portano a risultato, nel quasi completo silenzio, le oltre cento “riforme chieste dall’Europa”. Poi i fuochi di artificio elettorali e, forse, a polvere di nuovo posata, la prossima puntata del “romanzo Quirinale”, ma senza opposizioni possibili al Drago del Britannia.

La politica che non rappresenta

Va insomma verso la conclusione un lungo processo storico di svuotamento del potere politico a favore del potere dei mercati. Che porta con sé la riduzione della “politica nazionale” a “prassi amministrativa” che realizza decisioni prese in altri ambiti e ad altro livello.

Nulla di misterioso e complottistico, però. Esistono altre istituzioni, visibilissime, alla luce del sole, che assumono “sovranità” e compiti propri fin qui degli Stati-nazione, abbozzando ormai perfino un “esercito europeo”. Si tratta insomma di aprire gli occhi su quel che abbiamo davanti, non di andare a cercare “che c’è dietro”.

In questo quadro, a livello nazionale, scompare “la politica” come “mediazione tra interessi sociali legittimi”. E scompare proprio perché una lunga serie di interessi sociali – primi fra tutti quelli di lavoratori e ceti popolari – vengono per principio esclusi dall’ammissibilità.

Ma anche per “i borghesi” si impone una radicale distinzione in base alla quantità di capitale gestito. Bottegai al dettaglio, gestori di palestre o discoteche, ecc. non possono pensare di “decidere” alcunché quando sono in campo interessi da centinaia di miliardi. Ed anche i loro “partiti” devono prenderne atto, riciclandosi. Se sanno farlo.

Sembra tutto semplice, ma qui si allarga a dismisura l’eterna voragine tra “decisori” e popolazione. Gestire un paese – o un continente – con la logica tipica di una multinazionale o di un fondo di investimento non è possibile, a lungo andare. È facile, infatti, strangolare un governo come è stato fatto nel 2015 in Grecia. È difficile costruire in quel modo un consenso sociale duraturo. E non c’è mago della “comunicazione” che possa risolvere a colpi di slogan o “narrazioni” una realtà che degrada.

Istituzioni senza popolo

È il quadro vagamente distopico di un potere estraneo, capace di imporsi ma non di persuadere. Comunque la si guardi, non somiglia neanche lontanamente alle favole sulla “democrazia liberale”. E le manganellate distribuite a piene mani sugli studenti sembrano più un anticipo di futuro che un revival repressivo del passato.

Siamo in un momento di forte torsione dei fondamenti del potere. Persino il principe di Salina resterebbe sorpreso e spiazzato.

Fonte

29/01/2022

Harmony (2015) di Michael Arias e Takashi Nakamura - Minirece

Culture e pratiche di sorveglianza. In balia dell’Incoscienza Artificiale e dell’algocrazia

di Gioacchino Toni

«Il punto è che non esiste una protesi cerebrale artificiale che sia intelligente; il calcolo senza significato può al massimo esprimere l’ossimoro dell’“intelligenza incosciente” […] La perdita di conoscenza e di autonomia fanno parte di un processo iniziato nel Ventunesimo secolo, nel corso del quale stiamo invertendo il rapporto gerarchico tra noi e le macchine. Oggi siamo sempre più portati a mettere in dubbio la risposta a una nostra domanda dataci da una persona, oppure quella di un assistente virtuale?» Massimo Chiariatti

«gli algoritmi sono pur sempre progettati da esseri umani, sono opachi, ossia poco trasparenti, e perseguono non solo obiettivi di efficienza, ma ancor più di profitto. Quando imparano dall’esperienza, poi, tendono a replicare i pregiudizi umani» Mauro Barberis

Nonostante si tenda a pensare all’Intelligenza Artificiale antropomorfizzandola, come se si trattasse di una macchina in grado di prendere “sue” decisioni ponderate, questa si “limita” a elaborare una mole di dati non governabile dagli esseri umani e a farlo con una velocità altrettanto al di sopra dalle loro possibilità. Per gestire le informazioni disponibili l’essere umano ha sempre teso a esternalizzare alcune funzioni del suo cervello estendendole nello spazio e nel tempo; sin dalla notte dei tempi l’umanità ha fatto ricorso a protesi tecnologiche per superare i suoi limiti fisici e cognitivi ma giunti alla digitalizzazione delle informazioni queste sono talmente aumentate che per la loro gestione si è resa necessaria una tecnologia sempre più sofisticata e performante soprattutto in termini di velocità di elaborazione.

La sempre più frenetica società della prestazione tende a vedere nella lentezza umana un limite a cui necessariamente sopperire attraverso la tecnologia ma occorre chiedersi se davvero questa lentezza debba per forza essere intesa come un limite dell’umano rispetto alla macchina o piuttosto come un valore che lo distingue irriducibilmente da essa. Se la lentezza umana viene vista come il tempo della coscienza, della possibilità di porsi delle domande, allora la velocità di elaborazione della macchina non è per forza di cose un valore sminuente l’umano.

Anziché pensare all’intelligenza artificiale come a macchine “intelligenti” capaci di decidere al posto dell’essere umano, conviene prendere atto di come queste non siano altro che esecutrici di istruzioni e pregiudizi umani sotto forma di numeri e formule che lavorano sui dati loro forniti senza prendere in considerazione facoltà tipicamente umane come le emozioni, la responsabilità o l’immaginazione. Le macchine cosiddette intelligenti, infatti, si limitano ad “apprendere” in maniera decontestualizzata dai dati derivando da questi anche, come detto, i pregiudizi umani, dunque occorrerebbe una certa cautela nel permettere loro di prendere decisioni capaci di influire sulla nostra vita e quella del Pianeta.

Una macchina che sta imparando dai dati, si usa dire che “apprende” ma in realtà sarebbe meglio essere consapevoli che nell’elaborare dati in fin dei conti in maniera statistica questa “prende decisioni” che però non sono affatto “intelligenti”, tanto che è sempre più difficile comprendere i motivi da cui derivano particolari decisioni. Occorre inoltre tenere presente che i dati non vengono lasciati alle macchine in sé ma ai soggetti che le possiedono e che hanno precisi interessi.

È attorno a questioni di tale portata che riflette il volume di Massimo Chiariatti, Incoscienza artificiale. Come fanno le macchine a prevedere per noi (Luiss University Press, 2021), analizzando la natura dell’intelligenza artificiale e le implicazioni della sua interazione con l’essere umano.

Lo studioso ricorda come il concetto stesso di Intelligenza Artificiale – introdotto attorno alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso – sia sempre stato assai dibattuto all’interno della comunità scientifica; se già di per sé è difficile definire in maniera univoca il concetto di “intelligenza”, non di meno anche l’aggettivo “artificiale” crea qualche problema implicando che «a monte rispetto al lavoro delle macchine ci sono sempre operazioni umane, dunque basate sulla biologia», pertanto, suggerisce Chiariatti, sarebbe il caso di «sostituire “intelligenza”, che ha un’accezione positiva, con “incoscienza”, poiché gli algoritmi, eseguendo regole che imparano autonomamente dai dati, producono risultati senza alcuna comprensione e coscienza di ciò che stanno facendo»1.

Le macchine, anche le più sofisticate, possono certamente essere confrontate all’essere umano in termini di abilità, non certo di intelligenza se si ritiene che questa abbia a che fare con la comprensione e la coscienza di quanto si sta facendo. Ma, nota lo studioso, il sogno umano di «poter essere creatori si esplicita nel linguaggio quando si assegnano i nomi agli aggetti, come se, per esempio, il termine “apprendimento” (learning) in machine learning avesse lo stesso significato che ha per noi»2.

Nel relazionarsi con le macchine l’essere umano non ha a disposizione un vocabolario neutrale con cui descrivere i fenomeni artificiali. Se per gli umani apprendere significa «modificare perennemente la mappa neuronale del cervello, e nel caso del linguaggio, aggiungere un significato simbolico»3, per la macchina “apprendere” significa far ricorso all’inferenza statistica, «ossia prendendo dalle coppie di dati per cui la relazione dell’input e dell’output è conosciuta (es. gli animali con le strisce sono zebre). Dando continuamente in pasto alle macchine queste coppie (input e output) possiamo fare in modo che fornendo solo l’input (strisce) sia possibile ottenere dalla macchina l’output probabilmente corretto (zebre)»4. Probabilmente, appunto, in quanto si tratta pur sempre di un risultato di ordine statistico derivato dalla regola appresa dalla macchina “allenandosi” sulle coppie di dati forniti.

Mancando alla macchina la capacità astrattiva necessaria nella realizzazione di un processo analitico e inferenziale diventa difficile parlare davvero di apprendimento. Se il mero apprendimento dai dati si sostituisce a una programmazione esplicita, ossia al fornire all’elaboratore tutte le istruzioni relative al lavoro che deve compire, l’essere umano finisce per perdere il controllo sulle decisioni non essendo nemmeno in grado di comprendere come queste siano state prese dalla macchina: all’aumentare della complessità del mondo e al delegare alle macchine la costruzione di modelli corrisponde l’associare l’intelligenza alla mera ottimizzazione statistica che fa a meno del porsi domande.

Quello che è certo ora è che la nostra cultura ha generato la natura delle macchine, che diventa la loro “conoscenza innata artificiale”. In altre parole, tutto quello che noi abbiamo espresso manualmente, verbalmente e in forma scritta, e che abbiamo trascritto in database, è entrato nella formazione delle macchine. […] Cosa ha ereditato la macchina? I dati, comprensivi dei nostri pregiudizi. E cosa sta imparando? A fare previsioni, al posto nostro5.

Tutto ciò, sottolinea Chiariatti, deve indurre a riflettere circa le conseguenze in una società algoritmica sia delle modalità con cui le macchine, con la loro “Incoscienza Artificiale”, giungono alle loro conclusioni/decisioni sia a come rapportarsi nei loro confronti.

Si è soliti tipizzare diversi livelli di IA. Nella IA Debole, che è il livello attuale dell’evoluzione informatica, in cui l’elaboratore è dotato di competenze specifiche ma non comprende le operazioni che compie: si tratta di una IA orientata agli obiettivi, progettata per apprendere o imparare a completare compiti specifici come il riconoscimento facciale o vocale, guidare un veicolo o svolgere una ricerca in Internet. Si tratta di un sistema che può operare in maniera reattiva, senza avvalersi di un’esperienza precedente, o sfruttando una memoria di archiviazione dati, per quanto limitata, in modo da poter ricorrere a dati storici per prendere decisioni. Occorre fornirgli regole e dati in quantità per simulare processi ma non vi è alcuna riproduzione del pensiero umano. Nella IA Forte si sfruttano invece strumenti come l’apprendimento profondo (deep learning) al fine di affrontare i compiti del cosiddetto Sistema 2 (ragionamento, pianificazione, comprensione della causalità). L’obiettivo in questo caso è avvicinarsi all’intelligenza umana simulando il ragionamento causa-effetto anche se resta l’incapacità della macchina di porsi dubbi e domande circa il suo operare. L’IA Generale, invece, resta la visione per così dire fantascientifica che pretende di trasferire il contenuto del cervello umano nella macchina così che questa possa comportarsi al pari dell’umano.

Sempre più industrie manifatturiere dipendono dalle piattaforme digitali affiancando all’inevitabile uso di Internet il ricorso all’intelligenza artificiale, tanto che colossi come Predix (General Electric) e MindSphere (Siemens) si contendono il monopolio delle piattaforme industriali indispensabili anche per lo sviluppo dell’IA.

A tal proposito, nel volume di Mauro Barberis, Ecologia della rete. Come usare internet e vivere felici (Mimesis, 2021), viene evidenziato come la pandemia abbia accelerato tali processi soprattutto nell’ambito della logistica e nella diffusione dello smart working che ha assunto sempre più le sembianze del lavoro a cottimo deregolamentato a vantaggio di “padroni impersonali”.

Secondo lo studioso il punto di passaggio fra Internet e IA potrebbe essere indicato nell’Internet delle cose (Internet of things, IoT) [su Carmilla 1 e 2], cioè nel momento in cui a comunicare fra loro in wireless sono oggetti identificati da protocolli Internet. Scrive a tal proposito Barberis:

Dagli oggetti che funzionano in assenza dei padroni di casa o che si accendono da soli al loro arrivo (domotica), agli edifici e alle città intelligenti (smart), dai robot, dispositivi non necessariamente somiglianti agli umani, che svolgono gran parte delle operazioni di montaggio e assemblaggio nell’industria manifatturiera, sino alle auto senza guidatore sperimentate dalle industrie californiane, le applicazioni dell’internet delle cose sono ormai tante e così invasive da aver prodotto anche reazioni di rifiuto. In effetti, tutte queste applicazioni dell’IA presentano due somiglianze importanti e anche inquietanti. La prima è essere collegate tramite internet a un server centrale, al quale cedono dati da analizzare e poi da usare su utenti e consumatori. […] La seconda somiglianza è che il funzionamento dell’internet delle cose, e più in generale dell’IA ristretta, limitata ad applicazioni come domotica e robotica, è regolato da algoritmi: modelli matematici tramite i quali i progettisti possono non solo regolare il funzionamento di elettrodomestici o macchine industriali, ma permettere loro di imparare dell’esperienza, autonomizzandosi. Dall’internet delle cose, d’altra parte, l’uso degli algoritmi si è presto esteso ad altri settori dell’IA che coprono ormai interi settori della vita umana6.

Se da un lato il ricorso ad algoritmi permette di potenziare la razionalità umana a livello decisionale grazie a modelli matematici apparentemente imparziali che dispongono di una maggiore conoscenza dei dati, dall’altro resta il fatto che gli algoritmi sono pur sempre progettati dagli esseri umani, sono poco trasparenti, e perseguono, replicando i pregiudizi umani, esclusivamente obiettivi di efficienza e, soprattutto, di profitto. Ragionare sull’IA, sostiene Barberis, porta a domandarsi

dove stia il criterio distintivo fra l’uomo e la macchina, e se per caso questo non consista – invece che nella razionalità strumentale, replicabile da computer o algoritmi – nella sensibilità, prima animale e poi umana. Questa sensibilità non s’esaurisce negli organi di senso, riproducibili anch’essi da sensori artificiali. […] Semmai, consiste nell’empatia: la capacità di provare compassione. Oppure, sta nel dubbio che a volte ci sfiora già oggi, e che ingegneri robotici chiamano uncanny valley: quelli che ci circondano sono ancora umani, oppure loro repliche imperfette?7.

Sempre a proposito di algoritmi, Chiariatti puntualizza come questi si limitino ad analizzare

le relazioni nei dati – non i valori o il significato che rappresentano. Perciò l’algoritmo non “predice” e non “pensa”, ma si limita a costruire modelli seguendo le nostre orme. In altri termini, l’algoritmo è un meccanismo produttivo che usa i nostri dati come materia prima: scova le correlazioni ed estrae le regole. L’IA è quindi una creatrice di regole, seguendo le quali costruisce una sua rappresentazione del mondo. Ma lo fa in modo irresponsabile. Tutto il lavoro di apprendimento culmina in un risultato che ha del misterioso8.

Se di per sé nell’atto di automatizzare non si può che vedere una forma di delega, nel contesto tecnologico contemporaneo ciò comporta problematiche quanto mai inquietanti alla luce del fatto che

in rete si diffondono fatti non spiegabili scientificamente, rilanciati da macchine autonome (bot) basate su algoritmi che prevedono il comportamento umano. Definiamo fake news queste notizie prive di alcuna valenza scientifica, come facilmente possiamo verificare provando a risalire alle loro fonti. Ma come faremmo a riconoscere le fonti, se a generarle fossero macchine autonome? Questa è un’altra ragione per cui non ci possiamo fidare della conoscenza empirica su quello che accade alla macchina, non è corretto parlare di Intelligenza Artificiale, perché si tratta solo di un poderoso calcolo numerico9.

A questo si aggiunga la faciloneria che domina su social e blog, da cui non di rado si alimenta la stessa “informazione orientata” ufficiale che, più che pianificata a tavolino da qualche diabolico stratega, pare frequentemente generarsi dalla superficialità imposta dai tempi ristretti dettati dalla società della prestazione in cui i momenti di necessaria riflessione risultano nella pratica banditi [su Carmilla].

Mentre diviene impossibile comprendere come la macchina sia giunta a prendere decisioni, il business delle piattaforme online derivato proprio dal ricorso all’IA e da chi ha saputo utilizzarla in maniera profittevole, sembra avanzare in maniera inarrestabile. Sappiamo però, a volte anche per esperienza diretta, quanto le correlazioni ottenute dalle macchine possano essere del tutto casuali. Le macchine possono infatti individuare correlazioni tra fatti del tutto privi di cause comuni. La correlazione non implica causalità: una correlazione statistica, da sola, non dimostra un rapporto di causa-effetto; spiegare correlazioni richiede teorie e conoscenze approfondite del contesto sociale e culturale.

Grazie alle deleghe sempre maggiori che vi si accordano, i sistemi di IA stanno assumendo, una loro autonomia. «Quando un oggetto fa esperienza del mondo in autonomia e interagisce tramite il linguaggio, il divario che lo separa da un soggetto sta per colmarsi. La soggettivazione algoritmica non prevede più la dicotomia “noi o loro”»10. Mentre l’essere umano ricorre a un oggetto per potenziare la creatività, ora sembra proprio che l’oggetto utilizzi la creatività umana espressa nei dati in forma scritta, orale e visiva per potenziare le sue previsioni. Ed è proprio grazie alla capacità predittivia che prosperano e dominano le grandi piattaforme della Rete analizzate da Luca Balestrieri [su Carmilla].

Le piattaforme online si sono trasformate in soggetti che operano nella politica, dotati di micidiali armi economiche. Sono quasi diventati “Stati privati”, tanto grande è il loro potere. Ma come si sostentano? Con i dati, anzi, con i loro produttori. Cioè noi. Vediamo Stati che cooptano aziende per colpire altri Stati e aziende che si alleano tra loro controllando Stati interi. […] Sono entità che ricordano fortificazioni medievali e che definiamo più prosaicamente walled garden (“giardini recintati”), ossia piattaforme chiuse, ma la cui chiusura non ha lo scopo di ostacolare tanto l’accesso, quanto l’uscita […] All’interno di questi giardini non ci sono più cittadini eguali di fronte alla legge, ma sudditi che temono di essere esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che oggi equivale alla morte sociale. Questi muri non servono per difendersi, ma per evitare che i sudditi, i produttori di dati fuggano. I proprietari hanno già dalla loro parte milioni di persiane in giro per il mondo, evangelizzatori a titolo gratuito che professano la fede nei servizi free. Gli agognati virtual badge (come il badge blu per gli account di interesse pubblico su Twitter) sono i corrispettivi dei titoli nobiliari, perché danno sostanza a una gerarchizzazione in cui la posizione si basa sulla vittoria al gioco dei follower e sul rispetto delle regole del sistema11.

Questi “nuovi Stati”, sottolinea Chiariatti, pur essendo spersonalizzati e smaterializzati non sono affatto depoliticizzati, in quanto dotati di un potere che esercitano in tutto il mondo: «il loro non è un business model, ma uno State model, di successo e, al momento, a prova di futuro»12. Tali piattaforme potrebbero presto tentare di farsi anche banche centrali emettendo le loro forme di denaro e nel caso le loro valute globali e scalabili si sganciassero dai sistemi monetari classici, le piattaforme potrebbero davvero dirsi Stati a tutti gli effetti. Non si tratta più di cogliere la minaccia esercitata dal potere economico nei confronti della democrazia: «ora il rischio maggiore è un regime di omologazione algoritmica globale in cui i cittadini, non potendo più prendere decisioni, avranno perso il controllo sui loro dati, la loro attenzione e il loro denaro»13. Si potrà parlare in tale caso di “algocrazia”; ossia di un sistema in cui a decidere saranno gli algoritmi.

I sistemi di AI derivano buona parte dei dati di cui necessitano dagli smartphone e chi tra le grandi aziende saprà raccogliere più dati setacciando quelli di miglior qualità o produrre algoritmi più efficienti ed efficaci dominerà sulle altre e sugli individui. Si tratta di una guerra tra grandi corporation che coinvolge con le sue conseguenze gli esseri umani sin da prima di nascere, come ha spiegato fornendo esempi in quantità Veronica Barassi [su Carmilla 1 e 2].

Invocare libertà impugnando un cellulare con la preoccupazione di postare al più presto sulle piattaforme social tutta la sete di libertà posseduta tradisce l’impossibilità di liberarsi da quei graziosi walled garden di cui si continua, nei fatti, ad essere prigionieri nel timore non solo di essere altrimenti esclusi dall’accesso alle informazioni, cosa che, come detto, equivale di questi tempi alla morte sociale, ma anche dall’occasione di trasmetterne a propria volta in un contesto però, come visto, profondamente viziato. Un cortocircuito da cui è indubbiamente difficile difendersi.

Note

1) Massimo Chiariatti, Incoscienza artificiale. Come fanno le macchine a prevedere per noi, Luiss University Press, Roma, 2021, p. 19.

2) Ivi, p. 21.

3) Ivi, p. 21.

4) Ivi, p. 22.

5) Ivi, p. 24-25.

6) Mauro Barberis, Ecologia della rete. Come usare internet e vivere felici, Mimesis, Milano-Udine, 2021, pp. 41.

7) Ivi, pp. 51-52.

8) Massimo Chiariatti, Incoscienza artificiale, op. cit, p. 57.

9) Ivi, p. 62.

10) Ivi, p. 81.

11) Ivi, pp. 84-85.

12) Ivi, p. 86.

13) Ivi, p. 87.

Fonte