Gestire un sistema, nel pieno di una pandemia mondiale, non è per nulla facile. Specie se hai completamente sbagliato le scelte iniziali – la mancata “zona rossa” in Val Seriana e in tutta la bergamasca, a marzo 2020 – e hai continuato sulla stessa strategia perdente (“convivere con il virus”).
Un sistema complesso – e la società capitalistica occidentale lo è di sicuro – accumula nel tempo processi, distorsioni, deficit, che sono conseguenza di mille micro-eventi a margine della scelta sbagliata iniziale.
Come per i problemi ambientali, “per un sistema complesso, altamente non lineare, si presentano delle soglie oltrepassate le quali il sistema evolve in modo assolutamente incontrollabile e imprevedibile”.
All’inizio della pandemia, in assenza di vaccini, noi vedevamo la possibile soluzione nella “strategia cinese”, detta “zero covid”: ossia lockdown della durata necessaria a testare tutta la popolazione residente in un territorio-focolaio limitato, per poi tornare a una vigile normalità (pronti a fermare localmente ogni attività all’emergere di un nuovo focolaio).
Un sistema che prevede, come si sa, un attento tracciamento dei contagiati e dei loro contatti, da sottoporre a quarantena preventiva – non certo in regime di ”autodisciplina” – in modo da fermare con una relativa certezza la diffusione del virus.
Un strategia rifiutata da tutte le Confindustrie occidentali, terrorizzate di perdere piccole quote di produzione e dunque di profitti. E che proprio i cinesi hanno dimostrato essere quella più utile. Non solo per salvare il massimo numero di vite umane, ma anche per far marciare l’economia ad alti livelli nonostante piccoli e temporanei stop a livello locale (comunque milioni di persone, essendoci lì 1,4 miliardi di abitanti).
Basta guardare ai dati del Pil di Cina ed Europa per vedere la differenza. Lì si è avuto un solo trimestre pesantemente negativo, seguito poi da ben sette trimestri tutti fortemente positivi. Qui – e i dati italiani sono addirittura i migliori della media Ue – un intero anno terribile, seguito da una ripresa che non è ancora riuscita a riportare ai livelli precedenti la pandemia, ma già minacciata dalle conseguenze della “quarta ondata”.
Il vero dato tenuto d’occhio dai governi neoliberisti è stato il tasso di occupazione dei letti ospedalieri, in sistemi sanitari pubblici ridotti all’osso da oltre un decennio di tagli e privatizzazioni.
E quindi tanti piccoli stop and go in attesa dei vaccini, che sono fortunatamente arrivati molto presto, ma si sono rivelati anche assai meno decisivi delle attese.
Di errore in errore si è così creata una situazione fuori controllo. Nessuno sa, nell’Occidente neoliberista, quanti siano e chi siano i contagiati; la circolazione – almeno entro i confini nazionali – è totalmente libera, non tracciabile, senza limitazioni (se non l’obbligo di mascherina in luoghi chiusi), tranne che per i non vaccinati. Rapidamente eletti a unica causa del perdurare della pandemia, per nascondere la follia criminale dei governi.
Hanno così deciso di lasciare che il virus dilaghi ovunque, senza limiti. Virologi un tempo autorevoli come Anthony Fauci garantiscono che ce lo prenderemo tutti. E’ quel diceva Boris Johnson, che aspettava l’”immunità di gregge” anche prima dei vaccini (e finché non è finito lui stesso intubato, sull’orlo dell’abisso).
Altri garantiscono che “per i vaccinati” è “come un’influenza”, e andrebbe trattata come tale. Ossia senza far nulla, al massimo “raccomandando” una dose annuale di vaccino. È quel che dicevano Bolsonaro e Trump, anche loro finiti in ospedale, ma con livelli di cura certamente più elevati di quelli garantiti a cittadini qualunque.
Resta il problema della paura, perché noi tutti, che vediamo parenti e amici ammalarsi, finire all’ospedale e qualche volta morire, o che ci finiamo a nostra volta, sappiamo per esperienza diretta che non è affatto un’influenza.
Il bollettino giornaliero che dà conto di contagi, ricoverati e morti diventa così un “inutile stress”, secondo chi deve governare. Amministratori di regione chiedono apertamente di taroccare i dati togliendo dal mazzo quelli che arrivano in ospedale per altra causa e risultano anche positivi al Covid.
Per gli ospedali non cambierebbe niente – isolamento, percorsi differenziati, ecc – ma al pubblico a casa si potrebbero ammannire numeri meno choccanti…
E pure gli “asintomatici”… “Che li censiamo a fare, tanto mica sono malati…” Ma sono infettivi, scemo! E dunque ripropagano il virus a loro insaputa, favorendo il contagio di decine di persone, tra cui molti “fragili” e anziani. Nonché le possibili mutazioni che ritornano come “varianti”, le quali rendono obsoleti i vaccini (ormai solo due) che è stato deciso di usare.
La paura è una febbre sociale difficile da governare. Una volta suscitata o enfatizzata, nella speranza che questo facilitasse il “disciplinamento” generale, è complicato farla rientrare. Come il dentifricio nel tubetto, una volta premuto.
La paura è una febbre sociale giustificata, oltretutto, in questo caso. Perché c’è un virus che semina malattia e morte, nonostante i vaccini.
E quindi a dei governanti menefreghisti sembra logico ricorrere alla più antica consuetudine criminale: rompiamo il termometro che misura la febbre – la raccolta dei dati, secondo criteri scientifici condivisi – così nessuno sa più quanto la febbre stia salendo.
“Far finta di essere sani”, cantava Gaber. Ora è la parola d’ordine di tutti i governi occidentali.
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