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25/01/2022

L’alternanza scuola-lavoro e le mille facce dello sfruttamento

21 gennaio 2022: uno studente di 18 anni è morto sul lavoro, in una fabbrica. Quello che può sembrare l’incipit di un enigma, di un indovinello, è in realtà la cruda realtà. Una realtà spietata e ingiusta, fatta di molteplici antagonisti e tante vittime protagoniste, lavoratori presenti e futuri, immolati sull’altare del profitto.

Lorenzo stava lavorando in fabbrica nell’ambito della famosa “Alternanza Scuola-Lavoro”. Lavorare non dovrebbe essere il termine da usare, perché Lorenzo era uno studente e in fabbrica avrebbe dovuto – in teoria – migliorare la sua formazione, non lavorare, ma è il termine adatto a questa vicenda. Alla sua e a quella di tanti altri studenti che si trovano dove non dovrebbero.

Introdotta dal Governo Renzi nel 2015 nell’ambito della riforma denominata “Buona Scuola”, l’Alternanza Scuola-Lavoro viene spacciata come un mezzo per favorire l’approccio dei giovani al mercato del lavoro, migliorarne l’occupabilità, aumentarne le competenze, ridurne il rischio di disoccupazione. Le menzogne e l’approccio classista trasudano da tutti i pori e ci conducono a riflessioni che coinvolgono la scuola, il mercato del lavoro e il funzionamento di un’economia capitalistica in toto.

Potremmo, ad esempio, iniziare con una domanda. È supportata dall’evidenza empirica e teorica l’idea che fornire i giovani di specifiche competenze (invece che garantire loro una formazione ad ampio spettro) ne incrementi le chance occupazionali? La risposta, in questo caso, non può che essere netta: no! Attribuire la disoccupazione alla scarsa occupabilità dei lavoratori a causa di particolari caratteristiche individuali e di una formazione non adeguata, perché non in linea con le esigenze del mercato del lavoro, è una reclame che viene ripetuta a tambur battente da media e politici di ogni razza. Lo abbiamo sentito dire a riguardo del Reddito di Cittadinanza, quando si accusavano i giovani di essere schizzinosi e di preferire la nullafacenza a certi tipi di mestieri ritenuti troppo faticosi; abbiamo sentito dire al ministro Cingolani che una scuola moderna avrebbe dovuto fornire competenze tecniche invece che indugiare, con presunto accanimento, nello studio delle Guerre Puniche. Abbiamo addirittura sentito esponenti di Confindustria scrivere ai genitori per sconsigliare l’iscrizione dei figli ai licei. E poi abbiamo a più riprese smentito punto per punto questa retorica: quanti posti di lavoro esistono in un dato momento, in una data economia, dipende da quanto questa economia sia in grado di spendere, cioè di quanti beni e servizi essa domandi. Ma quanti beni e servizi vengono domandati dipende da quanto lo Stato si impegna in consumi ed investimenti e anche da quanto decidono di consumare i lavoratori. Data questa premessa, è gioco facile comprendere come mai in Italia i livelli di occupazione e anche le posizioni richieste dalle imprese sono incredibilmente basse: avanzi primari e austerità caratterizzano la politica economica da decenni stringendo i cordoni della spesa pubblica; salari stagnanti e tra i più bassi d’Europa, come certificato anche dal drammatico numero di lavoratori poveri, sono un limite ai consumi.

Vi è poi un portato particolarmente odioso di questa retorica, delle varie riforme della scuola e dell’Alternanza Scuola-Lavoro. Un portato classista che si concretizza nella volontà di mantenere inalterate, di generazione in generazione, le condizioni sociali di partenza. Così, se nel 1962 è stato abolito l’avviamento professionale, un percorso di formazione esclusivamente votato ad “imparare un mestiere”, con il tempo sono state reintrodotti canali di istruzione molto simili. Si tratta dei cosiddetti percorsi di Istruzione e formazione professionale (IFP), vale a dire percorsi di formazione alternativi ai licei o agli istituti tecnici nei quali gli studenti sono impegnati, tra le aule e le aziende, nell’apprendimento di una specifica professione. Un percorso più breve che non consente automaticamente l’accesso all’Università. Un percorso che mira, dunque, sin dalla prima adolescenza, a formare non cittadini, ma lavoratori adatti e pronti a soddisfare le sole esigenze delle imprese.

Se nei licei e negli istituti tecnici l’Alternanza Scuola-Lavoro si concretizza, in gran parte dei casi, in progetti di approfondimento votati al conseguimento di “competenze trasversali”, nei centri di Istruzione e Formazione Professionale l’alternanza è un termine quanto mai cogente. Gli studenti, di fatto, si alternano tra la frequenza dei corsi e il lavoro, non retribuito. A cosa si riduce, dunque, l’Alternanza Scuola-Lavoro? A fornire manodopera gratuita alle imprese. A creare una massa di sfruttati non remunerati, oggi, che diventeranno sfruttati malpagati domani.

Oltre al danno, la beffa. Tra i luoghi meno sicuri in Italia, ci sono proprio i posti di lavoro. Le cronache e le statistiche su lavoratori morti e/o coinvolti in incidenti sono spaventose. Secondo l’INAIL, muoiono in media 3-4 lavoratori al giorno, più di mille all’anno, più di 500 mila gli infortuni. Una strage.

Una strage di lavoratori, siamo partiti da lì, immolati sull’altare del profitto. Cos’è il profitto? La differenza tra i ricavi (ossia le entrate) e i costi (ossia le uscite). E cosa rappresentano per i capitalisti le norme per la sicurezza? Un costo, un costo che va abbattuto, un costo che va evitato. È così che non si fa la manutenzione dell’impianto o che addirittura si manomettono i macchinari per velocizzare i ritmi di lavoro. È così che, dietro la menzogna della formazione, si mandano in fabbrica o all’autogrill adolescenti che, dismessi i panni degli studenti, diventano a tutti gli effetti lavoratori non retribuiti.

Una politica piegata agli interessi del profitto fa il resto: da un lato, la progressiva privatizzazione dell’istruzione, asservita sempre di più all’interesse delle imprese, di cui la Buona Scuola e l’Alternanza Scuola-Lavoro non rappresentano che un tassello apicale; dall’altro la precarizzazione del lavoro che toglie diritti e spesso espone i lavoratori, senza tutele, a mansioni pericolose. Come se ciò non bastasse, per far quadrare i conti, ottemperare alle regole europee e rispettare i vincoli di bilancio, nel 2019 si tagliarono addirittura i finanziamenti all’INAIL, ben 410 milioni in meno al fondo anti-infortuni: l’austerità sulla pelle dei lavoratori, nel vero senso della parola.

Ecco, dunque, che il doloroso episodio di Lorenzo dismette i panni del tragico evento e appare come elemento perfettamente integrato nella logica dello sfruttamento del lavoro che diventa via via sempre più pervicace. Come hanno ben chiaro i ragazzi che si sono immediatamente mobilitati a Roma – prendendosi anche una dose di manganellate addosso – per manifestare contro il contesto che ha generato il tragico episodio, Lorenzo è stato vittima di un sistema che non solo sfrutta, ma prepara allo sfruttamento, educa ad essere sfruttati.

Un sistema nel quale i diritti diventano privilegi. Il privilegio di studiare, il privilegio di avere un lavoro stabile, il privilegio di ricevere un salario adeguato. Un sistema scientemente costruito da anni di politiche liberiste, contro il quale si fa sempre più cogente la costruzione di un fronte di lotta su larga scala.

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