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31/07/2022

Il Tagliaerbe (1992) di Brett Leonard - Minirece

30 anni fa la cancellazione della scala mobile: oggi come allora Cgil Cisl Uil schierate contro i lavoratori e le famiglie

Trenta anni fa, il 31 luglio 1992, i segretari generali di Cgil Cisl e Uil siglavano con il governo Amato e la Confindustria la cancellazione della scala mobile, condizione richiesta ai sindacati e imprescindibile per evitare le dimissioni del Governo.

Da quel giorno i salari dei lavoratori sono arretrati fino a divenire il fanalino di coda a livello europeo, con l'Italia unico Paese in cui si registra il segno meno nella crescita salariale.

Si aprì allora una straordinaria stagione di lotte operaie e sindacali, la “stagione dei bulloni” venne definita, per l'accoglienza che i lavoratori riservarono ai segretari confederali che andavano nelle piazze a cercare di spiegare l'inspiegabile, cioè che avevano accettato di tagliare per sempre i salari e gli stipendi per difendere il governo dei padroni.

Oggi, come mai prima, l'assenza di un meccanismo di adeguamento dei salari e degli stipendi all'inflazione sta producendo un vero e proprio collasso della capacità di acquisto delle famiglie.

Oggi come ieri i segretari di Cgil Cisl e Uil sono pronti a lanciare una ciambella di salvataggio ai padroni e alle politiche economiche dell'Unione Europea. La repressione delle lotte, l'uso delle magistratura contro le avanguardie sindacali vanno lette anche in questo quadro di evidente necessità di ripresa delle lotte contro l'austerità. Oggi come ieri non staremo a guardare.

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Guerra in Ucraina - Kiev bombarda quartier generale russo. Ordinata l’evacuazione della popolazione dal Donbass

Le forze armate ucraine hanno attaccato con un drone il quartier generale della Flotta russa del Mar Nero a Sebastopoli. La conferma è venuta dal governatore locale Mikhail Razvozhaev. Nell’attacco sono rimaste ferite cinque persone. “Questa mattina, i nazisti ucraini hanno deciso di rovinarci la Giornata della Marina”, ha scritto il governatore su Telegram, “un oggetto non identificato è entrato nel cortile del quartier generale della Flotta, secondo i dati preliminari si tratta di un drone”.

Sul fronte terrestre l’esercito russo ha bombardato nella notte Mykolaiv, colpendo la città col bombardamento più massiccio dall’inizio della guerra, secondo quanto riferito su Telegram dal sindaco Oleksandr Sienkovych.

Il sindaco di Kharkiv Ihor Terekhov ha riferito su Telegram di bombardamenti intorno alle 3:40 di stanotte nel distretto Nemyshlianskyi di Kharkiv. Secondo le informazioni preliminari, l’attacco avrebbe danneggiato alcuni edifici.

Mosca ha invitato ufficialmente gli esperti delle Nazioni Unite e del Comitato Internazionale della Croce Rossa a visitare la prigione di Olenivka dove in un bombardamento ucraino sono morti almeno 50 prigionieri di guerra ucraini. “Oggi abbiamo informato Antonio Guterres che abbiamo prove inconfutabili della responsabilità dell’Ucraina per il bombardamento di Elenovka. L’Onu non dovrebbe nascondersi dal condannare questo crimine del regime di Kiev. La Russia avvia un’indagine internazionale per trovare i colpevoli e punirli”. Ad affermarlo è stato Dmitry Polyanskiy, vice rappresentante permanente della Russia presso le Nazioni Unite, su Twitter.

Le autorità ucraine hanno intanto ordinato l’evacuazione di massa obbligatoria dalle zone ancora non ancora occupate dai russi e dalle milizie repubblicane nella regione di Donetsk, in Donbass.

Ad annunciarlo è stata la vicepremier, Irina Vereshchuk, spiegando che il governo è pronto a sistemare in nuovi alloggi tutti coloro che saranno costretti ad abbandonare le proprie abitazioni, “prima dell’inizio della stagione che prevede l’accensione dei riscaldamenti”.

Le persone interessate all’evacuazione, sarebbero circa 200-220 mila tra queste, 52 mila sono bambini. Kiev ha giustificato l’ordine col fatto che “non c’è un’adeguata fornitura di elettricità in quelle aree e che non ci sarà di fatto riscaldamento nella regione di Donetsk quest’inverno”.

Secondo le fonti russe invece la notizia viene interpretata come “la rinuncia del presidente Zelensky al Donbass”.

In Russia intanto è diventato virale un video che, mutuando il Trono di Spade, invita le persone a trasferirsi dai paesi occidentali in Russia perché “L’inverno sta arrivando”. La clip è in inglese e dura poco meno di un minuto.

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Germania e Turchia fanno a sportellate su tutto

Doveva essere una conferenza stampa congiunta al termine del viaggio in Turchia – e prima ancora in Grecia – della ministra degli Esteri tedesca Baerbock, ma si è trasformato in un botta e risposta senza esclusione di colpi.

I ministri degli Esteri di Turchia e Germania, Mevlut Cavusoglu e Annalena Baerbock, si sono punzecchiati fuori dai denti su diversi dossier.

La Baerbock, prima di recarsi in Turchia, aveva visitato la Grecia, nel tentativo di ricomporre la frattura tra due membri della Nato che hanno visto le loro relazioni tornare a surriscaldarsi per via delle mire di Ankara sul Mediterraneo orientale.

La ministra degli Esteri tedesca ha respinto le pretese turche su alcune isole greche nell’Egeo e ha puntato il dito sulla militarizzazione delle aree circostanti. “Le isole greche di Lesbo, Chio, Rodi e molte altre sono territori greci e nessuno ha il diritto di metterlo in dubbio”, ha affermato il ministro tedesco, “non possiamo risolvere i problemi del Mediterraneo Orientale aumentando le tensioni”. La risposta del ministro degli Esteri turco non si è fatta attendere: “Perchè stai coprendo le azioni illegali della tua Grecia?”, sottolineando quella “tua” che è un giudizio di merita sul fatto che Berlino sostenga più le posizioni greche che quelle turche.

La Baerbock ha criticato anche l’annunciata operazione militare turca contro i curdi in Siria, affermando che “causerà solo più dolore alle persone” e ha chiesto la scarcerazione di Osman Kavala, l’attivista condannato all’ergastolo con l’accusa di aver organizzato le manifestazioni di Gezi Park nel 2013.

“Perchè stai menzionando Kavala? Perchè lo avete utilizzato! So che avete finanziato gli eventi di Gezi”, è stata la risposta di Cavusoglu che non ha mancato di esprimere in modo esplicito il suo rimpianto per il precedente governo tedesco.

“Quando c’era Merkel, la posizione della Germania era equilibrata”, ha affermato, “era in grado di fare mediazione”.

Ma anche in Grecia la visita non è stata facile per la ministra Baerbock. Il ministro degli Esteri greco Nikos Dendias ha chiesto a Berlino di sospendere la collaborazione con la Turchia per la produzione di sottomarini di nuova generazione che “minacciano”, secondo il ministro ellenico, “di mutare l’equilibrio di forze nel Mediterraneo orientale”.

È bene ricordare che la Grecia ha acquistato dalla Germania diversi sottomarini di ultima generazione, anche durante gli anni della feroce austerity imposta al paese dalla Troika. La stessa Germania che obbligò Atene a devastare socialmente la propria società, impose il mantenimento della commessa militare.

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Guerra in Ucraina - Razzi Himars per i nazisti di Azov

L’ex “führer” del reggimento “Azov”, Andrej Biletskij ha dichiarato aperta la caccia ai responsabili della morte dei 53 neonazisti prigionieri di guerra, uccisi due notti fa nel corso del bombardamento su Elenovka, nella Repubblica popolare di Donetsk, portato dalle forze ucraine coi lanciarazzi americani Himars.

Per Biletskij, naturalmente, responsabili sono i russi: «a nome degli azoviti dichiaro aperta la caccia per sterminare ciascun responsabile dell’uccisione di massa», ha proclamato l’ex conducator di Azov, tacendo sul dettaglio che sul luogo della strage siano rinvenuti frammenti di razzi Himars e che gli stessi azoviti lo abbiano da tempo qualificato come traditore.

Tra l’altro, ricorda il canale Tsargrad.tv, all’epoca dell’assedio di Azovstal, Biletskij ignorava sistematicamente le telefonate dei congiunti dei neonazisti asserragliati, insieme ai civili trattenuti come scudi umani, nei sotterranei dell’immenso complesso industriale a Mariupol.

Per inciso, vittime del bombardamento notturno sulla prigione di Elenovka, in cui erano trattenuti un paio di centinaia di uomini, non sono stati solo i neonazisti, ma anche altre 25 persone, tra morti e feriti, compresi alcuni miliziani della DNR di guardia.

Difficile dar torto alle parole del capo della junta golpista di Kiev, Vladimir Zelenskij, che ha parlato di «crimine pianificato»: si tratta soltanto di intendersi su chi lo abbia pianificato, tenendo conto che, secondo varie fonti russe, molti degli azoviti fatti prigionieri avevano accettato di testimoniare sui nomi di coloro che li hanno coperti in questi otto anni di massacri contro i civili del Donbass e di crimini di guerra contro militari russi e miliziani delle Repubbliche popolari, dopo il 24 febbraio.

Secondo lo speaker della Duma russa, Vjačeslav Volodin, le testimonianze degli azoviti avrebbero potuto coinvolgere anche un discreto numero di leader di paesi NATO e portare a «una nuova Norimberga»: questo ha deciso la loro sorte.

Ulteriore dettaglio eloquente: come affermato dalla plenipotenziaria per i diritti umani della DNR, Dar’ja Morozova, prima del bombardamento Kiev aveva insistito per il trasferimento degli azoviti fatti prigionieri proprio nella prigione di Elenovka:

«Ciò era stato concordato; era stata una loro proposta. Cioè, loro sapevano perfettamente dove fossero i prigionieri ed ecco che, cinicamente, hanno messo a morte 50 dei propri soldati».

Così evidente la faccenda, che anche molti dei patrii “bollettini di guerra”, non possono non riportare, quantomeno, anche la “versione russa” dell’accaduto, quantunque in forma dubitativa, dando invece per sicura la versione golpista.

Più “obiettivo” addirittura il Pentagono che, per bocca di funzionari altolocati, parla di colpo «non intenzionale» da parte ucraina, pur sorvolando, ovviamente, sul fatto che le traiettorie dei razzi Himars siano guidate dagli “specialisti” yankee.

Significativo che addirittura il coordinatore per le comunicazioni strategiche alla Casa Bianca, John Kirby, si sia astenuto da qualsiasi commento, tanto palesi le responsabilità.

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Civitanova Marche, troppo comodo chiamarla indifferenza

La cosa peggiore che si possa fare è coprire il cadavere, percosso e asfissiato, di Alika con un ipocrita velo di sociologia da ombrellone.

Sono anni che la destra italiana infesta le campagne elettorali di xenofobia: essere un immigrato è una “colpa”, è stato detto in ogni occasione, in ogni dialetto. Guai all’accoglienza.

Sono anni che la destra ha fatto della povertà un problema di ordine pubblico: essere poveri è una colpa, che va perseguitata dalle ronde, dalla polizia locale, dal disprezzo collettivo. Guai alla solidarietà.

È in questo mefitico clima che è possibile che un consigliere comunale spari a un disgraziato di nazionalità marocchina a Voghera, e la passi liscia.

È in questo buio in cui brancola la coscienza civile che è possibile che un disgraziato ammazzi di botte e strangoli, con le sue mani, un disgraziato con un diverso colore della pelle, in pieno giorno, davanti a tutti. Come davanti a tutti Luca Traini andò a caccia di “negri” a Macerata, nel 2018.

Nessuno è intervenuto, perché è stata la rappresentazione plastica di quella che per anni è stata idealizzata dalla destra come la panacea di tutte le contraddizioni, per cui si è chiesto il voto e promesso di “togliere di mezzo” migranti e mendicanti.

A forza di rincorrere le politiche securitarie, le forze politiche “progressiste” – loro sì – sono diventare indifferenti; loro, sì, assistono senza intervenire.

Che fine ha fatto l’abolizione del reato di immigrazione clandestina? E lo ius soli? E il salario minimo? Dove sono finiti i soldi per finanziare programmi di assistenza sociale per i più deboli, fragili, problematici?

Dove è finita la capacità politica di mobilitare lavoratori, giovani, donne, intellettuali contro la deriva autoritaria e fascistoide sui territori? Dove sono le politiche di inclusione sociale? Dov’è finito lo Stato sociale?

In un paese in cui si assiste ogni giorno al capovolgimento della lotta di classe (guai al salario minimo garantito!), anche l’odio di classe ha preso una nuova dinamica sociale (guai al “reddito di cittadinanza”).

Alika era un colpevole predestinato, perché essere povero e immigrato allo stesso tempo è il massimo possibile dell’abiezione, la rappresentazione iconica “del degrado”.

L’odio alimentato contro Alika è sempre stato utile – molto utile – per eleggere sindaci-sceriffi.

Il fatto è che quei cittadini sono diventati assuefatti ai soprusi e alle ingiustizie il giorno in cui hanno scelto di votare sceriffi fascisti, come quello di Civitanova Marche.

Non è indifferenza, chiamatela destra, un’infezione sociale perniciosa. Perché in Italia la destra è fascista. E questo non è un “futile motivo”.

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30/07/2022

Oro Rosso (2003) di Jafar Panahi - Minirece

L’amara sorte degli alleati degli Usa. Il gen. Haftar condannato da un tribunale della Virginia

Il generale libico Haftar, è in possesso anche della nazionalità statunitense. Dopo aver servito nelle Forze armate ai tempi di Gheddafi, Haftar aveva disertato negli Stati Uniti già negli anni ’80 a seguito della sua cattura nella guerra tra Libia e Ciad.

Il generale Haftar si era rifugiato negli Usa vivendo nel nord della Virginia, dove lui e la sua famiglia continuano ancora oggi possedere delle proprietà. Ed è stato proprio un tribunale della Virginia a condannare Haftar per crimini di guerra e al risarcimento di 50 milioni di dollari per le vittime. L’accusa sosteneva che Haftar, in qualità di comandante dell’Lna, fosse responsabile di molteplici crimini di guerra commessi contro i civili da parte dei militari e dei mercenari sotto il suo controllo, in particolare durante l’assedio di Ganfouda, e delle perdite e delle sofferenze inflitte ai querelanti.

Nel 2011, Haftar era ritornato in Libia per sostenere gli oppositori a Gheddafi durante la guerra civile, scoppiata dopo il colpo di stato e l’intervento militare della Nato favorito dalla Francia.

Negli anni successivi, Haftar ha raggiunto il comando dell’autoproclamato Esercito nazionale libico in Cirenaica, regione che punta all’indipendenza da Tripoli. Nell’aprile del 2019, aveva tentato, senza successo, di prendere il potere nel Paese, cercando di conquistare militarmente la capitale Tripoli e di deporre l’allora Governo di accordo nazionale (Gna) riconosciuto dalla comunità internazionale. Il cessate il fuoco raggiunto nel 2020 avrebbe dovuto portare alle elezioni nel dicembre 2021, ma il voto è stato rimandato per le controversie sulla legge elettorale e i candidati e gli scontri tra le varie fazioni libiche.

La questione del doppio passaporto è ancora oggi uno dei principali ostacoli all’adozione delle regole per andare al voto.

Il dipartimento di Stato Usa ha dichiarato di “non entrare nel merito di procedimenti legali privati che non vedono un suo coinvolgimento: tuttavia, gli Stati Uniti rimangono fortemente preoccupati in merito alle presunte violazioni dei diritti umani commesse dalle parti coinvolte nel conflitto in Libia” ha detto un portavoce del dipartimento di Stato.

Haftar, forte delle sue relazioni precedenti, aveva tentato senza successo di far archiviare le accuse contro di lui presentate al tribunale distrettuale della Virginia orientale, rivendicando addirittura l’immunità come capo di Stato. Alla vigilia della sua deposizione lo scorso anno, il giudice distrettuale degli Stati Uniti Leonie Brinkema aveva congelato momentaneamente il caso nel timore che potesse essere utilizzate per interferire nelle elezioni che si sarebbero dovute tenere lo scorso 24 dicembre in Libia, ma poi le elezioni sono state rimandate a data da destinarsi e il tribunale ha proceduto contro Haftar in contumacia fino alla sentenza.

Nel 2011 Haftar era stato l’uomo degli amerikani sul campo, mentre i bombardieri Nato colpivano i palazzi istituzionali e le truppe di Gheddafi facilitando il colpo di stato delle composite forze antigheddafiane. Nel caos successivo alla violenta deposizione di Gheddafi, Haftar aveva costruito la sua base nella Cirenaica (la regione orientale della Libia al confine dell’Egitto elevando Tobruk come Capitale alternativa a Tripoli).

Fino al 2019, quando tentò l’assalto a Tripoli, ha goduto di molte sponsorizzazioni, inclusa quella Usa. Ma dopo aver fallito il colpo, molti sostenitori di Haftar si sono defilati e, ancora una volta, gli uomini che hanno fatto il lavoro sporco per gli Usa (ma non solo), vengono mollati e, alla prima occasione, eliminati finendo in carcere o perdendo la vita.

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Immigrato ucciso a Civitanova Marche

Picchiato con la stampella che usava per camminare e ucciso in pieno centro, davanti agli occhi dei passanti: non è intervenuto nessuno, ma molti hanno filmato la scena con il loro smartphone. È morto così Alika Ogorchukwu, 39 anni, nigeriano, a Civitanova Marche, all’incrocio tra corso Umberto I e piazza XX Settembre, nel primo pomeriggio di ieri.

L’aggressore, un 32enne italiano, è stato individuato poco dopo e si trova attualmente in stato di fermo. La dinamica, secondo una prima ricostruzione degli investigatori che hanno ascoltato diversi testimoni e acquisito le immagini riprese dai telefoni e dalle telecamere piazzate sul corso, sarebbe legata a una lite: Ogorchukwu, di professione ambulante, si sarebbe avvicinato a una coppia a passeggio sul corso e i suoi modi avrebbero infastidito l’uomo, che ha reagito prima colpendolo con un bastone e poi schiacciandogli la testa sul marciapiede. Il corpo è rimasto a terra davanti a un negozio di intimo per diverse ore, coperto da un telo, sotto agli occhi di decine di persone che si sono affollate dietro al nastro bianco e rosso usato per delimitare la scena del delitto. Su un lato della strada, l’arma: il bastone da passeggio, piegato dalle botte date.

La vittima era un personaggio piuttosto conosciuto a Civitanova: residente a San Severino, incensurato, in possesso di permesso di soggiorno, sposato e con un figlio piccolo, Alika, come tanti altri ambulanti, scendeva spesso sulla costa per cercare di vendere la sua merce o a fare dell’elemosina. Da qualche tempo era costretto ad accompagnarsi con una stampella, conseguenza di un brutto incidente che aveva avuto qualche mese fa. I negozianti del centro non riescono a spiegarsi come tutto questo sia potuto succedere: chi lo conosceva descrive il 39enne come una persona tranquilla, mansueta, alla mano, al massimo un po’ insistente ma non particolarmente eccessivo nei modi.

La prima versione dei fatti (colluttazione dopo apprezzamenti a una donna e violenta reazione del 32enne) viene messa in dubbio da molti. «Non mi sembrava il tipo di persona che infastidisce le passanti – dice la ragazza dietro il bancone di un bar poco distante – al massimo avrà chiesto qualche spicciolo. Veniva spesso qui, non ha mai creato problemi». Dopo i rilievi della scientifica, una volta portato via il corpo di Ogorchukwu, il passeggio è proseguito come sempre: dalle spiagge i turisti si sono riversati in centro per l’aperitivo, quasi tutti inconsapevoli di quanto accaduto poco prima. Dal mondo della politica la prima reazione, a cadavere ancora caldo, sono quelle della Lega: «Appena torneremo al governo rafforzeremo le misure per la sicurezza: gli italiani non possono continuare a vivere nella paura», dice il commissario marchigiano del partito Augusto Marchetti, che non riesce a trovare nemmeno una parola di cordoglio per la vittima.

È così che dal ventre delle Marche schizza fuori una violenza che già in passato si era manifestata in maniera tragicamente simile: cinque anni fa, era il 5 luglio del 2016, nella non distante Fermo il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi venne ucciso dalle botte di Amedeo Mancini. Due anni dopo, il 3 febbraio del 2018, Luca Traini aprì il fuoco a Macerata e ferì almeno 6 africani con le sue pallottole: allora come oggi si era alla vigilia di una campagna elettorale, con la Lega che fece il pieno di consensi in città.

Sia nel caso di Fermo sia in quello di Macerata la provincia marchigiana mostrò il suo volto più feroce, vivendo con grande fastidio l’attenzione mediatica che si impose, come se il problema fosse la cattiva pubblicità al territorio e non il fatto che, dietro la tranquillità spesso evocata per descrivere questi luoghi, si nasconda un odio inesplicabile e una terribile indifferenza alle disgrazie altrui.

E già i mormorii dei passanti davanti al corpo di Alika Ogorchukwu cercano di scacciare i fantasmi: «L’aggressore era un turista», dicono in molti. Del resto i testimoni riferiscono di averlo sentito parlare con una marcata cadenza campana. Invece no: originario di Salerno, l’uomo è residente in città da diverso tempo. Sullo sfondo domina la paura. Della violenza, dell’odio, di tutti gli occhi che saranno puntati su Civitanova.

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L’embargo occidentale sul petrolio non sembra impensierire Mosca

Oltre ad “aggredire la democratica Ucraina”; oltre a mandare in crisi governi guidati dalle “migliori” competenze (anti-operaie e atlantiste) qua e là per un’Europa a marchio UE; oltre a spedire uomini in Cirenaica per “spingere in Italia i barconi coi migranti”; oltre ad “affamare” e mettere al freddo (o al caldo, dipende dalle stagioni politiche) la “libera” Europa, la Russia si dedicherebbe anche ad altro.

Non parliamo dei circa 750.000 rubli (al cambio attuale, appena 12.000 euro; ma chissà che l’idea non venga ripresa da catto-reazionari “europeisti”, anche nostrani) spesi dall’Istituto di filosofia dell’Accademia delle scienze nella ricerca se «L’esistenza dell’inferno costituisca una malvagità».

No; parliamo di qualcosa che sta, sì, sottoterra, e anche molto in profondità, ma che può rappresentare, a seconda dei casi, sia un male che un bene. Proprio come recitava il bandito-contrabbandiere di un film cult tardo-sovietico: «Il pugnale è buono, per chi ce l’ha; ma è cattivo per chi se ne trovi sprovvisto al momento del bisogno».

Ora, per non farla troppo lunga, è di pochissimi giorni fa l’annuncio di Rosneft dell’avvio, nella penisola di Tajmyr (la più estesa e più settentrionale tra le penisole della Russia, racchiusa tra la baia del Enisej, nel mare di Kara, e la baia del Khatanga, nel mare di Laptev) dello sfruttamento dei giacimenti lungo il corso del Pajakha, nel quadro del progetto “Vostok Ojl”, in cui sono impegnate qualcosa come 400.000 persone.

Si tratta, secondo gli osservatori della conservatrice Tsargrad.tv, di un’opera che potrebbe capovolgere le linee energetiche mondiali. Con una capacità di sollevamento che supera le 400 tonnellate e una profondità di perforazione di 6 km, parte dell’infrastruttura è già stata costruita ed è in allestimento il terminale petrolifero “Bukhta Sever”, prossimo all’agglomerato urbano di Dikson.

La lunghezza totale degli ormeggi per il carico di merci e petrolio si avvicina al chilometro e mezzo, con, in una prima fase, 27 serbatoi da 30.000 mc ciascuno, che diventeranno 102 entro il 2030.

Sono inoltre in allestimento speciali petroliere artiche, che seguiranno la rotta del mare del Nord, con maggiore flessibilità logistica, «mettendo il progetto al sicuro da qualsiasi diktat di prezzo e normativo dei consumatori», dichiara l’economista Leonid Krutakov.

Con le riserve di carbone che vanno prosciugandosi; con l’alt a nuove gigantesche centrali idroelettriche; con le centrali nucleari – nota Tsargrad.tv – che «hanno i loro limiti legati alla sicurezza del funzionamento... gas e petrolio rappresentano oggi il nucleo dell’energia mondiale e lo rimarranno ancora a lungo».

Già da tempo Rosneft si occupa dell’estrazione di gas e petrolio nella penisola di Tajmyr; ora che l’era del petrolio della Siberia occidentale sta volgendo al termine, osserva l’economista Valerij Andrianov, l’avvio di “Vostok Ojl” dà il via a un «nuovo distretto di petrolio e gas. Nonostante lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabile, la domanda di petrolio continuerà a crescere per molti anni a venire.

Nel contesto dei ridotti investimenti nello sviluppo del settore petrolifero e del gas, che abbiamo visto negli ultimi anni, “Vostok Ojl” è l’unico progetto al mondo in grado di avere un effetto stabilizzante sui mercati degli idrocarburi», con una base di risorse di 6,2 miliardi di tonnellate di petrolio.

Tra l’altro, ricorda il direttore dell’Unione degli industriali gas-petroliferi, Rustam Tankaev, le «tre più grandi regioni di petrolio e gas sul territorio russo vantano riserve che costituiscono il 70% di tutte le risorse del pianeta. Le maggiori riserve, circa la metà del volume globale, sono concentrate sulla piattaforma e sulla costa del mar di Kara, e “Vostok Ojl” rappresenta circa il 15% di queste risorse».

Significativo, dice ancora Leonid Krutakov, che i «fattori economici esteri dovuti alla politica aggressiva dei paesi occidentali nei confronti della Russia, non abbiano influito in alcun modo sul progetto».

Questo perché, quando ad esempio Joe Biden chiede ai petrolieri americani di aumentare la produzione, quelli rispondono che è impossibile, a causa delle scelte dell’Amministrazione USA: «l’industria gas-petrolifera non funziona “a comando”», afferma Krutakov; «servono investimenti, tempo per avviare nuovi progetti e ampliare quelli esistenti. Questa volta l’Occidente ha, nel senso letterale, “sputato nel pozzo”».

Così che, da qui al 2030, la Russia non rivestirà più lo status di “superpotenza energetica”: semplicemente, sarà l’unica potenza energetica.

Sarcasticamente, di nuovo Tsargrad.tv osserva che “Vostok Ojl” è il progetto «più importante non solo per la Russia, ma per il mondo intero (tranne, ovviamente, quei paesi che cercheranno di sopravvivere senza idrocarburi russi). La base di risorse del progetto supera i sei miliardi di tonnellate di petrolio a basso contenuto di zolfo Premium, quasi una tonnellata per ogni abitante dei paesi che non hanno aderito alle sanzioni».

E, però, in conseguenza dell’embargo deciso dalla UE il 31 maggio sull’export di petrolio russo via mare (l’embargo non riguarda le forniture via oleodotto per quei paesi, come ad esempio l’Ungheria, che non hanno sbocchi sul mare), da metà luglio, l’export di petrolio russo per nave si è ridotto di 480.000 barili al giorno, scrive il canale telegram Gaz-batjuška.

Tra l’11 e il 15 luglio tre petroliere in meno sono salpate dal terminale di Primorsk e due in meno da Ust’-Luga (da qui, con 5-6 petroliere al mese, transita anche parte del petrolio del Kazakhstan), sul Baltico, rispetto alla settimana precedente.

Diminuiti i carichi anche dal Baltico verso l’Asia e dai terminali di Novorossijsk, sul mar Nero. Sceso a 840.000 barili al giorno il carico dai tre terminal petroliferi orientali di Kozmyno, De-Kastri e Prigorodnoe. Di contro, i volumi di carico nei terminali baltici con destinazioni nel nord Europa sono saliti al livello più alto dal marzo scorso.

Per la UE, scrive IARex.ru, sarà presto all’ordine del giorno la questione delle raffinerie di proprietà russa, che ora possono ricevere petrolio solo dalle società madri, comprese Rosneft e Lukojl. Con l’embargo sulle forniture via mare, è serio il rischio che quelle debbano fermare il lavoro, aggravando ulteriormente la crisi dei combustibili nella UE; e lasciando a casa migliaia di lavoratori, aggiungiamo noi.

In questa cornice si inquadra anche la questione del trasporto del petrolio kazakho, attraverso il KTK (Consorzio dell’oleodotto del Caspio) da cui passa circa l’80% del petrolio dai campi di Tengis al terminale russo di Novorossijsk-2.

Dopo gli avvenimenti del gennaio scorso, con gli estesi scioperi dei lavoratori gas-petroliferi, in Kazakhstan si amplificano le voci sulla ricerca di vie alternative (passando pur sempre dal territorio russo) per la principale merce d’esportazione kazakha. Nel 2021, per il KTK sono transitate 53 milioni di tonnellate di petrolio, con il 70% del greggio kazakho destinato all’Europa.

Una alternativa al KTK potrebbe essere rappresentata dall’oleodotto “Družba”. Se dal 1 gennaio la UE ridurrà a zero le forniture di petrolio russo, si arriverebbe alla chiusura del ramo settentrionale dell’oleodotto.

Dal momento però che l’embargo non si applica al petrolio kazakho, stando a Deutsche Welle, Rosneft sta proponendo alla Germania di organizzare il pompaggio di petrolio kazakho attraverso il “Družba” fino alla raffineria PCK Schwedt, di cui è il maggior azionista, insieme a Shell e ENI. Per ora, però, Berlino tace.

Incertezze anche per il ramo sud del “Družba”, che rifornisce Ungheria Re. Ceca e Slovacchia; mentre il tragitto del petrolio kazakho fino ai terminali baltici di Primorsk e Ust’-Luga aumenta i costi di trasporto dai 38 $/tonnellata del KTK, ai 63-68 $. Poco significative le varianti verso Baku (Azerbajdžan)-Tbilisi (Georgia)-Ceyhan (Turchia), oppure verso Makhačkala (Daghestan)-Novorossijsk.

Teoricamente, un’alternativa potrebbe essere rappresentata dall’invio di greggio alle raffinerie nel nord iraniano attraverso il porto di Neka, sul Caspio; giungere quindi fino al Golfo Persico, per essere quindi diretto ai mercati asiatici più promettenti, principalmente India e Cina, ma anche Corea del Sud, Taiwan, Giappone, oltre a Grecia, Turchia e Italia a ovest. Una variante, questa, cui potrebbe essere interessata la stessa Russia, dopo aver sviluppato i propri corridoi nord-sud, verso Makhačkala e Astrakhan, sul Caspio.

Altra alternativa è quella dell’oleodotto Kazakhstan-China, controllato alla pari da KazMunayGaz JSC e CNODC (China National Oil and Gas Exploration and Development Corporation), lungo i rami Kenkijak-Kumkol (10 milioni di tonnellate/anno con prospettiva fino a 20 milioni) e Atasu-Alašankou (20 milioni di tonn/anno).

Da notare che nel 2021, dei 10,9 milioni pompati attraverso il Atasu-Alašankou, quasi 10 milioni provenivano da Rosneft e circa 1 milione erano davvero petrolio kazakho e lo scorso febbraio Putin e Xi hanno prorogato tale accordo per altri 10 anni.

Allora, come la mettiamo con le sanzioni? Vediamo se l’“impero del male” finirà all’inferno o ci finiranno le “democrazie in lotta con la dittatura” dei paesi nemici?

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29/07/2022

Sherlock Holmes - Gioco di ombre (2011) di Guy Ritchie - Minirece

“Ombre russe” e realtà nera per le elezioni in Italia

Fare una campagna elettorale in piena estate – senza neanche il disturbo di dover raccogliere le firme – costringe a strillare cazzate pur di farsi notare. Specie se hai molto da far dimenticare a chi ti ha votato, dovrebbe votarti o comunque almeno non prenderti a calci quando ti incontra per strada.

È la condizione di tutti i raggruppamenti scomposti presenti in parlamento, ben macinati e rimescolati da una legislatura in cui tutti hanno governato con tutti, specie con quelli con cui avevano giurato di non prendere neanche un caffè in piedi.

Non fa eccezione la Meloni, ultima versione della famosa “opposizione della corona”, ossia quel gruppo di attori ammessi a dir male del governo per dare l’impressione – ma solo quella – di vivere in un sistema “pluralista”.

Gli antifascisti elettorali – quelli che si ricordano dell’eredità fascista in Italia solo quando si aprono i seggi, ma intanto mandano le armi al battaglione Azov et similia, riqualificandoli come semplici “nazi(onal)isti” – non hanno mai avuto neanche paura di regalare, in questo modo, una patente di credibilità proprio ai fascisti, facendone l’unico raccoglitore “autorizzato” del malcontento popolare e non.

Così, in queste ore, Giorgia Meloni si fa in quattro per rassicurare la Nato. «La politica estera di un governo a guida Fratelli d’Italia resterà quella di oggi. Per me è una condizione. E non credo che gli altri vogliano metterla in discussione. Se noi non mandiamo le armi, l’Occidente le continuerà a mandare, e ci considereranno un Paese poco serio. Il problema sarà nostro. Bisogna essere lucidi: non possiamo pensare di essere neutrali senza conseguenze».

Sarà una pura coincidenza, ma nelle stesse ore Paolo Mieli, ex direttore del Corriere della Sera, “euro-atlantico” tutto d’un pezzo, alla trasmissione di Parenzo su La7 la invitava perentoriamente a dire proprio questo per dimostrare di essere “affidabile”.

Per chi? Per la Nato, ovviamente. Il tutto in un delirio logico-psicologico secondo cui per “dimostrare di essere un Paese Sovrano che non si fa destabilizzare i governi da Putin bisogna obbedire in tutto e per tutto alle decisioni di un’alleanza militare” in cui l’unico parere che conta è quello degli Stati Uniti.

La giornata di ieri è in effetti passata tra strilli e strepiti sullo scoop de La Stampa – uno dei tanti media di casa Agnelli, insieme a Repubblica – che narra di un documento di un servizio segreto (rimasto per ora ignoto) da cui emergono contatti tra un importante funzionario dell’ambasciata russa a Roma e il consigliere della Lega per i rapporti internazionali, Capuano, sul ritiro dei ministri del Carroccio dall’esecutivo.

A fare scalpore, nell’intercettazione, la domanda del russo a proposito delle intenzioni leghiste nei confronti del governo Draghi (“potreste dimettervi?”).

Su Salvini e sulla Lega spariamo ogni giorno e qualunque bassezza non ci sorprenderebbe. Nel caso in questione, come tutti, ci limitiamo a registrare la smentita di Franco Gabrielli (ex capo dei servizi segreti ora incredibilmente sottosegretario con delega agli stessi servizi segreti, un caso da manuale di controllato-controllore): “quel documento non viene dai servizi italiani”.

Il che – ammesso che sia vero, visto che i servizi per definizione fanno cose inconfessabili – fa immaginare sia di origine statunitense o inglese (non essendo certo negli interessi russi “bruciare” un ex amico).

Un tipico caso di regolamento dei conti, all’interno dell’alleanza atlantica, in tempo di guerra. Quando non deve sussistere il minimo dubbio su chi sia “dei nostri” e chi uno di cui diffidare, quando insomma si riscrivono le gerarchie con logica militare.

Come conseguenza, si può immaginare anche che la carriera del “capitano” leghista volga ingloriosamente alla fine...

Dobbiamo quindi registrare ufficialmente – per quanto riguarda l’indecente classe politica di questo paese – che c’è un “vincolo esterno” da considerare primario (l’obbedienza alla Nato). Nessuno dei principali leader politici di qualsiasi partito può – o potrà – manifestare il minimo dubbio su come la Nato sta affrontando la guerra in Ucraina. Tanto più se, come dimostrano da mesi tutti i sondaggi, la stragrande maggioranza della popolazione è contraria al coinvolgimento nella guerra e all’invio di armi.

Non si tratta di un “dettaglio” e lo dimostra il supposto “democratico” Enrico Letta, che trasforma lo scoop in elemento centrale della campagna elettorale: “Vogliamo sapere se coloro che hanno fatto cadere il governo Draghi lo hanno fatto su mandato di una potenza straniera che oggi aggredisce e con cui non possiamo avere buoni rapporti”.

Quanto sia “affidabile” un segretario di partito che inanella almeno tre falsità o stupidaggini in una sola frase è giudizio che lasciamo ai lettori. Noi possiamo solo ricordare che:

a) il governo Draghi non è “stato fatto cadere”, ma si è dimesso di propria iniziativa pur avendo una maggioranza mostruosa (registrata nella votazione sul “decreto aiuti”), neanche scalfita dall’uscita dall’Aula del gruppo dei Cinque Stelle (ampiamente decurtati dalla scissione di Di Maio). Una caso praticamente unico, nella storia dei governi italiani. E neanche quando è tornato in Senato per chiedere la fiducia è “finito sotto”;

b) attribuire le “dimissioni spontanee” al “mandato di una potenza straniera” è perciò un falso oppure una patente di dabbenaggine per SuperMario (che avrebbe fatto da solo quel che Putin sperava, secondo Letta);

c) dichiarare che “non possiamo avere buoni rapporti” con la “potenza straniera” di cui sopra, la Russia – al di là di quel che si pensa di Putin – è una fesseria strategica che nessun leader mondiale in possesso delle proprie facoltà può permettersi. Specie se il paese di appartenenza è formalmente non in guerra contro quella “potenza”. Forse Letta dovrebbe farsi fare un corso accelerato da Lucio Caracciolo...

A quanto pare, siamo proprio nella mani di frilli irresponsabili, sia che si sbracciano per dimostrarsi più “atlantici” di Biden, sia che flirtino sottobanco con funzionari stranieri del fronte opposto.

Ma il vincolo Nato non è l’unico.

Come in ogni campagna elettorale questa paccottiglia politica semina promesse che sa essere irrealizzabili sotto le condizioni fissate dai trattati europei e dal PNRR. Persino Berlusconi dimostra di rendersene conto, promettendo come al solito “aumenti delle pensioni” e “un milione di alberi”. Noterete che rispetto al “milione di posti di lavoro” si tratta di un bel passo indietro...

Per tutti vale l’ordine di scuderia: “seguiremo l’agenda Draghi”. Per sapere di che si tratta forse è bene rileggersi l’analisi critica fatta da Coniare Rivolta oppure quella – speculare, ma in versione “entusiasta” – di Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera.

In entrambi i casi si coglie la portata del “pilota automatico” inserito al posto delle “decisioni sovrane” di qualsiasi governo di un paese membro dell’Unione Europea.

In particolare ci si concentra sull’ultimo “ritrovato” della Bce, quel Tpi che consente alla banca centrale di acquistare titoli di stato quando gli spread si fanno troppo ampi e destabilizzanti, ma solo se gli stati in difficoltà “si impegnano in un percorso riformatore i cui principi e modalità attuative sono stabiliti in un dialogo con Bruxelles e in un processo in cui il punto di vista dell’autorità federale e quello dell’autorità nazionale dovrebbero integrarsi in modo costruttivo, ma in cui i Paesi, una volta discusso il percorso, si impegnano a rispettare le decisioni prese”.

Senza entrare nei dettagli, pur importanti (li potete trovare ai link riportati), esce fuori chiaramente che qualsiasi governo uscirà fuori dalle urne il programma è già deciso, ed è quello che Mario Draghi (e l’Unione Europea, di cui è stato ed è “testa pensante”) sta seguendo in queste stesse ore. Senza alcuna deviazione di un qualche rilievo.

Su cosa potrà mai caratterizzarsi, dunque, quella moltitudine di cacicchi che strepitano per raccogliere qualche voto in più? Su come tartassare meglio i migranti, come garantire qualche diritto in più purché non sia “costoso”, su come obbedire meglio al “doppio vincolo” che tutti riconoscono come inviolabile.

Altra cosa è uscire da questa logica e mettere in discussione il sistema. Siamo ancora ai primi passi, non c’è da farsi soverchie illusioni a breve. Ma qualcosa si muove. Basta non restare a casa, a bestemmiare contro il mondo dalla tastiera...

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Filippo, morto dissanguato a 18 anni in un cantiere forestale: era stato adeguatamente formato?

Filippo Bua era un ragazzo di 18 anni compiuti da poco. Ieri intorno alle 10 il ragazzo di Alà dei Sardi, in provincia di Sassari, è morto in un cantiere forestale a Santu Lussurgiu dove tagliava il sughero dagli alberi. L’accetta che stava usando gli è sfuggita dal controllo e lo ha colpito alla gola, causando la violenta emorragia che lo ha ucciso in pochi minuti.

Filippo era uno studente che durante la chiusura estiva della scuola, se poteva, lavorava nel settore edile o al taglio nelle sugherete con occupazioni precarie e stagionali. Il nostro pensiero va immediatamente ai familiari della vittima. Tutti i cittadini di Alà dei Sardi si uniranno sinceramente alla famiglia di Filippo, il sindaco indirà il lutto cittadino. Ma poi tutto continuerà come prima.

Del resto, in Italia esiste una economia funzionale solo al raggiungimento del profitto fine a se stesso e nessuno ai piani alti muoverà un dito per cambiare le cose. Si mettono al primo posto i profitti e la competitività, ritenendo gli investimenti per migliorare salute e la sicurezza “costi” che devono essere tagliati.

Filippo era stato adeguatamente informato e formato sulla sicurezza prima di essere inserito nella squadra di lavoro? Il datore di lavoro ha predisposto tutte le misure previste dalle norme sulla sicurezza?

Di lavoro si muore troppo spesso e non solo quando ne parla la stampa o la televisione. Le vittime quest’anno in tutto il Paese sono arrivate a 646 (dei quali: sul lavoro 454; in itinere 188; Covid 4) e in Sardegna sono già 18, una cifra enorme se rapportata percentualmente ai lavoratori occupati. Giovedì insieme a Filippo sono morti altri tre lavoratori, tutti nel settore agricolo: due schiacciati da trattori, uno in una serra dove la temperatura era di 40°.

Di fronte a questa strage noi di USB e Rete Iside, insieme alle deputate di Manifesta, abbiamo elaborato una proposta di legge che prevede l’introduzione del reato di omicidio e lesioni gravi sul lavoro. Con la sua approvazione si predisporrebbe uno strumento di deterrenza nei confronti di coloro che non applicano misure per tutelare di salute e sicurezza dei lavoratori. Con oltre 600 morti solo nei primi mesi del 2022 approvare questa legge ci appare sempre più urgente e necessario.

Non serve piangere sulle morti, se non si conduce quotidianamente la battaglia contro lo sfruttamento e l'impoverimento dei lavoratori, contro modi e i tempi di lavoro antiumani

È per questo motivo che USB ha lanciato la campagna per l’introduzione nel codice penale del reato di omicidio sul lavoro, proprio come è stato fatto per contrastare i morti sulle strade con il reato di omicidio stradale. E serve garantire la totale impunità e salvaguardia dal licenziamento per i lavoratori e le lavoratrici che denunciano le irregolarità aziendali in tema di sicurezza. E sappiamo tutti che maggiore precarietà, come la condizione di Filippo, significa anche minore sicurezze perché comporta maggiore difficoltà da parte dei lavoratori a rivendicare i propri diritti.

Le chiamano “morti bianche”, parlano di errore umano o fatalità, ma fatalità non sono, altro non è che “omicidio sul lavoro”. È urgentissimo fermare la strage e introdurre il reato di omicidio sul lavoro.

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L’inflazione non è uguale per tutti

Stretto fra guerra e crisi di governo, è passato quasi sotto silenzio un dato interessante e assai istruttivo contenuto nel Rapporto Istat 2022 relativo all’inflazione ed ai suoi effetti sulle famiglie italiane. Al di là della retorica del “siamo tutti sulla stessa barca”, funzionale solo ad imbrigliare eventuali rivendicazioni salariali, l’Istituto evidenzia come gli effetti dell’inflazione siano molto più pesanti per le famiglie più povere. Ma attenzione (e qui viene la parte interessante): questo succede non solo – banale, ma sempre vero – perché chi ha redditi più bassi ha minore margine per contrastare l’effetto dell’aumento dei prezzi, ma anche perché per queste famiglie il dato dell’inflazione è di per sé più alto rispetto alla media nazionale. Ma come? Il dato dell’inflazione non è QUEL numero (unico per tutti) che attualmente oscilla fra l’8 e il 9%?

Prima di capire i motivi di questa asimmetria, indagare le sue implicazioni dal punto di vista distributivo e individuare, di conseguenza, gli strumenti per farvi fronte, cerchiamo di spiegare meglio cos’è e come viene calcolato il tasso di inflazione in Italia.

L’inflazione è un numero che indica, in misura percentuale, l’aumento del livello medio dei prezzi rispetto a un periodo precedente. Il livello medio dei prezzi è calcolato attraverso un indice che, per l’appunto, media i prezzi di vari prodotti. In Italia, tale indice si chiama “indice armonizzato dei prezzi al consumo” (IPCA), e si misura identificando un certo paniere di beni e servizi rappresentativo dei consumi medi delle famiglie italiane. La variazione tendenziale di questo indice (ad esempio, giugno 2022 rispetto a giugno 2021) ci fornisce la misura di questo incremento dei prezzi e quindi del tasso di inflazione.

Ma nella pratica, come si calcola l’IPCA? I beni e servizi vengono suddivisi in categorie omogenee (alimentari lavorati, alimentari non lavorati, energia, servizi relativi all’abitazione, servizi ricreativi e culturali, etc.) e per ognuna di queste categorie si calcola il livello di prezzi raggiunto; dopodiché, ad ognuna di esse viene assegnato un determinato peso. Ciò vorrà dire che i beni che, in media, vengono consumati di più, avranno un peso maggiore. Ciò fa si che la composizione dell’IPCA sia rappresentativa di come è composto il “carrello della spesa” nella media dell’economia italiana: la somma dei contributi pesati delle varie categorie di beni e servizi diventa quindi un numero unico. La variazione percentuale di questo numero ci restituirà il tasso di inflazione.

Il punto è che i “carrelli della spesa” delle famiglie italiane sono assai diversi, non solo da un punto di vista quantitativo ma anche qualitativo: varia, in altri termini, la loro composizione. Ed è proprio a partire da queste considerazioni che l’ISTAT ha svolto un esercizio interessante.

Prima di tutto, procede a disaggregare l’indice finale, mostrando il contributo fornito dalle diverse categorie di beni e servizi: ad esempio, a maggio 2022 l’inflazione complessiva è del 7,3%, ma l’incremento della componente “energia” (che include i carburanti) è del 42,9%, e quella degli “alimentari non lavorati” dell’8,6%, (molto più della media). Allo stesso tempo, altre categorie di beni aumentano, ma in misura meno significativa: ad esempio, i “Beni industriali non energetici” (sostanzialmente, tutti i beni di consumo diversi dagli alimentari e dall’energia) aumentano “solo” del 2,6%, mentre nell’ambito dei “Servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona” l’aumento è del 4,9%. Fin qui, poco di nuovo: sapevamo già infatti che questa ondata inflazionistica è originata, in prima battuta, dall’aumento dei prezzi dell’energia e questo aumento si sta progressivamente trasferendo a tutti i settori dell’economia, a partire dagli alimentari.

A questo punto, l’ISTAT divide le famiglie italiane in 5 gruppi: il primo quinto è quello più povero, che mostra una spesa complessiva più bassa, poi il secondo, il terzo e così via fino all’ultimo quinto (quello più ricco). Quindi, l’ISTAT confronta quello che è successo fino al primo trimestre 2022, prendendo in considerazione come sono composti i differenti “carrelli della spesa” (per semplicità, ci soffermiamo sulle differenze fra il quinto più povero (con consumi minori) e il quinto più ricco.

ISTAT mostra come nel carrello della spesa del quinto più povero, la spesa per energia rappresenta ben il 14,6% della spesa complessiva, mentre per il quinto più ricco essa pesa solamente il 6,7%; allo stesso modo la spesa per prodotti alimentari vale il 33,2% della spesa complessiva per il quinto più povero e solamente il 16,5% nel quinto più ricco. Al contrario, invece, i servizi ricreativi o i beni industriali non energetici pesano di più nel carrello delle famiglie più ricche che di quelle più povere.


Il punto – e qui il cerchio si chiude – è che se ci concentriamo sui settori dove il peso è maggiore per le famiglie più povere rispetto a quelle più ricche, vediamo che sono proprio gli stessi che hanno mostrato un aumento dei prezzi più marcato. Perciò, se il costo medio dei “carrelli della spesa” è aumentato per tutti, l’aumento è stato più limitato per il quinto più ricco (+5,5% a marzo 2022) ma quasi il doppio (+9,4%) per il quinto più povero. In mezzo tutti gli altri, ma comunque ISTAT ci dice che per i primi 3 quinti (cioè il 60% della popolazione) il tasso di inflazione effettivo è stato superiore alla media nazionale.


Il Rapporto ISTAT si chiude con un’altra considerazione amara: le famiglie più povere hanno anche meno strumenti per difendersi dall’ondata inflattiva, in quanto la maggior parte della loro spesa è destinata a settori e funzioni non comprimibili (il mangiare, l’abitare, l’energia, etc.), mentre la spesa indirizzata verso altri settori (beni di consumo, servizi ricreativi, etc.) può, volendo, essere ridotta come strumento immediato per contrastare l’aumento dei prezzi. Considerando, inoltre, che esso si riferisce al primo trimestre del 2022 e che i dati di maggio confermano un ulteriore aumento dell’inflazione, la situazione non può che essere ancor più grigia.

Questi dati suggeriscono riflessioni ulteriori tanto sulla natura dell’inflazione, sui suoi effetti distributivi e sugli strumenti cui ricorrere per evitare che a subirla siano solo i lavoratori e le lavoratrici.

L’inflazione, infatti, ci viene generalmente presentata come un mostro calato da chissà dove e i commentatori nostrani – tra un sospiro di sollievo per il presente e uno sguardo di preoccupata disapprovazione sul futuro – osservano che almeno in Europa si è evitata finora la temutissima ‘rincorsa’ tra prezzi e salari. In questa versione pacificante, dove non esistono classi sociali né diseguaglianze, ognuno deve dare il suo contributo per fermare l’inflazione, rinunciando a qualcosa (in questo caso, al nostro salario reale) in nome di un non meglio precisato bene comune.

La realtà sta nell’esatto contrario: già in altri contributi abbiamo evidenziato come l’inflazione agisca all’interno del conflitto distributivo fra capitale e lavoro e anzi come in genere sia il sintomo di un conflitto non risolto. Per questa ragione, di fronte a una impennata inflazionistica, la reazione padronale si prodiga per evitare rimodulazioni dei salari monetari che si risolvono, necessariamente, in una compressione dei salari reali (cioè, i beni e servizi che possiamo effettivamente comprare con la nostra busta paga). Più di recente, commentando il fatto che la BCE ha dato il via ad una stretta monetaria che produrrà inevitabilmente povertà e disoccupazione, abbiamo sorriso (amaramente) sui salti mortali che l’istituto di Francoforte ha dovuto compiere per dire che “si, fino ad ora i salari non sono aumentati, ma domani chissà...”. In Italia, come noto, il massimo che il Governo dei migliori ha concesso è una mancetta di 200 euro, assolutamente insufficiente per contrastare il carovita e, come in molti hanno scoperto in questi giorni, neanche per tutti.

I dati ISTAT, nel mostrare come l’inflazione stia avendo un effetto asimmetrico tra le diverse classi sociali, confermano quindi che la migliore difesa contro l’aumento dei prezzi è proprio l’aumento dei salari, non solamente per recuperarne il loro valore reale ma anche perché un riequilibrio della ricchezza nazionale a loro favore contribuisce a rendere più simili i carrelli della spesa, contrastando quindi l’effetto solo apparentemente paradossale di un’inflazione più alta per chi spende meno. Gli strumenti, al contrario di chi predica moderazione (per gli altri...), sono proprio quello di rinnovi dei contratti a livelli che non solo garantiscano il recupero dell’inflazione ma anche (già proprio ora...) che permettano un aumento del salario reale dei lavoratori; e ancora, meccanismi periodici, e possibilmente automatici, di adeguamento per salari e pensioni al carovita.

Un ultimo passaggio sul tema dei rinnovi contrattuali: in Italia attualmente in base agli accordi vigenti fra le associazioni padronali e le organizzazioni sindacali (meglio, quelle confederali), i rinnovi contrattuali – quando avvengono – dovrebbero essere strutturati in modo che l’accordo nazionale garantisca l’adeguamento all’inflazione e quindi il mantenimento del salario reale, mentre eventuali ulteriori aumenti dovrebbero essere demandati alla contrattazione collettiva.

Abbiamo già detto dell’ipocrisia dell’impianto teorico che sta dietro a questo schema, ma il ragionamento precedente sull’inflazione ci permette di fare un passo in più. Infatti, quando si negozia a livello centrale, l’indice di inflazione utilizzato non è l’IPCA visto in precedenza, ma una creatura mitologica chiamata “IPCA depurato della componente energia importata”; in pratica, nel computo dell’inflazione non viene considerata quella dovuta all’aumento dei beni energetici importati.

Ciò di fatto vuol dire che in sede di contrattazione si considererà un’inflazione più bassa di quella sostenuta dai lavoratori e dalle lavoratrici che, come abbiamo visto, sono anche coloro che stanno scontando un aumento dell’inflazione superiore alla media nazionale.

Per capire l’entità di questo scostamento, ricorriamo ancora una volta ad altri dati ISTAT, che stimano per il 2022 un’IPCA “depurata” pari appena al 4,7%; questo vuol dire che – quando pure i contratti scaduti venissero rinnovati garantendo il pieno rispetto dell’accordo (e non è assolutamente scontato che ciò avvenga) –  questo determinerebbe rispetto all’inflazione reale una perdita di circa 3 o 4 punti percentuali in media, ma una perdita ben più alta (in virtù dell’inflazione asimmetrica) per i salari più bassi.

Ci aspettano settimane in cui tanti partiti faranno a gare per dimostrare di essere i più legittimi eredi della “agenda Draghi”; il rapporto ISTAT ci aiuta a ricordare che la nostra agenda è fatta proprio di numeri diversi, e quindi diverse dovranno essere anche le proposte per rispondere alla crisi.

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28/07/2022

Svegliati e uccidi (1966) di Carlo Lizzani - Minirece

Un flusso di rancore di un cameriere greco

Di seguito propongo il "flusso di coscienza" di un soggetto schiacciato, sfruttato e umiliato dal modello di turistificazione che si è affermato in Europa proprio a partire dalla Grecia post memorandum del 2015.
In realtà, nel continente europeo, il fenomeno andrebbe quanto meno retrodatato all'epopea turistica di Croazia e Slovenia post smembramento della Jugoslavia a inizoo anni '90, ma va bene lo stesso.

All'odio con cui vi confronterete di seguito, va fatta una tara, nel senso che non si tratta esclusivamente di salutare odio di classe (quello alla Sanguineti per capirci), perché il frastagliato orizzonte della diseguaglianza, soprattutto in Occidente ha dato la stura a un affastellamento di livelli subalterni in cui domina il rancore alimentato ad arte da un sistema mediatico, soprattutto delle piattaforme in rete, che propugna l'idolatria verso stili di vita che, per i più, sono autentici miraggi.

Al contempo, e come accade troppo spesso, questi sfoghi denotano quanto sia del tutto inesistente la capacità della sinistra di creare delle contro narrazioni spendibili a partire da questi rilievi reali.

*****

So che non dovrei. Solo perché vengono da posti di merda, freddi anche d’estate. Ma io li odio. Odio i turisti in generale, ma quelli del Nord Europa di più. Quando li vedo camminare seminudi bianchi come cadaveri, flaccidi o atletici non importa. Sempre con ste cazzo di birkenstock come nei safari o con le infradito come se fossero a bordo piscina anche se camminano in mezzo ai liquami e la spazzatura di Monastiraki. Sempre sorridenti. Ci credo che sorridono, belli contenti di visitare le loro colonie! Dopo averci messo in ginocchio, saccheggiato le nostre risorse, appropriati dei nostri aeroporti, vengono in vacanza qui perché l’estate in effetti ha tutto un altro sapore rispetto ai mari del nord con le loro acque limacciose e il cibo di merda.

Gli olandesi poi, sono i peggiori: i più inflessibili a punire gli errori di noi razze mediterranee, i primi a darci lezioni su come si tiene un bilancio e poi vengono qui in ferie. E lo credo bene: due settimane di villeggiatura gli costano come un week end o un biglietto per l’Amsterdam Arena.

Li odio: loro e i tedeschi. Ci hanno trasformato nella Thailandia d’Europa. Manca solo il turismo sessuale ma tutto il resto c’è: un brand costruito a tavolino, richiami alla civiltà ellenica, alla cultura mediterranea, l’accoglienza, il cibo sano e adesso, solo nelle isole esclusive, anche l’opzione spirituale, un po’ di yoga qua e là e la vacanza esotica è servita.

Quando vedo sti pachidermi bianchi cadaverici che si siedono a tavola e chiedono la pizza anche se sono in mezzo all’Egeo – perché tanto siamo sotto le Alpi, eh – e continuano a mangiare uova e bacon a colazione anche se ci sono 38 gradi, gli vorrei pisciare nel piatto.

Perché noi siamo i loro camerieri.

Le Cicladi ormai sono inaccessibili a un normale stipendio greco. L’industria che tiene in piedi il turismo si fonda sulla schiavitù, andate a vedere le baraccopoli dietro alle discoteche di Mykonos e Paros e ai ristoranti di Santorini. La manovalanza greca ormai gareggia al ribasso con i pakistani. Le baracconate che attirano a vagonate la middle class nordeuropea, quelle specie di luna park per turisti scemi a cui ci siamo assuefatti tutti quanti, che rendono indistinguibile una località da un’altra, sono la nuova catena di montaggio a cui la Trojka ha condannato le ultime generazioni della defunta middle class greca. Trova le differenze: quelli il loro cazzo di welfare state se lo godono tutto, mentre il nostro è stato seppellito dalle vanghe tedesche e dalla miseria della nostra classe politica. Così restiamo in attesa degli spiccioli che lasceranno sul tavolo a fine serata.

So che non dovrei odiare questi solo perché vengono dal Nord, personalmente non mi hanno fatto niente di male. Anzi, sono gentili per lo più.

So che non dovrei odiarli, non sono mica un nazionalista di merda, io. Anzi! Vengo dal movimento anarchico greco. A proposito, nei dieci e passa anni di rivolta, dal 2008 in avanti, abbiamo sempre ospitato nelle nostre barricate legioni di “anarcoturisti” dal nord Europa, eccitati come bambini in ricreazione, venuti a giocare alla rivoluzione e a fare tutto quello che a casa loro non possono fare. Col risultato che adesso trovare una casa in affitto a Exarchia è impossibile. Le società immobiliari si sono comprate tutti gli appartamenti per metterli su Airbnb. Per ospitare sti bambini in gita nel quartiere “ribelle”. Che poi li riconosci subito tra le barricate anche se tutti bardati: magrolini e dinoccolati, bianchi e biondi, pronti a devastare la città ma rispondendoti educatamente in inglese. Che un anarchico greco non farebbe mai, dico rispondere educatamente.

Sono cresciuto facendo campeggio libero tra le mille isole dell’Egeo; giravamo insieme alla mia compagnia di amici piazzandoci dove volevamo senza tirare fuori una dracma. A incontrare il mondo e i randagi come noi e condividere tutte quelle cose belle che una spiaggia, l’estate e la creatività di chi non ha soldi ti possono offrire. Ci accampavamo per necessità economica, ma anche per scelta e stile di vita. Finché è stato possibile abbiamo difeso le spiagge che sentivamo nostre, cacciando gli yacht fermi in rada a sassate, noi tutti nudi e selvaggi, loro in polo Ralph Lauren che ci guardavano schifati e preoccupati che le pietre rovinassero la barca. Abbiamo festeggiato attorno ai falò fatti di ombrelloni che qualcuno, le municipalità o qualche privato, provava a impiantare per darsi un tono da riviera. Abbiamo tenuto pulite le spiagge perché appartengono a tutti. Le abbiamo mantenute LIBERE. Ma libere veramente, senza ghetti per nudisti, dove decidere liberamente come stare, con o senza costume. Senza pudori e giudizi. Senza guardie. Ora che il turismo è il sistema che tiene in piedi la Grecia, non c’è più spazio per noi. Ci muoviamo come clandestini tra le ultime isole rimaste, custodendole gelosamente, prima che qualcuno se ne appropri per venderle al banco delle esperienze esotiche alla prossima borsa del turismo.

E a me cosa rimane? L’odio.

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Volano i tassi di interesse Usa, ma Wall Street festeggia

Il mondo della finanza è sempre un po’ illogico. Probabilmente perché ormai si fonda sulla sola matematica – i “prodotti finanziari derivati” vengono disegnati da matematici, non da economisti – e con uno sguardo distratto all’economia reale.

Succede perciò che la Federal Reserve, la banca centrale Usa, alzi per la seconda volta in due mesi i tassi di interesse dell’0,75% e Wall Street festeggi come se fosse una sua vittoria, anziché un ammonimento.

Per spiegarlo c’è da sapere qualcosa, a monte. La manovra sui tassi di interesse è lo strumento principale di ogni banca centrale. Se la fase economica è fiacca, e l’inflazione scende verso lo zero, li abbassa per facilitare un’attività economica più frizzante grazie a un costo del denaro più basso.

Viceversa, i tassi vengono alzati quando l’economia “corre troppo”, riscaldando i prezzi e i salari. Un costo del denaro più alto “sconsiglia” gli investimenti, rallentando così la dinamica produttiva.

Dunque, se i tassi vengono rialzati violentemente – e lo 0,75% in un colpo solo è sicuramente uno strappo molto forte, per le abitudini della Fed – le borse dovrebbero deprimersi, visto che i valori azionari sono teoricamente riferiti alle prospettive di profitto delle aziende (economia rallentata = minori profitti attesi = calo dei valori azionari).

Ma è difficile considerare “matti” gli investitori di miliardi di dollari...

La ragione dell’inattesa festa a Wall Street (il Nasdaq è volato fino al +4%) sta nel gioco delle “attese”, perché la borsa cerca di anticipare la tendenza, comprando oggi a prezzi bassi ciò che tra qualche mese potrebbe valere molto di più (il titolo di Paypal ieri è salito di quasi il 13% per l’ingresso nel capitale del fondo di investimento Elliot, considerato come prova di un futuro radioso).

E l’attesa è quella di vedere presto la fine della fase rialzista dei tassi. Cosa permessa dalle stesse parole con cui Jerome Powell, presidente della Fed, ha parlato dei prossimi mesi.

“La posizione della politica monetaria si inasprirà ulteriormente e probabilmente diventerà appropriato rallentare il ritmo degli aumenti mentre valutiamo in che modo gli aggiustamenti cumulativi delle politiche monetarie stanno influenzando l’economia e l’inflazione”.

Tradotto: ci saranno altri rialzi, ma si comincia a vedere la necessità di andarci più piano, e quindi di ipotizzare (per il prossimo anno) una fine di questa fase. Ergo, diventa un momento buono per comprare azioni svalutate dalla paura della recessione e quindi di far correre Wall Street.

Ma ciò che è buono per la finanza può essere pessimo per chi lavora.

I dati statistici che saranno tenuti sotto osservazione dalla Fed saranno infatti soprattutto la dinamica dei salari e del il mercato del lavoro («che sta andando troppo bene», ha detto il presidente, ossia “troppa gente” sta trovando un lavoro). I salari Usa, nonostante l’alta inflazione, stanno rallentando. E dunque secondo Powell è proprio il mercato del lavoro che occorre ora rallentare leggermente.

Più profitti con meno gente al lavoro. Questa è la regola del neoliberismo...

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Le indagini sulla scomparsa di Daouda diventano un’inchiesta per omicidio e occultamento di cadavere

La Procura di Ragusa, che indaga sulla scomparsa da Acate di Daouda Diane, ha cambiato intestazione al fascicolo: ora l’inchiesta riguarda i reati di omicidio e soppressione di cadavere. È una notizia che purtroppo conferma quanto denunciato sin dal primo momento dai compagni di lavoro di Daouda e da USB: la possibilità cioè che il lavoratore sia rimasto vittima di un incidente sul lavoro e che il suo corpo sia stato fatto sparire.

I parenti, i compagni e gli amici di Daouda non hanno mai smesso, con il sostegno del nostro sindacato, di tenere alta l’attenzione sulla sparizione del lavoratore migrante, una scomparsa che in assenza delle giornate di sciopero e di mobilitazione USB non avrebbe avuto il minimo risalto e Daouda sarebbe stato presto dimenticato come tanti altri migranti scomparsi e mai cercati.

Come Federazione del Sociale e come Coordinamento lavoro agricolo di USB abbiamo il dovere di non abbassare la guardia, di favorire in tutti i modi la possibilità di far arrivare in Italia la famiglia di Daouda, per tutte le necessarie esigenze legali.

Abbiamo il dovere di continuare a denunciare il livello di sfruttamento lavorativo e di indifferenza istituzionale nei confronti di quanti, in fuga dalle guerre dimenticate, dalla siccità, dalla povertà di territori depredati dai ricchi paesi occidentali, giungono in Italia alla ricerca di riscatto e di sostentamento per se stessi e per le loro famiglie!

USB ha presentato alla Prefettura di Ragusa una piattaforma rivendicativa per tutti i lavoratori stranieri, evidenziando i ritardi e le difficoltà che i migranti devono affrontare per ottenere cittadinanza, documenti, assistenza sanitaria, un conto corrente. L’abbiamo presentata anche alla Regione Sicilia, che non una parola ha speso in questi 25 giorni per chiedere il rispetto dei diritti lavorativi e delle norme di sicurezza sui posti di lavoro. I lavoratori migranti in Sicilia, in maggioranza impegnati in agricoltura, soffrono in questo periodo il caldo infernale e le peggiori condizioni lavorative possibili: la Regione ha il dovere di intervenire.

USB non indietreggia e continua la lotta al fianco dei braccianti e dei migranti!

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27/07/2022

L'avventura (1960) di Michelangelo Antonioni - Minirece

Fine lavoro mai. C’è ancora vita oltre il lavoro digitalizzato?

di Gioacchino Toni

Ivan Carozzi, Fine lavoro mai. Sulla (in)sostenibilità cognitiva del lavoro nell’epoca digitale, Eris, Torino, 2022, pp. 64, €6.00

Nell’allarmismo con cui i media danno conto dell’aumento di casi di rifiuto di proposte lavorative o di abbandono volontario di un impiego, è ravvisabile la percezione dello scricchiolare di dogmi fondanti il sistema di sviluppo vigente e la consapevolezza che è difficile cavarsela ricorrendo a qualche vecchio luogo comune. Ad essere messe in discussione parrebbero essere la logica dei “sacrifici necessari” e la retorica “smart” con cui lo story telling dominante ha ammantato tanti “nuovi lavori” digitali. Inizia ad essere difficile nascondere come questi ultimi, nei fatti, risultino “smart” esclusivamente per chi ne trae profitto mentre chi si trova ad eseguirli ne percepisce sempre più distintamente il livello di sfruttamento intensificato e dilatato.

Dietro alla retorica del lavoro “smart”, che può essere svolto “tranquillamente da casa”, si cela un universo di sfruttamento comportante una dilatazione dei tempi di lavoro ed un incremento della solitudine e della frustrazione che finiscono per intaccare l’intera esistenza. Tale situazione di malessere emerge chiaramente dalle esperienze delle persone intervistate da Ivan Carozzi, nel suo recente libro, Fine lavoro mai, edito da Eris.

“Ma a parte il lavoro, il resto come ti va?” chiedo a un amico incontrato per caso dalle parti della Stazione Centrale. “È un sacco di tempo che non ci vediamo”. “Come va? La verità è che sto lavorando troppo” risponde, “non riesco più a fare quello che voglio. Sono sempre stanco. Faccio fatica a staccare”. “Vale anche per me” dico, “mi sembra un problema che riguarda un po’ tutti. È una questione che salta sempre fuori quando chiedi a qualcuno come sta. Facci caso” (pp. 53-54).

Tra le storie raccontate vi è quella di chi, lavorando per qualche piattaforma internet, a cui aveva guardato come ad una sorta di parco giochi, si è trovato di fronte a un sistema di sfruttamento, manipolazione e competizione coordinato da personaggi grotteschi e deliranti senza scrupoli persino nei confronti di se stessi. Oppure quella di un giovane progettista di siti aziendali che racconta dell’estenuante permanenza in call dal primo mattino alla sera senza nemmeno trovare il tempo per un panino, con il lavoro che si protrae anche dopo cena con ricadute sulla qualità del sonno in un loop senza fine.

Ognuno poi scarica la pressione sull’altro, ma io, nel mio ruolo, devo essere bravo a non far surriscaldare il clima e a non stressare troppo il team di sviluppatori. In call bisogna provare a tenere la calma, e poi, finita la call, magari si prende a pugni la scrivania. Perciò tutta la tensione accumulata resta con te, dentro di te e non puoi condividerla con nessuno. Questa impossibilità di condividere lo stress, l’ansia, è stata amplificata dal lavoro in remoto, perché non si è più gomito a gomito nella stessa stanza e non è più possibile condividere i momenti di difficoltà. Sei da solo, lavori tanto e non riesci a sfogarti. La situazione diventa esplosiva (p. 33).

C’è chi racconta come, svegliatosi all’alba in anticipo rispetto al previsto, mette automaticamente mano allo smartphone e, dopo aver passato in rassegna le novità sui social ed aver visionato sommariamente i quotidiani online, finisce per dare un occhio anche alle mail di lavoro spedite magari da qualche collega o cliente dall’altra parte del mondo.

Potrei evitare di aprire le email alle 6 del mattino e invece no, le apro. Ecco la complicità di cui ti dicevo! Leggo e scopro che l’email contiene un’informazione di lavoro. Rimetto il telefono sul comodino e provo a riprendere sonno, ma l’informazione ormai è in viaggio, lavora, lavora e forza la mente a seguire un percorso, la costringe a svegliarsi, a dire di “Sì”, a dire di “No”, a decidere, a considerare le variabili, a porre domande, a individuare soluzioni, a cestinare, a scegliere, fino a quando, prima o poi, non ritorna il sonno e allora, con la luce dell’abat-jour accesa, finalmente mi riaddormento (p. 55).

Nel volume viene riportata anche la storia di un giovane poeta cinese trasferitosi in un grande centro urbano per fare l’operaio. «Quando non è impegnato alla catena di montaggio, vive all’interno di un dormitorio in uno spazio di dieci metri quadri. Nel dormitorio riposa, mangia, caga, scrive e pensa» (p. 47). Salvo poi decidere di farla finita con l’esistenza buttandosi dal diciassettesimo piano di un palazzo.

Carozzi ricorda come Time abbia scelto come Man of the Year 1982 il personal computer affidando la cover all’artista George Segal che, alla sua maniera, ha deciso di posizionare al cospetto del computer uno dei suoi consueti esseri umani di gesso monocromo bianco.

Nella foto di Time l’uomo di gesso è intimidito, come se si trovasse al cospetto di un nuovo datore di lavoro. Il datore di lavoro è imperscrutabile. Il colloquio di lavoro è diverso da ogni altro precedente colloquio di lavoro. L’uomo di gesso non conosce ancora la sequenza dei gesti che schermo e tastiera sembrano invitarlo a eseguire. Il dialogo tra l’uomo di gesso e il computer è silenzioso. Segal mette in scena il principio di un rapporto. Sono le prime luci sulla scena di un nuovo ordine domestico. Il computer entra nelle case. L’uomo di gesso si mantiene a distanza, non per rifiuto o disinteresse, ma per una sorta di riverenza che lo spinge a indugiare. Eppure è attratto dallo schermo. Anche se ormai è un uomo anziano, di fronte a questo utensile che non conosce, apparso sul tavolo di casa, si sente come un bambino. L’uomo di gesso è ogni uomo. Ciascuno di noi è stato l’uomo di gesso. Le mani restano posate sulle ginocchia, anche perché l’uomo di gesso non ha idea di dove guidarle lungo la tastiera e non sa se schiacciare o meno i pulsanti. «Che succede se premo quel pulsante?» si chiede l’uomo di gesso. Non è che magari, per sbaglio, la macchina poi si spegne? E in quel caso, com’è che poi si riaccende? E se la macchina si rompe o esplode? Non sono le schermaglie tra un uomo e un cagnolino che s’incontrano per la prima volta. C’è qualcosa di più profondo in gioco. L’uomo di gesso fiuta la potenza dell’oggetto che gli si para di fronte, muto e scatolare, solo in apparenza simile al televisore (pp. 20-21).

A distanza di alcuni decenni da quella copertina, è come se quell’essere umano, dismesso il suo involucro di gesso, dopo aver passato così tanto tempo davanti a quel nuovo datore di lavoro dotato di schermo, si fosse improvvisamente deciso ad alzarsi e andarsene, compiendo così un suo gesto “smart”. Non importa dove, intanto se ne è andato lasciando solo l’apparecchio e qualche grattacapo alla macchina dello sfruttamento che, ci si può scommettere, farà di tutto per riprenderselo.

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Come finirà il capitalismo?

Con il classico ritardo dell’editoria italiana è finalmente disponibile l’importante libro del sociologo ed economista tedesco Wolfang Streeck «Come finirà il capitalismo?» (Meltemi: pagine 332, euro 22) che contiene una decina di saggi pubblicati fra il 2011 e il 2015, unitamente a una corposa e illuminante introduzione.

Il titolo del libro non deve trarre in inganno il lettore: non c’è alcun sole dell’avvenire all’orizzonte, e per di più Streeck non risparmia considerazioni pungenti sulla caduta dell’azione collettiva e degli scioperi sindacali, oltre alla perdita di autorevolezza dei partiti. Pur auspicando sulla scorta della lezione del sociologo austriaco Karl Polany la discesa in campo di quei contro-movimenti in grado di contrastare la progressiva mercificazione della natura, della moneta e del lavoro.

Un conto, però, sono le aspettative, e altro conto la realtà concreta: anche quanti avevano riposto una certa speranza nella cosiddetta “V Internazionale” di Porto Alegre del 2001 devono purtroppo constatare l’affievolirsi della prospettiva altermondialista, a fronte di un vistoso sfondamento a destra dell’asse politico mondiale (Europa compresa). Le riflessioni di Streeck hanno l’ambizione di contribuire alla definizione di una rinnovata “teoria critica” per demistificare la presunta razionalità ed efficienza dei mercati e sono successive al collasso finanziario del 2008, causato dalla sovraccumulazione dei capitali e dall’esplosione dell’indebitamento privato delle famiglie. Un collasso tutt’altro che imprevisto, se è vero che con il declino della crescita post-bellica nei Paesi occidentali negli anni Settanta si è verificato il fenomeno dell’inflazione globale, e negli anni Ottanta quello della crescita esponenziale dell’indebitamento pubblico. Con l’abbandono poi del keynesismo e l’adozione del modello di crescita “hayekiano” – stante l’adesione dell’ex sinistra con la “terza via” a una visione acritica della globalizzazione – abbiamo assistito a un sostanziale indebolimento del potere del mondo del lavoro e a politiche redistributive sempre più favorevoli ai grandi detentori di capitali.

Al contempo il manifesto declino nel senso comune della società del concetto di tassabilità, per via della resistenza fiscale delle classi medie e della scelta dei grandi capitali di volatilizzarsi nei paradisi fiscali, ha provocato con il calo delle entrate la ben nota “crisi fiscale” degli Stati. Cosicchè gli Stati per consolidare i loro bilanci hanno preferito tagliare le spese in materia di welfare, erodendo progressivamente i diritti di cittadinanza, facilitati in ciò dal ricorso a quel keynesismo privatizzato accreditato sulla base della vulgata del cittadino inteso come cliente e consumatore.

Sono questi i processi per Streeck che hanno sancito l’affermazione della svolta neoliberale. Una svolta che ha poi trovato la sua istituzionalizzazione nell’architettura che governa l’Unione Europea ove – attraverso il Consiglio europeo, la Commissione europea, la Corte di giustizia europea, la Banca Centrale Europea – «la diplomazia prende il posto della lotta di classe e la cooperazione internazionale ha precedenza sulla giustizia sociale». Senonchè, al di là delle enunciazioni quotidiane delle tecnocrazie, le politiche dell’austerità e della flessibilizzazione dei rapporti di lavoro hanno contribuito ad accrescere le diseguaglianze economiche e il discredito dell’Unione Europea, stante la polarizzazione nella società fra una buona parte della popolazione impoverita di “perdenti” e una piccola èlite di super ricchi decisamente avidi. Nel mezzo a questi due poli si collocano le famiglie di una classe media sempre più rancorosa, anche in ragione dell’intensità della prestazione lavorativa imposta dalla frenesia della competizione economica.

Su scala globale, a fronte dei nuovi scenari sul piano della divisione internazionale del lavoro fra Occidente e resto del mondo, è stato un economista del calibro di Larry Summers a prevedere una «stagnazione secolare» del capitalismo. Pertanto, caduta l’immagine progressiva e rassicurante di questa formazione sociale, Streeck nel segnalare l’urgenza di proteggere i beni comuni globali piuttosto che gli squilibri dei mercati sottolinea la necessità di approfondire i cinque disturbi sistemici che affliggono il capitalismo: stagnazione economica; redistribuzione oligarchica; saccheggio del dominio pubblico; corruzione; anarchia globale dei mercati.

Un piano di lavoro senz’altro interessante e condivisibile, se consideriamo la tremenda concomitanza della terza guerra mondiale «a pezzi», della sindemia globale e dei distruttivi cambiamenti climatici.

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L’Europa in trappola

Le principali economie si stanno avvicinando alla recessione, se non ci sono già arrivate; eppure i tassi d'inflazione continuano a salire (per ora). Le ultime indagini sull’attività delle imprese, denominate Purchasing Managers Index (PMI), mostrano che sia l’area euro sia gli Stati Uniti si trovano ora in territorio di contrazione (vale a dire un livello inferiore a 50).

I PMI compositi (che mettono insieme sia il settore manifatturiero si quello dei servizi) per le principali economie a luglio mostrano questi valori:

Stati Uniti: 47,5 (contrazione);

Eurozona: 49,4 (contrazione);

Giappone: 50,6 (debole espansione);

Germania: 48,0 (contrazione);

Regno Unito: 52,8 (debole espansione).

Il risultato dell’Eurozona non dovrebbe sorprendere nessuno, visto l’impatto delle sanzioni sulle importazioni di energia dalla Russia che sta indebolendo gravemente la produzione industriale nel cuore dell’Europa (vedi sotto). La produzione industriale tedesca è in contrazione da oltre tre mesi.


Il grande shock si è verificato anche negli Stati Uniti. Il PMI composito degli Stati Uniti è sceso in territorio di contrazione a 47,5 a luglio, in netto calo rispetto ai 52,3 di giugno, segnalando un solido calo della produzione del settore privato.

Il tasso di calo è stato il più forte dalle fasi iniziali della pandemia nel maggio 2020, in quanto sia i produttori sia i fornitori di servizi hanno riferito di condizioni di domanda modeste. Quindi, proprio mentre entriamo nella seconda metà del 2022, l’attività imprenditoriale statunitense è in calo.


Secondo l’ultima stima della crescita del Pil reale effettuata dal modello “GDP NOW” della Federal Reserve di Atlanta, nei tre mesi fino a giugno l’economia statunitense si è contratta a un tasso annualizzato del -1,6%, eguagliando l’analogo calo del -1,6% registrato nel primo trimestre.
Se questa stima verrà confermata la prossima settimana, gli Stati Uniti entreranno tecnicamente in recessione.


La domanda è: come può l’economia statunitense essere in recessione o quasi, quando il tasso di disoccupazione è vicino ai minimi storici e le buste paga continuano ad aumentare?

La risposta è quantomeno dubbia. Innanzitutto, esistono due misure dell’occupazione negli Stati Uniti: i dati sui salari e l’indagine sulle famiglie (un’indagine sulle famiglie con un lavoro).

Quest’ultima mostra attualmente un dato opposto alla prima, ovvero un calo del numero di americani che lavorano. In base a questa misurazione delle famiglie, la forza lavoro si è ridotta, passando da 164,376 milioni a 164,023 milioni, e il tasso di partecipazione (gli occupati rispetto al totale della popolazione in età lavorativa) è sceso più del previsto al 62,2% – grafico sotto.


Inoltre, le richieste iniziali di disoccupazione (il numero di persone che chiedono sussidi perché sono rimaste senza lavoro) sono in costante aumento.


E il numero di nuovi posti di lavoro disponibili (chiamato JOLTS) ha raggiunto il massimo.


In secondo luogo, e soprattutto, la disoccupazione è un indicatore ritardatario (lagging) di una recessione. L’indicatore anticipatore è il movimento dei profitti aziendali e degli investimenti delle imprese, seguito dalla produzione e quindi dalla disoccupazione.

La disoccupazione viene per ultima perché aumenta solo quando le aziende smettono di assumere altra manodopera e iniziano a licenziare. E lo fanno solo quando la redditività e la produzione iniziano a diminuire. E, dopo aver raggiunto i massimi storici, i margini di profitto hanno iniziato a diminuire.


Durante il crollo della Covid, i profitti sono aumentati nettamente rispetto ai salari e hanno agito da motore per l’aumento dell’inflazione. Ora la situazione sta cambiando, poiché i profitti sono schiacciati dall’aumento dei costi dei componenti e dall’indebolimento della domanda.


Ma è in Europa che le prove di un vero e proprio crollo sono più convincenti. E non sono solo i dati sulla crescita economica a sostenerlo. Inoltre, l’Europa si trova ad affrontare un’enorme pressione sulla produzione e sulle importazioni di energia, poiché le sanzioni applicate alle importazioni di gas e petrolio dalla Russia non saranno sufficientemente compensate dalle importazioni provenienti da altri paesi.

Molti produttori tedeschi stanno avvertendo che dovranno chiudere completamente la produzione se gli input energetici si esauriranno. Petr Cingr, amministratore delegato della più grande azienda tedesca produttrice di ammoniaca e fornitore chiave di fertilizzanti e fluidi di scarico per motori diesel, ha avvertito delle conseguenze devastanti della fine delle forniture di gas russo.

“Dobbiamo fermare [la produzione] immediatamente“, ha detto, “da 100 a zero“. Secondo gli analisti di UBS, l’assenza di gas per l’inverno provocherà una “profonda recessione” con una contrazione del Pil del 6% entro la fine del prossimo anno.

La Bundesbank tedesca ha avvertito che gli effetti sulle catene di approvvigionamento globali di un’eventuale interruzione delle forniture da parte della Russia aumenterebbero di due volte e mezzo l’effetto shock originario.

ThyssenKrupp, la più grande azienda siderurgica tedesca, ha dichiarato che senza gas naturale per far funzionare i suoi forni “non si possono escludere arresti e danni tecnici ai nostri impianti“.

E c’è di peggio. L’inflazione è ancora in aumento nella maggior parte delle economie europee. La Banca centrale europea (BCE) ha quindi deciso di intervenire per aumentare drasticamente i tassi di interesse.

La scorsa settimana ha aumentato il tasso di riferimento di 50 punti base, più del previsto, portandolo in territorio positivo per la prima volta in un decennio. I giorni del “quantitative easing” sono stati sostituiti dal “quantitative tightening“, ossia l’opposto.

Ma questa mossa arriva nel momento peggiore per paesi come l’Italia, fortemente dipendenti dall’energia russa.

La scorsa settimana, il tecnocrate ex presidente della BCE, il primo ministro italiano Mario Draghi, è stato costretto a dimettersi quando diversi partiti della sua coalizione di governo hanno ritirato il loro sostegno; alcuni perché si opponevano al suo appoggio agli aiuti militari all’Ucraina, altri perché vedevano la possibilità di vincere le elezioni. L’Italia ha un rapporto debito pubblico/Pil molto elevato.


Finora i costi di servizio del debito sono stati bassi perché i tassi di interesse sono stati mantenuti bassi dalla BCE, che ha anche fornito miliardi di credito ai governi dell’Eurozona.

Ma ora i tassi di interesse sono in aumento e gli investitori in titoli di Stato italiani si sono preoccupati che l’Italia (soprattutto quella senza un governo “valido”) possa avere difficoltà a rifinanziare il debito. Il rendimento dei titoli decennali italiani è salito al di sopra del 3,5%.

La caduta del governo italiano minaccia anche la distribuzione di miliardi di euro dai fondi di ripresa Covid dell’UE, che dovrebbero essere destinati all’Italia il prossimo anno per stimolare la crescita economica.


Quindi l’economia europea sta andando a picco proprio mentre la BCE aumenta i tassi per controllare l’inflazione.

Come ho spiegato nei post precedenti, aumentare i tassi di interesse per controllare l’aumento dell’inflazione causato dalla debolezza dell’offerta e della produttività e dalla guerra in Ucraina non funzionerà, se non a provocare un crollo.

La BCE è ora ricorsa a una misura disperata introducendo uno strumento di protezione della trasmissione (TPI), una nuova forma di credito condizionale che verrà erogata a governi come l’Italia in caso di crollo dei prezzi delle loro obbligazioni.

Tuttavia, questo strumento potrebbe non essere mai utilizzato perché significherebbe che la BCE starebbe finanziando a tempo indeterminato la spesa fiscale dell’Italia, cosa che probabilmente è contraria a tutte le regole di Maastricht per l’Eurozona.

La BCE si trova in quello che un analista ha definito uno “scenario da incubo“. Il vicecapo del think tank economico Bruegel, con sede a Bruxelles, Maria Demertzis, ha dichiarato: “il rischio che abbiamo davanti è che, a causa della crisi energetica, l’area dell’euro possa finire in recessione, mentre allo stesso tempo la BCE dovrà continuare ad aumentare i tassi se l’inflazione non scende“.

Krishna Guha, responsabile della strategia per le politiche e le banche centrali della banca d’investimento statunitense Evercore, ha dichiarato: “la combinazione di un gigantesco shock stagflattivo derivante dalla riduzione del gas naturale russo e di una crisi politica in Italia è quanto di più vicino a una tempesta perfetta si possa immaginare per la BCE“.

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