Senza mezzi termini: “per fare tutto questo – il programma previsto da PNRR e partecipazione alla guerra – serve un governo forte e coeso, e un Parlamento che lo accompagni. Serve una fiducia vera, non di facciata”. Sottinteso: totale. “Siete pronti? La risposta non la dovete a me ma a tutti gli italiani”.
L’attesa per il discorso di Mario Draghi al Senato si è conclusa con la prevista dichiarazione di disponibilità a restare presidente del consiglio ma solo se si “ricostruisce il patto di fiducia” per come era stato all’inizio del suo mandato.
Ovvero senza nessun distinguo dei singoli partiti su nessuno dei punti fondamentali. Con i partiti obbedienti come lo sono stati – purtroppo aggiungiamo noi – “i cittadini”, che hanno sopportato di tutto con poche o nessuna resistenza.
Non ha detto, e non poteva certo dirlo senza passare per un aspirante “autocrate”, “qui comando io”. Ma il senso di tutto il discorso è stato questo.
Il lungo e scontato elenco delle cose fatte e da fare, con tanto di date e accenno alle conseguenze negative in caso di mancato delle scadenze del PNRR (“difficilmente si potrebbero chiedere altri aiuti in futuro”), è servito ad evidenziare che su tutti i temi su cui Lega o Cinque Stelle hanno storto il naso (reddito di cittadinanza, bonus edilizia, riforma del fisco, concessioni balneari, taxi, ecc.) le uniche soluzioni possibili sono quelle proposte da lui.
Perché le regole europee – anche se molte vanno ridiscusse, ma solo da un “governo autorevole” sul piano internazionale – sono vincolanti.
E così sulla guerra e l’invio di armi all’Ucraina (“unico modo per permettergli di difendersi”), dove la sottolineatura sulla “risoluzione parlamentare già approvata” serviva solo a ribadire che non ci saranno altri voti parlamentari su un’eventuale (e probabile) escalation su quantità e qualità degli armamenti.
Su tutto, continuo ed insistente, il riferimento al contesto e alle organizzazioni sovranazionali (Unione Europea, Nato, G7), che sono “la nostra casa” e che ci stanno a sentire solo se siamo “sufficientemente autorevoli”. Il che significa una sola cosa: un governo di unità nazionale il più largo possibile, senza opposizione interna (la Meloni, si sa, fa finta e lo spiegheremo presto, analizzando la sua ipotetica “lista dei ministri” in caso dovesse vincere le prossime elezioni).
C’è un solo programma, un solo interesse sociale legittimo, e corrisponde totalmente a quello che “i mercati” pretendono. L’“orgoglio nazionale” sta nel rispondere a questa volontà. Altrimenti – è il sottotesto che ogni tanto fa capolino dalle sue parole – è il diluvio.
Anche le ridicole “mobilitazioni spontanee” di questi giorni, con cui ha voluto identificare “la maggioranza degli italiani”, sono state un argomento usato con vero sprezzo del ridicolo come “legittimazione” alla propria permanenza alle sue condizioni.
Il resto – le parole sull’“agenda sociale” o sul “salario minimo”, sui rinnovi contrattuali o sulla mancanza di contratti – sono state per l’appunto parole. Spese per far dire che “c’è attenzione” a certi temi, ma senza alcun impegno formale, tanto meno sul merito concreto (per altre questioni, come il contestato rigassificatore a Piombino, ha indicato invece anche la data di completamento dei lavori).
Anzi, c’è semmai da preoccuparsi per quell’accenno a una “riforma delle pensioni” che – immancabilmente, come da 30 anni a questa parte – dovrà garantire “flessibilità in uscita” ma dentro uno schema “sostenibile”. La Fornero, insomma, con qualche modifica anche peggiorativa...
Ma è il dato istituzionale quello peggiore: “serve un governo forte e coeso, e un Parlamento che lo accompagni” è un rovesciamento costituzionale che elimina la democrazia parlamentare liberale. Per ora nei fatti, le riforme costituzionali seguiranno.
Magari quando, dopo le prossime elezioni politiche, Mattarella potrebbe a sua volta lasciare il Quirinale per consegnarlo a Lui.
P.s. Coincidenze.
Subito dopo la conclusione del discorso, dopo un’apertura negativa, la Borsa di Milano è passata in positivo, con le banche in grande spolvero. Ed anche lo spread è ridisceso, beneficiando i possessori di titoli di stato italiani (prima di tutto le banche, ovviamente) con un aumento dei prezzi e una diminuzione dei rendimenti.
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