L’assassinio dell’ex-premier giapponese Shinzo Abe a Nara l’8 luglio scorso ha visto “uscire di scena” uno dei protagonisti più rilevanti della politica nipponica del dopoguerra, ma certamente non le politiche che ha portato avanti la dinastia degli Abe in Giappone.
Il sospettato dell’omicidio di Abe, Tetsuya Yamagami, avrebbe dichiarato alla polizia che il suo gesto – compiuto con una arma di fabbricazione artigianale – sarebbe stato motivato dalla rabbia contro la South Korea’s Unification Church, universalmente conosciuta come Moonies, dal nome del loro fondatore Moon Sun-muyung, più noto in Italia come “Reverendo Moon”.
Il presunto assassino, ex membro della marina militare (Forze di Auto-Difesa Marittime nella dizione ufficiale), avrebbe dichiarato che le ingenti donazioni della madre a questa potente “setta” avrebbero messo sul lastrico la sua famiglia – un caso tutt’altro che isolato – e che nell’impossibilità di riuscire a colpirne il vertice della sezione giapponese della Family Federation of Word Peace, Yamagami avrebbe scelto come obiettivo proprio Abe, il personaggio politico più importante legato alla setta, colpito durante un comizio elettorale a qualche giorno dalle elezioni per la Camera Alta.
Le relazioni tra questo gruppo religioso e una figura di spicco della parte più conservatrice del Partito Liberal Democratico (LDP) avevano fatto discutere, considerati gli scandali passati legati a casi giudiziari in cui emergeva la pratica della compravendita spirituale che aveva causato la rovina economica di numerose famiglie.
L’Associazione degli Avvocati che offre tutela legale contro questo tipo di abusi religiosi in Giappone stima in 894 milioni di dollari (123 miliardi di Yuan) i soldi “estorti” in 30 anni a chi si è rivolto a loro per denunciare questa pratica.
Questa chiesa, originariamente nota come “Associazione del Santo Spirito per l’Unificazione della Cristianità Mondiale”, fu fondata nel 1954 in Sud Corea, nella città portuale di Busan, un anno dopo la fine del primo conflitto militare della Guerra Fredda, la Guerra di Corea (1950-53).
Il suo fondatore, l’ex presbiteriano Moon Sun-muyung – noto appunto in Italia come “Reverendo Moon” – e la sua setta sono stati uno degli strumenti della crociata anticomunista filo-statunitense in Asia poi diffusasi in tutto il mondo, anche negli USA, dove il “discusso” prelato ha costruito una fortuna.
Moon era un nord-coreano internato in un campo, accusato di essere una spia al soldo del regime sud-coreano, che era stato liberato dagli Stati Uniti durante la Guerra di Corea.
In Giappone la setta “approdò”nel 1959 e conta tuttora 600.000 membri. Sia Shinzo Abe che suo nonno Nobusuke Kishi, anch’egli Primo Ministro ed ex-funzionario di alto rango dell’amministrazione coloniale giapponese, sebbene non fossero ufficialmente membri, ne erano ferventi sostenitori.
È bene ricordare che Nobusuke Kishi è stato un “criminale di guerra” anti-cinese e l’architetto dello sviluppo industriale a fini bellici dello Stato fantoccio del “Manchukuo” – cioè della Manciuria occupata dal 1931 dal Giappone – da cui trassero non pochi guadagni le dinastie industriali private giapponesi, costringendo i cinesi al lavoro coatto in condizioni disumane.
Gli Stati Uniti lo usarono nella ricostruzione politica del Giappone allineato ai propri indirizzi strategici.
La Chiesa è storicamente coinvolta nelle politica conservatrice giapponese sin dai tempi del nonno di Abe, con un orientamento fortemente revisionista rispetto al passato imperiale nipponico, teso a far risorgere un sentimento nazionalista ed un’indole bellicista nella cultura politica dell’arcipelago.
L’alta dirigenza conservatrice del LDP si è sempre battuta per la revisione della Costituzione “pacifista” giapponese ed ora, con i risultati delle recenti elezioni politiche, le quattro formazioni che compongono la coalizione governativa hanno ipoteticamente i numeri sufficienti – occorrono i due/terzi degli eletti – per modificarla e poi sottoporla a referendum popolare per l’approvazione finale.
I Moonies sono stati una risorsa politica importante in grado di mobilitare i propri adepti nelle campagne elettorali in favore dell’ala conservatrice del LDP e molto probabilmente una fonte di supporto economico “indiretto” per la dinastia politica degli Abe, che si sono avvantaggiati da questa specie di strozzinaggio religioso.
Nel settembre scorso, Abe e Trump erano apparsi insieme ad un evento della Chiesa, con l’ex-premier che aveva dichiarato: “sono onorato che mi sia data la possibilità di parlare con il mio caro amico Trump, che è stato un vettore per la Pace Mondiale”.
L’agiografia proposta dai media mainstream dopo la morte di Abe stride con la realtà di questo uomo politico – una specie di fascista giapponese in “doppiopetto” – che recentemente si era distinto per le dichiarazioni bellicose in favore di Taiwan (ex colonia nipponica) contro la Cina e per l’installazione di armi nucleari nord-americane sul suolo nipponico.
Anche senza Abe, la terza potenza economica mondiale si appresta a raddoppiare la propria spesa militare, a rivedere la propria costituzione pacifista, ed a giocare un ruolo bellico più marcato a fianco della NATO.
Abbiamo tradotto questo articolo apparso sul Foreign Affairs che fa un profilo, traccia un bilancio e identifica il lascito di Abe nella politica nipponica da cui emerge con forza l’importanza delle politiche che ha portato avanti per le strategie nord-americane in Asia.
Buona lettura.
Il sospettato dell’omicidio di Abe, Tetsuya Yamagami, avrebbe dichiarato alla polizia che il suo gesto – compiuto con una arma di fabbricazione artigianale – sarebbe stato motivato dalla rabbia contro la South Korea’s Unification Church, universalmente conosciuta come Moonies, dal nome del loro fondatore Moon Sun-muyung, più noto in Italia come “Reverendo Moon”.
Il presunto assassino, ex membro della marina militare (Forze di Auto-Difesa Marittime nella dizione ufficiale), avrebbe dichiarato che le ingenti donazioni della madre a questa potente “setta” avrebbero messo sul lastrico la sua famiglia – un caso tutt’altro che isolato – e che nell’impossibilità di riuscire a colpirne il vertice della sezione giapponese della Family Federation of Word Peace, Yamagami avrebbe scelto come obiettivo proprio Abe, il personaggio politico più importante legato alla setta, colpito durante un comizio elettorale a qualche giorno dalle elezioni per la Camera Alta.
Le relazioni tra questo gruppo religioso e una figura di spicco della parte più conservatrice del Partito Liberal Democratico (LDP) avevano fatto discutere, considerati gli scandali passati legati a casi giudiziari in cui emergeva la pratica della compravendita spirituale che aveva causato la rovina economica di numerose famiglie.
L’Associazione degli Avvocati che offre tutela legale contro questo tipo di abusi religiosi in Giappone stima in 894 milioni di dollari (123 miliardi di Yuan) i soldi “estorti” in 30 anni a chi si è rivolto a loro per denunciare questa pratica.
Questa chiesa, originariamente nota come “Associazione del Santo Spirito per l’Unificazione della Cristianità Mondiale”, fu fondata nel 1954 in Sud Corea, nella città portuale di Busan, un anno dopo la fine del primo conflitto militare della Guerra Fredda, la Guerra di Corea (1950-53).
Il suo fondatore, l’ex presbiteriano Moon Sun-muyung – noto appunto in Italia come “Reverendo Moon” – e la sua setta sono stati uno degli strumenti della crociata anticomunista filo-statunitense in Asia poi diffusasi in tutto il mondo, anche negli USA, dove il “discusso” prelato ha costruito una fortuna.
Moon era un nord-coreano internato in un campo, accusato di essere una spia al soldo del regime sud-coreano, che era stato liberato dagli Stati Uniti durante la Guerra di Corea.
In Giappone la setta “approdò”nel 1959 e conta tuttora 600.000 membri. Sia Shinzo Abe che suo nonno Nobusuke Kishi, anch’egli Primo Ministro ed ex-funzionario di alto rango dell’amministrazione coloniale giapponese, sebbene non fossero ufficialmente membri, ne erano ferventi sostenitori.
È bene ricordare che Nobusuke Kishi è stato un “criminale di guerra” anti-cinese e l’architetto dello sviluppo industriale a fini bellici dello Stato fantoccio del “Manchukuo” – cioè della Manciuria occupata dal 1931 dal Giappone – da cui trassero non pochi guadagni le dinastie industriali private giapponesi, costringendo i cinesi al lavoro coatto in condizioni disumane.
Gli Stati Uniti lo usarono nella ricostruzione politica del Giappone allineato ai propri indirizzi strategici.
La Chiesa è storicamente coinvolta nelle politica conservatrice giapponese sin dai tempi del nonno di Abe, con un orientamento fortemente revisionista rispetto al passato imperiale nipponico, teso a far risorgere un sentimento nazionalista ed un’indole bellicista nella cultura politica dell’arcipelago.
L’alta dirigenza conservatrice del LDP si è sempre battuta per la revisione della Costituzione “pacifista” giapponese ed ora, con i risultati delle recenti elezioni politiche, le quattro formazioni che compongono la coalizione governativa hanno ipoteticamente i numeri sufficienti – occorrono i due/terzi degli eletti – per modificarla e poi sottoporla a referendum popolare per l’approvazione finale.
I Moonies sono stati una risorsa politica importante in grado di mobilitare i propri adepti nelle campagne elettorali in favore dell’ala conservatrice del LDP e molto probabilmente una fonte di supporto economico “indiretto” per la dinastia politica degli Abe, che si sono avvantaggiati da questa specie di strozzinaggio religioso.
Nel settembre scorso, Abe e Trump erano apparsi insieme ad un evento della Chiesa, con l’ex-premier che aveva dichiarato: “sono onorato che mi sia data la possibilità di parlare con il mio caro amico Trump, che è stato un vettore per la Pace Mondiale”.
L’agiografia proposta dai media mainstream dopo la morte di Abe stride con la realtà di questo uomo politico – una specie di fascista giapponese in “doppiopetto” – che recentemente si era distinto per le dichiarazioni bellicose in favore di Taiwan (ex colonia nipponica) contro la Cina e per l’installazione di armi nucleari nord-americane sul suolo nipponico.
Anche senza Abe, la terza potenza economica mondiale si appresta a raddoppiare la propria spesa militare, a rivedere la propria costituzione pacifista, ed a giocare un ruolo bellico più marcato a fianco della NATO.
Abbiamo tradotto questo articolo apparso sul Foreign Affairs che fa un profilo, traccia un bilancio e identifica il lascito di Abe nella politica nipponica da cui emerge con forza l’importanza delle politiche che ha portato avanti per le strategie nord-americane in Asia.
Buona lettura.
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Perché Shinzo Abe pensava che il Giappone dovesse cambiare
Perché Shinzo Abe pensava che il Giappone dovesse cambiare
Jennifer Lind
Negli anni precedenti l’ascesa al potere di Shinzo Abe come primo ministro, il Giappone ha vacillato sotto molteplici colpi. Gli anni di rapida crescita economica erano ormai lontani, la fine della Guerra Fredda aveva sollevato dubbi sulla durata dell’alleanza tra Stati Uniti e Giappone e la reazione incerta di Tokyo alla Guerra del Golfo Persico del 1991 aveva portato il Giappone a essere percepito come un free rider nell’ordine internazionale.
La regione mostrava i segni di una tempesta crescente, con l’aumento della potenza economica e militare della Cina e l’escalation delle attività nucleari della Corea del Nord dopo il suo ritiro dal Trattato di non proliferazione nucleare.
Di fronte a queste sfide, Abe è stato l’unico leader giapponese che non solo ha osservato questo mondo in evoluzione, ma ha anche sviluppato una chiara visione del ruolo del suo Paese in esso e ha lavorato a fianco dei partner giapponesi per portarla a termine.
Molti in Giappone e molti dei suoi vicini hanno abbracciato la visione conservatrice di Abe per la politica estera: il Giappone è “tornato”!
Alcuni dei suoi compatrioti e vicini, tuttavia, erano turbati dalle manifestazioni talvolta estreme del nazionalismo di Abe e non erano disposti a riportare “indietro” un Giappone che aveva eluso le lezioni del suo passato bellico. Costretto a scegliere tra i suoi obiettivi conservatori di politica di sicurezza e il suo nazionalismo conservatore, Abe è sceso a compromessi.
Con la sua lungimiranza, astuzia e adattabilità, il Giappone ha perso un leader formidabile che stava ancora plasmando attivamente i dibattiti politici in un’epoca di enormi cambiamenti. L’entità della sua perdita solleva interrogativi reali sulla possibilità di realizzare la sua visione.
Il visionario
Assassinato l’8 luglio nella città di Nara, Abe è stato il primo ministro più giovane e più longevo del Giappone. In un Paese noto per la sfilata di primi ministri a breve termine e dimenticabili, ha governato (dopo un breve primo mandato dal 2006 al 2007) per quasi otto anni consecutivi, dal 2012 al 2020.
A livello nazionale, le sue politiche e riforme, note come “Abenomics”, hanno cercato, con un certo successo iniziale, di ripristinare il dinamismo economico del Giappone (il Giappone rimane la terza economia mondiale e un importante leader tecnologico).
Abe era anche noto per aver affrontato la disuguaglianza di genere del Giappone; il World Economic Forum classifica la parità di genere del Giappone a un deplorevole 120° posto su 153 Paesi. La sua retorica sull’aiutare le donne a “brillare” ha eclissato i risultati limitati dei suoi sforzi, sia nella società in generale che nella politica giapponese. Ma la sua attenzione alla “womenomics” ha dato risalto a una questione cruciale che la maggior parte dei leader giapponesi si era accontentata di ignorare.
La politica estera è l’ambito in cui l’eredità di Abe è più evidente. Oggi la competizione tra grandi potenze domina le conversazioni a Washington e non solo. È difficile ricordare che due decenni fa, quando Abe ha iniziato ad articolare la sua visione di politica estera, era molto più avanti di molti leader giapponesi e mondiali – e molto più avanti di un pubblico giapponese sonnolento – in termini di comprensione delle tendenze del potere cinese, del revisionismo territoriale e delle ambizioni per l’ordine internazionale.
Quando Abe ha sviluppato le sue idee sulla sicurezza regionale dell’Indo-Pacifico, il concetto di Indo-Pacifico non esisteva. Abe non solo ha introdotto questa idea (che ora è alla base del pensiero strategico giapponese e americano), ma ha anche riconosciuto che la ‘sfida della Cina’ nella regione avrebbe richiesto un cambiamento significativo nella politica giapponese.
La politica di sicurezza giapponese del dopoguerra si basava sulla Dottrina Yoshida, dal nome del suo architetto, il Primo Ministro Shigeru Yoshida. In base a questa dottrina, il Giappone si concentrava sulla ricostruzione dell’economia e si affidava agli Stati Uniti per le sue esigenze di sicurezza.
L’alleanza tra Stati Uniti e Giappone (firmata nel 1951 e rinnovata nel 1960) comportava costi e rischi significativi: ad esempio, il Giappone rischiava di essere intrappolato in una guerra nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Il Giappone ha fornito agli Stati Uniti basi militari, pagando al contempo sussidi agli Stati Uniti e accettando le insicurezze locali derivanti da una presenza militare straniera, come lo stupro di donne locali, gli incidenti e i danni ambientali.
Tuttavia, l’alleanza ha anche permesso al Giappone di scaricare le responsabilità sugli Stati Uniti, con una spesa militare giapponese pari ad appena l’1% del PIL. Si tratta di circa la metà della media mondiale, un dato notevole se si considera la ricchezza del Giappone.
Ma durante la Guerra Fredda, l’alleanza sbilanciata ha funzionato. L’economia sovietica non è mai stata più di un terzo di quella statunitense e Mosca ha concentrato la maggior parte della sua potenza militare in Europa.
La fine della Guerra Fredda ha fatto sorgere nuovi pericoli nel contesto della sicurezza del Giappone. Decenni di rapida crescita hanno portato la Cina a scavalcare il Giappone per diventare la seconda economia mondiale e a dedicare la sua nuova ricchezza al miglioramento delle sue capacità militari marittime, adottando una posizione militare regionale più assertiva.
Alcuni anni fa, uno studio approfondito della RAND Corporation aveva messo in guardia sul fatto che l’accumulo militare cinese di sensori sofisticati, piattaforme d’armamento e, ora, della più grande marina militare del mondo, stava erodendo la capacità degli Stati Uniti di convogliare i propri aerei e navi di superficie nella regione.
E in effetti, come sostiene l’ex alto funzionario della Marina statunitense Thomas Shugart, “in assenza di cambiamenti significativi nelle tendenze attuali”, tutti dovrebbero aspettarsi il “dominio militare cinese della regione” entro un decennio o poco più.
In risposta a queste mutate condizioni, Abe si è reso conto che anche la politica di sicurezza giapponese doveva cambiare. Uno dei suoi obiettivi principali era la revisione della Costituzione giapponese, il cui articolo 9 proibisce al Paese di avere forze militari o di impegnarsi in un’azione militare per risolvere i problemi internazionali.
Abe non è tuttavia mai riuscito a raggiungere questo obiettivo a causa del forte sostegno dell’opinione pubblica all’articolo 9. Al contrario, nella legislazione sulla sicurezza nazionale del 2015, Abe ha supervisionato una “reinterpretazione” ufficiale della Costituzione che avrebbe permesso una maggiore cooperazione per la sicurezza giapponese con gli Stati Uniti e altri partner.
Come sottolinea l’esperto di Giappone e biografo di Abe, Tobias Harris, Abe ha orchestrato numerosi altri importanti cambiamenti nella politica giapponese, aumentando la spesa per la difesa e creando uno “Stato di sicurezza nazionale” che prima mancava al Giappone.
Il governo di Abe ha approvato una legge per aumentare le pene per la rivelazione di segreti di Stato e ha creato un Consiglio di sicurezza nazionale, supportato da un segretariato, che ha spostato le iniziative di politica estera e di sicurezza sostanziali all’ufficio del primo ministro.
Queste azioni hanno reso il Giappone più sicuro? I critici che si oppongono a una maggiore mobilitazione militare e che temono che la legge sulla segretezza venga usata per soffocare l’opposizione politica dicono di no. Ma nessuno mette in dubbio la profonda influenza di Abe come architetto di una visione della sicurezza convincente e coerente.
Lo statista
Nel riformare la politica di sicurezza giapponese, Abe ha anche lavorato per rafforzare l’alleanza tra Stati Uniti e Giappone. La sua leadership è stata accolta con favore a Washington, che da tempo esortava il Giappone ad assumere un ruolo più importante.
La pianificazione e l’addestramento militare congiunto si sono intensificati e, come osserva il politologo Ryo Sahashi, Washington ha accolto l’idea di Abe di un “Indo-Pacifico libero e aperto” e la formazione del QUAD con Australia e India.
Oltre alla costruzione di capacità e istituzioni con Washington, Abe si è impegnato in una riconciliazione storica con gli Stati Uniti. In collaborazione con il Presidente Barack Obama, ha creato momenti di profonda riconciliazione sia a Pearl Harbor che a Hiroshima, cerimonie in cui i due Paesi hanno espresso il loro dolore per le violenze e le perdite subite da entrambe le parti e (a Hiroshima) hanno riaffermato un impegno comune per la non proliferazione nucleare.
Abe non si è limitato a lavorare bene con i principali responsabili dell’alleanza di Washington. Lui e il suo governo hanno affrontato le elezioni del 2016 e la sorprendente vittoria di Donald Trump. Abe si è affrettato a recarsi alla Trump Tower di Manhattan per essere il primo leader globale a porgere i suoi omaggi di persona, presentando al presidente eletto una mazza da golf Honma placcata in oro (poi esposta quando i due hanno giocato una partita gioviale al resort Mar-a-Lago di Trump in Florida).
Durante quest’epoca di sconvolgimenti e incertezze nella politica di alleanza degli Stati Uniti, Abe ha sviluppato un rapporto di lavoro amichevole con Trump.
Ancora più importante, quando l’amministrazione Trump ha ritirato gli Stati Uniti dal Partenariato Trans-Pacifico (TPP), Abe ha preso il timone della diplomazia economica regionale. Mireya Solis, studiosa della Brookings Institution, scrive che il Giappone di Abe “ha riempito il vuoto lasciato dall’abbandono di Washington” del TPP e “ha abilmente impedito che l’accordo commerciale si disfacesse, preservando i suoi ambiziosi requisiti sull’eliminazione delle tariffe e adottando un approccio chirurgico alla sospensione di una serie di regole che gli Stati Uniti avevano sostenuto”.
Oltre a impegnarsi per ottenere relazioni forti con gli Stati Uniti, Abe ha adottato un profilo diplomatico più ampio rispetto alla maggior parte dei primi ministri giapponesi.
Ha coltivato stretti legami con il leader indiano, Narendra Modi, che ha rilasciato una commovente dichiarazione dopo la morte del primo ministro, sottolineando che Abe è stato un “grande visionario” che ha trasformato i legami bilaterali da una relazione economica “largamente ristretta” a una “ampia relazione globale”.
Abe ha cercato di coinvolgere il Regno Unito negli affari di sicurezza dell’Indo-Pacifico, trovando un alleato entusiasta in un paese post-Brexit alla ricerca di partner globali. Come osservato da The Economist, “dal 2015 la Gran Bretagna ha salutato il Giappone come il suo più stretto partner per la sicurezza in Asia, ha inviato i jet da combattimento Typhoon per effettuare esercitazioni con l’aviazione giapponese ed è diventata il primo Paese, oltre all’America, a eseguire esercitazioni con l’esercito giapponese”.
Nonostante la Cina sia emersa come la principale sfida per la sicurezza del Giappone, Abe ha anche lavorato per migliorare le relazioni bilaterali, dichiarando un “nuovo inizio” dopo un incontro del 2017 con Xi Jinping e visitando Pechino l’anno successivo. Abe non solo ha riconosciuto la necessità di trasformare le relazioni di sicurezza regionale, ma ha anche dedicato enormi energie diplomatiche per realizzare questa visione.
Il conservatore
I critici e i media descrivono spesso Abe come un “ultraconservatore” di “estrema destra”. Sebbene Abe fosse effettivamente un conservatore, tali etichette nascondono il riconoscimento della tensione tra il suo nazionalismo e i suoi obiettivi di sicurezza nazionale, e di come sia sceso a compromessi con il primo quando questo ha minacciato il perseguimento dei secondi.
Abe faceva parte di una fazione conservatrice del Partito Liberal Democratico (LDP) ed era noto per la sua associazione con Nippon Kaigi, un’influente organizzazione conservatrice che, tra gli altri obiettivi, sosteneva l’insegnamento della storia giapponese per inculcare l’orgoglio nazionale.
All’inizio del suo mandato, Abe ha visitato il Santuario di Yasukuni, un luogo che suscita polemiche perché onora non solo i soldati giapponesi comuni, ma anche gli uomini condannati per “crimini contro l’umanità” nei processi per crimini di guerra svoltisi a Tokyo dopo la Seconda Guerra Mondiale.
I conservatori giapponesi favorevoli alla visita a Yasukuni a volte inveiscono contro i numerosi difetti dei processi; altri conservatori affermano di voler semplicemente onorare i sacrifici di coloro che sono morti per il Giappone. La visita di Abe al santuario nel 2013 ha indignato molti giapponesi, sudcoreani, cinesi e americani che vedono in questo luogo un’imitazione e persino una celebrazione delle atrocità della guerra giapponese.
Inoltre, Abe ha scatenato la costernazione dichiarando che il suo governo intendeva rivedere la storica dichiarazione di Kono sulle “donne di conforto” del periodo bellico. Questa dichiarazione del 1993 riconosceva ufficialmente il coinvolgimento del governo giapponese nel programma in cui molte donne e ragazze asiatiche venivano ingannate e costrette alla schiavitù sessuale per l’esercito imperiale giapponese durante la Seconda guerra mondiale.
La questione è molto divisiva in Giappone. La grande “cupola” dell’LDP comprende non solo conservatori moderati che riconoscono queste atrocità, ma anche negazionisti che liquidano le vittime come prostitute e negano un ruolo coercitivo da parte del governo giapponese. In precedenza, Abe sembrava schierarsi con questi ultimi.
Per molti osservatori all’interno e all’esterno del Giappone, una politica di espansione del militarismo giapponese e di relativizzazione delle atrocità della guerra era una combinazione troppo tossica. È stata particolarmente controproducente nelle relazioni con la Corea del Sud, un ex partner di sicurezza il cui popolo ricorda le circa 200.000 donne coreane vittime del programma e continua a spingere Tokyo per un maggiore riconoscimento.
Osservando il contraccolpo interno, regionale e globale e dando priorità ai suoi obiettivi di politica estera, Abe ha cambiato direzione. Ha abbandonato la contestazione della dichiarazione di Kono e ha presentato altre scuse ufficiali. Ha cercato di risolvere la questione delle donne di conforto con la leader sudcoreana Park Geun-hye, rilasciando altre scuse ufficiali.
L’occasione del 70° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, nel 2015, ha fornito ad Abe una piattaforma importante per inquadrare il passato del Giappone. In un discorso del 15 agosto, Abe ha tranquillizzato i liberali e gli osservatori regionali includendo un linguaggio considerato essenziale per riconoscere le malefatte del passato del Giappone.
Tuttavia, Abe ha fatto un cenno ai conservatori, dicendo: “Non dobbiamo permettere che i nostri figli, nipoti e le generazioni future, che non hanno nulla a che fare con la guerra, siano predestinati a chiedere scusa”.
Questo sentimento evoca le dichiarazioni dei conservatori della Germania Occidentale del dopoguerra, che chiedevano di “tracciare una linea di demarcazione con il passato” e di “non auto-flaggellarsi in eterno”. Sebbene deplorate dai liberali, tali opinioni rappresentano un conservatorismo molto più moderato rispetto all’evasione o alla negazione. Con questa moderazione, Abe ha aumentato il sostegno alla sua visione della sicurezza.
Dopo Abe
Abe ha effettivamente trasformato la politica di sicurezza giapponese e, ad ogni nuova iniziativa di sicurezza da lui promossa, i media si sono affannati a proclamare un Giappone più “muscolare” (o, purtroppo, più “militarista”).
Ma per essere un Paese ricco e tecnologicamente avanzato, con una superpotenza ostile che sta puntando pezzi del suo territorio, il Giappone rimane sorprendentemente contenuto in termini di spesa per la difesa e di dottrina militare. Il Paese ha ancora una grande distanza da percorrere prima che la visione di Abe possa essere pienamente realizzata – e c’è da chiedersi se il Giappone ci arriverà mai.
In effetti, i costi di uno sforzo di bilanciamento contro la Cina sarebbero profondi. Il Giappone aumenterebbe la spesa per la difesa in un momento in cui deve affrontare non solo un enorme fardello di debito, ma anche una sorte economica sfavorevole a lungo termine a causa del declino demografico.
Come è stato evidente sotto la leadership di Abe, mobilitarsi per una competizione di sicurezza con la Cina richiederebbe anche di sfidare le norme e le istituzioni pacifiste apprezzate da molti cittadini e politici giapponesi. È un modo infausto di iniziare una competizione per la sicurezza: appesantiti dal debito, trascinando con sé una popolazione riluttante e mettendo a dura prova le capacità nazionali.
Abe è stato uno dei pochi leader giapponesi con la statura intellettuale e l’acume politico per guidare il suo Paese attraverso questo dibattito. Anche se ci sono certamente altri leader di talento che possono incaricarsi di farlo nuovamente, senza Abe il compito è più difficile.
L’opinione pubblica e molti politici giapponesi continuano a preoccuparsi dei problemi interni e a sperare nel meglio in un’Asia sempre più dominata dalla Cina. Il popolo giapponese potrebbe decidere che preferisce stare in disparte.
La maggior parte delle notizie sulla morte e sulla vita di Abe lo descrivono come una figura “polarizzante”, come in effetti era. I giornalisti hanno deplorato il rapporto del suo governo con i media, che è passato dallo spin alla censura.
Il governo di Abe è stato offuscato da scandali che hanno riguardato la violazione delle leggi sulle elezioni e sul finanziamento delle campagne elettorali e la concessione di favori politici agli amici. I critici hanno criticato il suo nazionalismo conservatore, anche dopo averne mitigato gli eccessi più inquietanti.
All’interno e all’esterno del Giappone, i liberali volevano che Abe affrontasse e facesse ammenda per gli aspetti più oscuri del passato del Giappone, e molti volevano che preservasse la moderazione militare di cui il Giappone gode da tempo.
I conservatori giapponesi, invece, hanno applaudito l’orgoglio nazionale di Abe e il suo sforzo per aumentare le capacità militari e la partecipazione del Paese. Ma tutte le parti riconoscono un leader visionario e una tragica perdita per il Giappone.
Fonte
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