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31/07/2020

Oltre il Giardino (1979) di Hal Ashby - Minirece


Israele e lo spettro di Hezbollah

Un misterioso scontro tra Israele e Hezbollah al confine meridionale libanese ha mostrato in questi giorni quanti e di quale gravità siano gli scenari caldi in Medio Oriente che minacciano di fare esplodere una conflagrazione generale in qualsiasi momento. Lo scontro, finora più verbale che materiale, ha anche fatto luce sulla delicata situazione del governo di coalizione di Tel Aviv, costretto a fare i conti con la seconda ondata del Coronavirus e dibattuto tra le velleità di contenere il cosiddetto “asse della Resistenza” sciita e i timori di innescare una guerra di cui a pagare il conto più salato potrebbe essere forse lo stesso stato ebraico.

Il tutto era nato a causa dell’ennesima incursione aerea illegale israeliana in Siria. Settimana scorsa, un raid di questo genere aveva provocato la morte di un membro di Hezbollah, Ali Kamel Mohsen, colpito mentre si trovava in un edificio nei pressi dell’aeroporto di Damasco, secondo Israele utilizzato dalle forze iraniane presenti in territorio siriano.

Tramite intermediari e in modo da evitare ritorsioni, Tel Aviv aveva subito recapitato un messaggio a Hezbollah per assicurare che Mohsen non era un bersaglio dell’operazione e che è stato perciò ucciso per errore. Israele, grazie alla copertura americana, intende d’altra parte muoversi liberamente in Medio Oriente per colpire i propri rivali, ma teme seriamente la possibile risposta di questi ultimi e soprattutto di Hezbollah.

Gli affanni politici sul fronte interno di Israele e la gravissima crisi economica che sta attraversando il Libano sembrano comunque tenere lontana per il momento l’ipotesi di un conflitto aperto. La tensione resta però altissima e il confine tra le provocazioni e un confronto armato di vasta scala continua a essere molto sottile.

Per quanto riguarda Hezbollah, da tempo i suoi leader si sono impegnati a rispondere con pari intensità agli attacchi di Israele che provocano morti tra le fila del partito-milizia sciita. Il segretario generale del “Partito di Dio”, Hassan Nasrallah, ha infatti ribadito questa posizione dopo i fatti di settimana scorsa in Siria, promettendo di colpire Israele al momento opportuno. La possibilità concreta di una vendetta imminente di Hezbollah ha messo chiaramente in allarme il governo e le forze armate dello stato ebraico, come ha dimostrato il rafforzamento militare deciso negli ultimi giorni al confine settentrionale con il Libano.

Una situazione così tesa ha contribuito a creare un incidente nella giornata di lunedì, con ogni probabilità ingigantito dal governo Netanyahu per cercare di evitare la reazione di Hezbollah o, quanto meno, per trarne un qualche vantaggio politico. I vertici militari israeliani hanno cioè denunciato l’infiltrazione di un gruppo di militanti di Hezbollah nel proprio territorio in prossimità di un’area occupata da Israele nel 1967 e conosciuta come “Sheeba Farms” in Libano e Har Dov in Israele.

Sempre secondo Tel Aviv sarebbe poi seguito uno scontro a fuoco, caratterizzato da alcuni media occidentali come il più intenso degli ultimi dodici mesi. Le autorità israeliane hanno anche ordinato agli abitanti della zona di rimanere nelle proprie case, prima di riaprire strade e attività poco più di un’ora dopo. Alla fine, i pochi uomini di Hezbollah sarebbero tornati oltre il confine libanese, apparentemente senza essere colpiti dal fuoco israeliano.

Alcune ore più tardi, i vertici di Hezbollah hanno smentito la ricostruzione di Israele. Nessuno dei militanti sciiti sarebbe stato inviato oltre il confine meridionale. Nasrallah ha tuttavia avvertito che la vendetta per l’uccisione di Mohsen arriverà “senza alcun dubbio”. A dubitare della versione offerta dal governo e i militari israeliani sono stati anche gli stessi giornali dello stato ebraico. In molti hanno chiesto la pubblicazione delle immagini dell’accaduto che le stesse autorità hanno affermato di possedere.

L’ipotesi più probabile, almeno secondo Hezbollah, è che l’episodio non abbia avuto luogo e che Netanyahu, in un clima di “ansia e apprensione”, abbia cercato di dare un’immagine di forza con un successo militare “creato a tavolino”. Il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha anche sostenuto che le manovre di Israele hanno come obiettivo il cambiamento delle modalità di impiego della missione ONU nel sud del suo paese (UNIFIL). La presenza militare internazionale dovrà essere rinnovata il 31 agosto prossimo e Tel Aviv non nasconde il desiderio di attribuire ai soldati ONU la facoltà di controllare e limitare il movimento di armi destinate a Hezbollah.

Il tentativo di fabbricare un’apparente vittoria contro Hezbollah da parte di Israele è tutt’altro che improbabile, soprattutto se si considera che il governo di Tel Aviv ha assoluto bisogno di recuperare credibilità. Da settimane vanno in scena proteste popolari contro Netanyahu e la sua gestione dell’emergenza Coronavirus. Inoltre, l’economia è in caduta libera a causa dell’epidemia e, come se non bastasse, la coalizione di governo tra il Likud e il partito centrista “Blu e Bianco” del ministro della Difesa, Benny Gantz, appare traballante. Netanyahu è inoltre coinvolto in un clamoroso processo giudiziario per corruzione e abuso d’ufficio, mentre la promessa non ancora mantenuta di annettere parte della Cisgiordania si sta trasformando in una grana politica di difficilissima soluzione.

Anche il tentativo di proiettare difficoltà e tensioni verso l’esterno, prendendo di mira i nemici tradizionali come Iran o Hezbollah, rischia di diventare un boomerang. Gli equilibri militari tra le forze armate israeliane e quelle di Hezbollah non sono più così favorevoli a Tel Aviv e il precipitare della situazione potrebbe aggiungere un nuovo elemento di crisi – forse letale – per il gabinetto Netanyahu.

Ciò che resta a Israele è insistere nel proporre una retorica aggressiva ma sostanzialmente vuota. Netanyahu intende in altre parole fare la voce grossa ma con armi spuntate, visto che nessuno in Israele desidera in questo momento una guerra con Hezbollah. Così, mentre Gantz minacciava reazioni pesanti contro “qualsiasi atto di terrorismo”, ha spiegato mercoledì il Jerusalem Post, Israele faceva sapere al governo libanese che Tel Aviv “non vuole un’ulteriore escalation dello scontro con Hezbollah”.

Fonte

Giannuli - Magistratura e corpi di polizia


Le crudeli favolacce dei D’Innocenzo e la stucchevole bellezza di Sorrentino

Un altro contributo, questa volta per la discussione critica del Cinema. Morvillo è sempre interessante da leggere anche se, come in questo caso, a volte calca eccessivamente la mano.

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I poli opposti del cinema italiano.

Il fatto

Qualche giorno fa, la piattaforma Sky ha trasmesso, in anteprima, l’intensa opera seconda dei gemelli D’Innocenzo (Fabio e Damiano), giovani e promettenti registi romani, nativi di quella Tor Bella Monaca che costituisce una delle punte estreme della complessa periferia capitolina.

Il titolo – Favolacce – di quest’apologo dalle ampie implicazioni sociali, culturali, antropologiche, economiche, storiche e, seppur a margine, necessariamente politiche, sembra succhiare l’essenza stessa della tradizione narrativa propria della fabula.

Un’essenza mai consolatoria, nera, spesso addirittura orrorifica, come ogni fanciullo può intimamente sperimentare nel corso della sua infanzia. Malgrado il cinema e la narrazione, oggi dominanti, tendano a rappresentare la favola come un immancabile, consolatorio, sogno rosa a lieto fine.

Da qui forse – vogliamo alludere con un pizzico di sarcasmo – la necessità del dispregiativo in acce, quale suffisso alle favole che i D’Innocenzo hanno inteso raccontare. Favole feroci, immerse nella lugubre e squallida realtà contemporanea. Favole sporche di sangue e di merda.

La pellicola d’esordio dei due giovanissimi gemelli era stata d’altronde, è bene ricordarlo, l’altrettanto disillusorisae crudele – nel senso che Artaud attribuiva al suo Teatro della crudeltà – La terra dell’abbastanza, del 2018.

Evocazione, per contrasto semantico, di quella Terra dell’abbondanza, firmato nel 2004 da Wim Wenders, e il cui nucleo ideologico era costituito dall’osservazione oggettiva del degrado etico-sociale, in cui versa, da anni, l’impero americano.

Così come in questa wastland – che evoca, per assonanza simbolica, la terra desolata di T.S. Elliot e la crisi irreversibile dell’opulenta società occidentale – viene disegnato e registrato l’abbandono di una periferia romana (ma, se ci si estranea dal dialetto, potrebbe essere Napoli, Milano, Città del Messico o Rio de Janeiro) in cui la vita non lascia scampo ai sogni. Neanche a quelli di una “brillante” carriera criminale.

Solo la rassegnazione, fottutamente realistica, è concessa di fronte ad un misero abbastanza. Ancorché racimolato attraverso l’omicidio o la prostituzione minorile, come fanno i due protagonisti.

Sconfitti da una rinuncia ontologica, imposta alla nascita, quale sovrapprezzo di vite prese a debito. E pagate fino all’estremo sacrificio.

Or bene, andato in onda Favolacce (premiato, ricordiamolo, con l’Orso d’oro per la sceneggiatura, alla Berlinale) che già all’uscita aveva spaccato pubblico e critica – tra chi gridava al miracolo (e noi, considerando il desolante paesaggio del cinema italiano odierno, saremmo propensi ad inscriverci a questa categoria) e chi storceva il muso perplesso – quella spaccatura si è riprodotta, con le inevitabili dinamiche del tifo da stadio, anche sui social. Principalmente su Facebook.

Con l’aggravante che, com’è noto, il social consente agli utenti di lanciarsi in non sempre avvedute analisi estetico/filosofiche; cui vanno a sommarsi paragoni e distinguo con altri registi e pellicole. Tra cui, l’immancabile Premio Oscar, Paolo Sorrentino e la sua Grande Bellezza.

Pietre di paragone inaggirabili, a quanto pare, e quanto mai ingombranti, dunque, poste al collo del cinema italiano di questi ultimi anni.

Le considerazioni

E allora, una riflessione, a questo punto, è d’obbligo. Non me ne vogliano gli amici estimatori del premio Oscar, con cui immancabilmente si duetta di persona o sui social.

Una riflessione in forma di domande retoriche quanto si vuole, ma decisamente sconfortata e pessimistica.

Davvero, dunque, siamo ridotti così male? Siamo davvero così omologati nel gusto e nell’appiattimento del pensiero critico? Davvero siamo così soggiacenti all’estetica postmodernista e neoliberale, alla filosofia economica dominante (mercato e profitto) i cui precetti ideologici sottendono le logiche produttive dell’arte e della cultura, da non riuscire a percepire l’abisso di senso, poetico, stilistico, estetico, filosofico e contenutistico che separa il cinema di un Sorrentino da quello dei gemelli di Tor Bella Monaca, Damiano e Fabio D’Innocenzo?

Davvero si può ritenere – solo in virtù dell’Oscar, le cui reali motivazioni ben si dovrebbero conoscere oramai – il monotono, velleitario ed esangue La Grande Bellezza, un film capace di raccontare e di porre, sotto la lente imparziale della critica, i costumi e le decadenti forme del pensiero italico – sempre più debole e relativista in senso storico, materialistico, politico ed etico – mentre si resta scettici dinanzi alla voragine di contraddizioni, all’annichilimento morale, alla disperante presa di coscienza, sociale e storica, che un film disincantato come Favolacce dovrebbe riuscire a scavare e a destare nelle nostre pur narcotizzate intelligenze?

Siamo così addormentati nella nostra capacità di elaborazione critica della realtà e dunque dell’arte?

E mi riferisco soprattutto alla “compagneria”, buona parte della quale sembra non apprezzare le opere dei due registi romani, mentre plaude senza remore a quelle del partenopeo.

Certo, il gusto è insindacabile. Ma qui siamo al cospetto di una vera e propria mutazione genetica del senso estetico e del pensiero.

Non si spiega, insomma, come si sia potuti passare dal cinema dei grandi temi e dei contenuti importanti, caratterizzato, per larga parte, da un’autenticità d’ispirazione che ne lasciava trasparire l’adesione imprescindibile ai tempi e ai contesti storico-politici (il cinema dei Bertolucci, Petri, Olmi, Rossellini, Lizzani, Visconti, Zurlini, Scola, Fellini, Germi, Pasolini, Caligari, Montaldo, Monicelli, Ferreri, Pontecorvo, Maselli, De Sica, con le loro pur abissali differenze di genere e di stile) a quello convenzionale, estetizzante e francamente di superficie di Sorrentino e dei suoi epigoni. Quando non di peggio ci è dato da assistere.

Chiariamo. Che il regista napoletano sappia usare la Macchina da Presa, sia dotato di intuizioni geniali e abbia cognizione tecnica, anche raffinata, di come si gira un film, questo non può certamente essere smentito. Il problema sono il come e il perché. Dunque, la formalizzazione e la motivazione che sottendono il suo cinema.

Pervaso, a mio modesto avviso, da una concezione rassicurante dell‘arte e da quello che Kant chiamava sensus communis aestheticus. Ovverosia, una sorta di estetica del senso comune, universale e condivisa. Sorta di concezione trascendente del Bello e dell’Arte, intesi l’uno quale oggetto di piacere disinteressato e senza scopo; l’altra come pura azione contemplativa dell’intelletto, che nulla ha a che fare con l’idea di Verità. Come invece accadeva in Hegel e come è necessario ad un’espressione artistica che voglia definirsi marxista e materialista.

Quanto qui si vuol dire, in poche parole, è che l’esperienza estetica, esonerata dal compito della conoscenza e dal cogliere il conflitto tragico che scorre sotto il fiume della realtà, sia essa sociale o personale, si traduce in un intellettualistico esercizio di stile imitativo.

Dunque, privo di quella prospettiva critica che sola consente all’arte e alla cultura di porsi – com’è avvenuto nel corso del '900 – il compito di analizzare e, per quanto possibile, trasformare la realtà. Di farsi strumento per un’esperienza intellettuale attiva e per un sapere rivoluzionario.

Il cinema di Sorrentino risulta, pertanto, sulla base di tali premesse teoriche, spesso ridondante e artificioso. Manieristico e autocompiaciuto. Benché si tratti di un manierismo e di un accademismo comune a molti registi, autori, scrittori, artisti e intellettuali contemporanei.

Un cinema dove i grandi temi sociali, politici, storici, esistenziali diventano il pretesto soggettivo, deprivato di qualsivoglia sguardo oggettivo, distanziato e critico, per una messinscena che vada a gratificare il solo onanismo intellettualistico dell’autore.

La Grande bellezza è l’apoteosi di quell’architettura formale e linguistica, di matrice postmoderna, qui confinata al mero piacere semiotico dell’immagine. Un postmodernismo svuotato di pregnanza semantica, noiosamente autoreferenziale e fine a sé stesso, che con Sorrentino ha smarrito definitivamente il senso anticonvenzionale e di frattura espressiva che aveva assunto alle origini.

La critica di costume e quella morale, di cui si pretenderebbe essere informata la pellicola, e che si vorrebbe rivolta soprattutto a quella sinistra radical-chic, tronfia e intellettualmente arrogante, che ha depauperato l’originario patrimonio di cultura operaia che pure si era sedimentato in questo reazionario paese, si depotenzia e si trasforma, nelle sue cadenze di banale commediola agrodolce – con indosso un sofisticato abito da cerimonia degli Oscar, tutto in tiro hollywoodiano – in un riflesso indulgente, che permette allo spettatore che si riconosca in quello specchio sociale, di sorridere compiaciuto della sua, solo presunta, decadenza.

E come potrebbe essere altrimenti, ci chiediamo noi, considerando che Sorrentino è uno dei più autorevoli esponenti proprio di quella genia di intellettuali di sinistra, che hanno letteralmente smantellato il pensiero critico di questo paese?

Un lento decesso culturale, consumatosi attraverso un conformismo estetico ed ideologico, che è la conseguenza ineludibile dell’aver abbracciato il mito del successo al botteghino e, dunque, del Mercato!

Per riprendere il filo del discorso, comunque, nel film in parola, la sintesi di quella indulgenza ammiccante, ricercata, voluta e ammantata di supposta fustigazione etica si evidenzia nella scena del terrazzo. Imbarazzante per come riesca a scadere nel luogo comune tipico dell’invettiva da salotto televisivo.

Quei cosiddetti salotti buoni, frequentati dalla crème della borghesia economica e dall’élite intellettuale, immancabilmente “di sinistra”. Fazioni litigiose solo in apparenza, ma assolutamente in sintonia nella loro superba postura di classe.

Scena in cui straripa un intollerabile Servillo – oramai clone a tutto tondo di Jep Gambardella – gigionesco bacchettatore dei suoi strettissimi sodali, senza che si evidenzi alcuna reale coscienza del disastro storico, politico ed esistenziale, causa ed effetto determinati da quella borghesia di sinistra, che ha trascinato con sé anche buona parte dei destini politico-culturali del Belpaese. Scena che assume i toni, forse involontari, di un‘annoiata e sguaiata punzecchiatura cameratesca.

Insomma, un film borghese nel senso più retrivo. Intriso di presunzione intellettuale e di autocompiacimento estetico. Nel convincimento, maledettamente erroneo, che ogni immagine debba rappresentare un’epifania poetica. Ai limiti dell’esperienza esoterica.

Qui il grottesco e il surreale/espressionistico si tramutano, invece, allo sguardo attento, in commedia leggera (a tratti anche insulsa) ed in insensatezza calligrafica e tautologica.

Il montaggio e i proverbiali stacchi contribuiscono, ovviamente, a quest’effetto di facile fascinazione straniante, in un’ottica autoriale che però, per l’appunto, non sa andare oltre la suggestione di maniera. Laddove c’era la pretesa di dipingere un grande affresco sull’Italia di oggi.

Il tutto condito da un citazionismo (Fellini in primis) che denuncia la presunzione di un autore essenzialmente piccolo-borghese.

In questo senso, Youth costituisce la summa del manierismo citazionista di Sorrentino.

I poli opposti

Rigorosamente agli antipodi si colloca il cinema dei gemelli D’Innocenzo. Un cinema che trasuda verità e coscienza critica e di classe ad ogni fotogramma.

Un cinema che non fa sconti, capace di aggredire l’intelligenza e la sensibilità dello spettatore senza alcun riguardo, per destarle dal torpore che le culla e le immiserisce.

I due registi romani non contemplano la sordida realtà odierna. Non l’accarezzano, neanche contropelo. Ne sentono il puzzo della merda, l’annusano e la calpestano, senza timore di sporcarsi o di guastare il loro olfatto.

Conoscono ciò di cui parlano e ce lo descrivono senza troppo preoccuparsi di farci male. Lacerano e strappano pezzi di carne e di anima.

Non c’è bellezza, nei loro film. Almeno non quella convenzionale o rassicurante, idiota e patinata che tanto cinema, arte e letteratura confezionano e allestiscono ogni giorno, per commensali dal gusto guastato dal junk food, quello offerto nei supermarket della cultura.

Le loro immagini ed il loro linguaggio racchiudono la scarnificata avvenenza della poesia di Bukowski. I loro personaggi sembrano condensare intimamente la potenza allucinatoria e terrificante delle maschere umane dipinte da Bacon.

Il loro paesaggio urbano e periferico è il cuore di tenebra che pulsa sotto l’epidermide delle metropoli contemporanee. L’incubo che atterrisce la borghesia benpensante, che sceglie di distogliere lo sguardo.

Nel loro cinema si addensa il tremore balbettante della nostra fragile umanità, difronte all’horror vacui che siamo stati capaci di edificare con le nostre stesse mani.

Favolacce si dischiude ad un’analisi feroce del presente. Fa a brandelli l’omologazione culturale, imposta da quel dominio neoliberista il cui orizzonte di senso possono essere solo i soldi, le villette a schiera, Ibiza e una sessualità viscida, da immaginario pornografico, tramata di violenza e di sopraffazione.

Dalla pellicola dei D’Innocenzo è espulso qualunque piacere ludico della sessualità. È contemplato solo il godimento mortifero di un desiderio inappagabile e vorace di possesso.

Favolacce è un film che ci mette al cospetto di un agghiacciante deserto morale, attraversato da ombre di umanità senza nome. Senza futuro e finanche senza passato. Sospese su un tornante della Storia che assomiglia ad un precipizio che scivola frenetico verso il baratro.

Nuclei incandescenti di frustrazione che divorano i corpi dal di dentro.

I D’Innocenzo risentono della lezione di un grande maestro come Caligari e ne sanno cogliere l’essenza stilistica e concettuale; ma si aprono decisamente ad una dimensione di più ampio respiro.

Con universi concentrazionari periferici e microcosmi umani marginali che, sebbene partano da contesti di classe ben precisi – sottoproletariato e piccola-borghesia – s’immergono in una profondità psicologica e storica capace di descrivere tutta la solitudine e lo squallore della nostra asfissiante, fagocitante, spietata contemporaneità globalizzata.

Quella contemporaneità in cui l’omogeneizzazione dei desideri, frullati dagli stritolanti vortici del Capitale e del tempo veloce, viene spalmata sull’eterno presente della produzione e della merce.

Consumo indifferibile di esistenze, di corpi, di emozioni, ridotti al nulla reificato.

I D’Innocenzo mettono in scena un angoscioso, incomunicabile, oceano di emotività sterilizzate che deflagrano nella disperazione di un futuro paralizzato. In una rabbiosa, concitata bulimia di vita. Da vomitare al primo angolo di strada.

Il segno indelebile di questo sfacelo s’imprime sulla pelle di un’infanzia e di un’adolescenza violate dalla superficiale, disumana crudeltà degli adulti. Infanzia abbandonata in foreste di cemento dietro i cui muri si muovono fantasmi che tolgono il fiato e cancellano l’innocenza.

Figli che assumono su di sé il peso dell’inconsistente fragilità di adulti irresponsabili e chiusi nella propria meschina dimensione egoistica.

Adulti le cui esistenze sono ridotte a bocconi di vita, masticati con ansia dietro lo schermo degli smartphone.

Pezzi di un pasto nudo tossico, il cui veleno è pompato in vena dalla stessa brutale insensatezza della vita.

Frammenti di un discorso amoroso spezzato dal terrore dell’altro, ridotto più neanche ad oggetto ma ad una semplice virtualità social, dalla quale trarre, eventualmente, un surrogato di piacere effimero. O su cui sputare la propria rabbia amara. Solipsismo che non si concede alla tenerezza ma solo al sopruso del proprio desiderio.

Un tunnel disperato di piccoli orrori quotidiani, insomma, del quale i bambini, vittime designate ma non certo inconsapevoli, non vedono la luce se non quella rifratta della propria morte.

I due registi di Tor Bella Monaca si pongono di fronte alla realtà e all’oggetto filmico che ne delinea i contorni e ne rivela l’implicita spietatezza, con lo sguardo freddo degli entomologi. Capaci di vivisezionare emozioni e crudeltà. Disperazioni e passeggeri barlumi di dolcezza.

Per questo non abbiamo dubbi nell’affermare che i D’Innocenzo si possono definire, secondo il nostro modestissimo parere, almeno per quanto abbiamo visto in queste due prime opere, i Dardenne italiani, con spuzzate di Haneke e Lanthimos.

Ci auguriamo che continuino a viaggiare in questa direzione ostinata e contraria. Perché è questo il cinema che vogliamo vedere. È questo il cinema che ci piace.

I Premi Oscar li lasciamo ai salotti buoni. Quelli frequentati dall’intellighenzia “di sinistra”!

Fonte

Roma: crocevia tra Washington, Mosca e Pechino

Si propone il seguente testo come contributo al dibattito sulla crisi sistemica in corso.

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di Maurizio Vezzosi

Le rotte che lo attraversano e le faglie di instabilità che lo circondano fanno del Mediterraneo uno tra gli spazi marittimi più importanti del pianeta. Le profonde trasformazioni degli equilibri globali stanno segnando il lento declino di vecchie egemonie – o almeno, il loro ridimensionamento – e l'affermazione di nuove. La pandemia del Covid-19 ha scatenato un'accelerazione iperbolica di queste tendenze, rinnovando la centralità internazionale del Mediterraneo, e della penisola che vi si protende.

Per dare la misura dell'importanza internazionale dell'Italia basterebbe tenere a mente il fatto che nessuno tra i principali attori internazionali può permettersi di trascurarne il ruolo, o almeno di rinunciare ad esercitarvi una qualche forma d'influenza (culturale, economica, militare). Un'importanza rispetto alla quale la classe dirigente italiana si è dimostrata non di rado indifferente.

A pesare sull'Italia, è la mancanza di una visione d'insieme che sappia interpretare l'identità, il ruolo e l'assetto del paese nell'attuale configurazione internazionale e che sappia dimostrarsi adeguata per profondità di riflessione, realismo e lungimiranza. In linea generale, le maggiori potenze occidentali non vedono con interesse un possibile rafforzamento del nostro paese, della sua solidità e della sua indipendenza confidando piuttosto nel fatto che l'Italia mantenga un certo grado di debolezza e vulnerabilità: questa geometria può certamente assumere delle specifiche momentanee e peculiari, ma conserva, tuttavia, una validità tendenziale.

Al contrario, sia la Federazione Russa (Figura 1) sia la Cina (Figura 2) – così come molti altri paesi-chiave dell'attuale scenario globale – hanno tra le corde dei propri interessi quello che l'Italia si irrobustisca e massimizzi il proprio livello di indipendenza, acquisendo contestualmente un maggiore grado di influenza internazionale. Una differenza di approccio rintracciabile sia in questioni estremamente materiali sia nelle peculiarità culturali di Mosca (Figura 3) e Pechino, entrambe annoverabili come potenze mediterranee de facto. Quel che è certo, malgrado i toni di certa stampa, è che né da parte di Mosca né da parte di Pechino ci sia l'interesse a destabilizzare l'Italia: ripetere il contrario non cambierà in alcun modo la realtà del nostro paese e dei suoi problemi. Potrà al massimo continuare a tenerlo lontano dalle possibili soluzioni di questi ultimi.

Il caos politico e sociale da mesi domina gli Stati Uniti mentre l'egemonia internazionale di Washington tende ad assottigliarsi: il verosimile ridimensionamento della propria potenza economica costringerà Washington ad effettuare tagli significativi alla permanente – ed onerosa – presenza militare fuori dal proprio territorio.

Questo spiega solo in parte l'intenzione, ufficializzata alcune settimane fa, di ridurre di circa un terzo il proprio organico militare presente in Germania: secondo il Pentagono i circa 12.000 militari che lasceranno la Germania verranno ricollocati tra Italia, Belgio e Polonia, e in parte rimpatriati negli Stati Uniti. Non è possibile attribuire un significato univoco alla scelta dei vertici statunitensi: che si tratti di una decisione mossa da ragioni prevalentemente economiche, o da ragioni prevalentemente geopolitiche – ad esempio, l'intento di creare difficoltà alla Germania – quel che risulta evidente è il minimo storico delle relazioni tedesco-statunitensi degli ultimi 75 anni.

Gli Stati Uniti continuano ad essere ossessionati dalle idee descritte da Halford Mackinder: lo scenario che sembra inquietare Washington si configura infatti come la progressiva integrazione economica e politica dello spazio continentale che si estende da Lisbona a Shangai. Gli Stati Uniti potrebbero dimostrarsi disposti a tutto pur di scongiurare uno scenario di questo genere, eventualmente rinnovando il principio della “destabilizzazione permanente” come pilastro della propria strategia di contenimento, volta a rallentare l'affermazione di nuove egemonie.

I contrasti con la Germania – ma anche con la Francia– potrebbero convincere Washington a sostenere l'uscita dell'Italia dall'Unione Europea, o almeno ad agitarne lo spauracchio: a dar sostegno a questo scenario, sono i contenuti del Memorandum di sostegno all'Italia firmato da Donald Trump durante la scorsa difficile primavera, oltre a numerose dichiarazioni dei vertici statunitensi (come quelle del Segretario di Stato Mike Pompeo). Il Memorandum, oltre a mobilitare il Tesoro statunitense per sostenere l'economia italiana, ricorda la presenza permanente sul territorio italiano di migliaia di militari statunitensi, 30mila secondo quanto riportato dal testo.

La rivolta esplosa a Minneapolis dopo l'uccisione di George Floyd e diffusasi a macchia d'olio negli Stati Uniti ha palesato fratture profonde: in seno alla società, alla politica e all'apparato di potere degli Stati Uniti. Quello stesso apparato contro cui Donald Trump ha combattuto sin dall'inizio del suo mandato potrebbe dunque aver deciso di presentare all'attuale presidente il conto del proprio operato a pochi mesi dalle elezioni previste in autunno, ostacolandone l'azione con ogni mezzo.

Come ha confermato l'Università di Baltimora, gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo sia per numero di contagi accertati – prossimo ai due milioni – sia per numero di morti – oltre 100mila – relativi al Covid-19: anche per questa ragione lo scenario autunnale si profila quanto mai incerto. Come per molti paesi – incluso il nostro – un'eventuale seconda ondata pandemica potrebbe provocare danni ingentissimi sotto il profilo sanitario, economico e sociale.

L'esasperarsi dei contrasti tra repubblicani e democratici e delle lotte intestine in seno all'apparato hanno portato all'adozione di provvedimenti di cui non si ricordano precedenti nella storia recente, come il coprifuoco a New York. Ad essere in atto è dunque l'esacerbarsi delle tendenze già presenti in seno alla società statunitense: uno scenario che fa apparire profetico il titolo del documento strategico sulle operazioni urbane – “Urban Operations 2020” – pubblicato dalla Nato nell'ormai lontano 2003. Il controllo della presidenza sul paese vacilla: prima della pandemia, e della rivolta tutt'ora in corso, lo aveva dimostrato anche la schizofrenia che negli ultimi tempi ha caratterizzato la politica internazionale statunitense.

La proposta avanzata a Vladimir Putin da Donald Trump di trasformare il G7 in G11, includendo in questo formato l'Australia, l'India, la Corea del Sud insieme alla Federazione Russa palesa la velleità di isolare Pechino, e di intaccare il suo legame strategico con Mosca.

Una mossa, quella di Donald Trump, che sembra fare il verso alla politica di Richard Nixon, che in chiave antisovietica scommise sulla Cina maoista. All'offerta formulata da Donald Trump – recentemente sconfessato persino da George Bush Jr. e da Collin Powell – Mosca ha reagito senza nascondere le proprie perplessità: del resto, ben poco vale per la Federazione Russa l'offerta arrivata da Washington, specie se messa a a confronto con il valore strategico del rapporto con la Cina.

Mentre l'Unione Europea appare quanto mai debole, palesando invece, in ogni passaggio fondamentale la propria sostanziale disomogeneità (Eurobond, MES, fondo di salvataggio) l'Italia si trova a fronteggiare problemi critici su vari fronti. In primo luogo sul fronte meridionale – quella che fu la Quarta Sponda – dove l'Italia continua a fare i conti con la propria peggiore sconfitta consumatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fin troppo evidente è come una Libia instabile renda vulnerabile ed instabile l'Europa, soprattutto meridionale. L'azione turca (Figura 4) si sta profilando come uno dei maggiori elementi di instabilità del Mediterraneo (Figura 5) e del Vicino Oriente. Nessuna delle mosse turche – se si esclude la vicenda S-400 – sembra mancare dell'avallo – tacito o esplicito – di Washington. Del resto, una Turchia esuberante viene vista oltreoceano come uno strumento utile in chiave antirussa, anticinese – in Asia Centrale – antiiraniana, ma sopratutto, antieuropea. Al contempo, il rinnovato interesse degli Stati Uniti per la Grecia, pone i presupposti necessari a prevenire e ridimensionare eventuali esuberanze turche non gradite da Washington.

Ogni mossa rilevante degli Stati Uniti che interessi lo spazio geopolitico compreso tra lo stretto di Gibilterra e il Mar Cinese Meridionale sembra volta a produrre un effetto destabilizzante. Nessuna di queste mosse sembra infatti volta a risolvere problemi particolari: tutte sembrano invece concepire la destabilizzazione come fattore di contenimento da contrapporre alle egemonie emergenti con cui gli Stati Uniti si trovano a dover fare i conti.

Il rischio che la guerra globale combattuta a pezzi presto o tardi travolga anche la vecchia Europa non è zero: in uno scenario di questo tipo per l'Italia è quanto mai importante compiere ogni sforzo possibile per tendere alla neutralità, riscoprendo la bussola dell'interesse nazionale e la propria natura di “paese cerniera” per gli equilibri internazionali.

La frantumazione sociale – anzitutto identitaria – che sta dilaniando gli Stati Uniti offre all'Italia una lezione importante. Un paese che non coltiva la propria identità è un paese destinato alla disgregazione e al declino: non esiste, nei fatti, alcuna politica di prospettiva senza una visione del paese e della comunità su cui questo si regge.

L'Italia deve riscoprirsi nazione, e riscoprire il significato democratico e progressista di quest'ultima, per gli affari interni così come per quelli internazionali: solo su questi presupposti sarà possibile costruire il nuovo Risorgimento di cui il paese ha bisogno.

Fonte

L’esercito turco massacra civili a Manbij, nel nord della Siria

Altri sei civili curdi uccisi nell’attacco transfrontaliero turco in Siria settentrionale

Comunicato della Commissione Affari Esteri HDP (30 luglio 2020)

In una precedente dichiarazione del 29 giugno 2020, avevamo attirato l’attenzione sulle vittime civili curde causate dagli attacchi aerei turchi nel nord della Siria e nel nord dell’Iraq. Poi abbiamo fornito i dettagli di 11 civili curdi uccisi dagli attacchi dell’esercito turco nelle ultime due settimane di giugno.

Abbiamo anche sottolineato che la Turchia, in quanto membro della NATO, delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa, ha compiuto una serie di attacchi illegali contro i curdi in Iraq e in Siria, in parallelo con la sua campagna repressiva sulla questione curda in patria. Ci sono notizie di altre vittime civili curde, questa volta dalla città di Manbij, nel nord della Siria.

Secondo diversi media curdi, il 28 luglio 2020, gli attacchi aerei turchi hanno preso di mira i villaggi di Qort Wêran e Wîlanlî a nord-ovest di Manbij. La famiglia Diyab è stata colpita: 6 membri della famiglia sono stati uccisi e altri 6 feriti. I nomi di cinque civili uccisi sono i seguenti: Eliya Diyab (60 anni), Fatime Mexlûf (35 anni), Faris Diyab (13 anni), Xifran Diyab (7 anni) e Cemîle Diyab (11 anni). Mehmud Diyab (7 anni) e Ehmed Diyab (12 anni) sono stati gravemente feriti; entrambi sono stati operati, ma rimangono in condizioni critiche.

Il governo turco continua a uccidere impunemente i civili curdi con il pretesto di “combattere il terrorismo” nelle operazioni transfrontaliere. Sebbene sia membro della NATO e del Consiglio d’Europa con l’obbligo di rispettare il diritto internazionale, la Turchia non si astiene dal compiere attacchi così disumani contro i civili. Una delle ragioni dell’audacia della Turchia nello sfidare il diritto internazionale è il silenzio generalizzato di istituzioni internazionali come la NATO e il Consiglio d’Europa, di cui la Turchia è uno Stato membro.

Ancora una volta, chiediamo alla comunità internazionale, in particolare alla NATO, all’ONU e alle autorità del Consiglio d’Europa, di intervenire immediatamente contro i massacri di civili perpetrati dall’esercito turco e dalle sue varie forze di rappresentanza in Iraq e in Siria.

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Bolivia - Mobilitazione di massa e sciopero a oltranza per esigere le elezioni

Il 28 luglio c’è stata una oceanica marcia nazionale in Bolivia per esigere che si tengano le elezioni del 6 settembre, che sono state posticipate, per la terza volta, al 18 ottobre con la scusa della pandemia, anche se sono numerosi i paesi che in questo contesto hanno svolto le loro elezioni con adeguate misure di bio-sicurezza.

La mobilitazione è stata convocata per le prime ore del mattino nel simbolico luogo di Senkata, La Paz dove il 19 novembre del 2019 c’è stato un massacro, da lì verso la regione della Ceja, dove si è tenuta un’assemblea oceanica.

Questa massiccia mobilitazione è l’inizio di una nuova tappa di lotta nel paese, hanno partecipato tutte le organizzazioni sociali della Bolivia con a capo la Central Obrera Boliviana (C.O.B.) e il Patto di Unità delle organizzazioni indigene e cittadine, a loro si sono unite migliaia di persone a piedi, non facenti parte di un’organizzazione sociale o partito politico che dimostrano il malcontento della società in generale di fronte alle politiche e all’agire antidemocratico del governo di fatto. Inoltre, la mobilitazione è stata replicata in differenti punti del paese.

Nell’assemblea la Centrale operaia boliviana (C.O.B.) condotta da Juan Carlos Huarachi, ha dato un termine di 72 ore al Tribunale Supremo Elettorale (T.S.E.) per ritirare il posticipo delle elezioni e affinché si tengano il 6 di settembre. Qualora questa richiesta non fosse accolta, a partire da lunedì 3 agosto si inizierà uno sciopero generale a tempo indeterminato con blocco nazionale di strade nei 9 dipartimenti della Bolivia.

Il suo discorso di fronte alla folla è consistito nell’esprimere il sentire del popolo: “Il problema nel paese non è il Covid-19, il problema è questo governo incapace che non ha dato attenzione al momento opportuno (...) politicizzano la pandemia e giocano con la salute e la vita delle persone”. D’altra parte, Huarachi ha respinto le accuse del governo che le manifestazioni implicano contagio di Covid-19. Ha precisato che “i responsabili dei contagi che ci sono nel paese sono i governanti che non aver fatto scorte di materiali di bio-sicurezza e respiratori per gli ospedali”.

D’altro canto, Orlando Gutiérrez, segretario esecutivo della Federazione Sindacale dei lavoratori delle miniere, ha sostenuto in un’intervista: “Oggi stanno cominciando a suonare i tamburi di lotta e comincerà a suonar il clarino della vittoria dei movimenti sociali del paese (…) Siamo contro questo governo tiranno (…) questa marcia è un piccolo esempio del fatto che noi lavoratori siamo più uniti che mai contro questi governanti, che sono il peggior errore politico della storia della Bolivia. Il popolo reclamerà i suoi diritti e pertanto il popolo unito non sarà mai vinto”.

In relazione al posticipo delle elezioni da parte del T.S.E., Gutiérrez ha preteso il rispetto delle vie legali: “Esigiamo che rispettino la costituzione politica dello stato, il cammino legale di passare per l’assemblea legislativa che è quella che deve promulgare una legge per modificare un’altra legge, (rispetto alla decisione unilaterale del T.S.E. di posticipare le elezioni) noi siamo per la difesa del sistema democratico del paese”.

La Bolivia è il paese che ha avuto più dittature nella regione, è anche un paese d’avanguardia di resistenza con un’esperienza di lotta di oltre 500 anni con un trionfo storico travolgente nel 2005, che ha inaugurato un processo rivoluzionario inedito a livello mondiale partorito dalle viscere del continente di Abya Yala.

Il popolo boliviano deve riscattare la memoria di lunga data di lotta ancestrale e la memoria di corta data delle lotte per il gas e per l’acqua che hanno consacrato Morales come presidente e che tracceranno il cammino del Paese. Gutiérrez a questo proposito ha ricordato la storia della Bolivia: “Non esiste alcuna dittatura che sia stata contro il popolo che ce l’abbia fatta contro il popolo, la storia ci canterà il movimento di lotta”.

Le richieste del popolo: democrazia, salute, istruzione e lavoro

In difesa della democrazia: La principale richiesta durante l’assemblea è stata l’esigenza che si tengano le elezioni il 6 settembre per eleggere un governo democratico e legittimo al fine di poter affrontare la crisi politica, sociale, economica e sanitaria che attraversa il paese.

Questi successivi posticipi della data elettorale permettono al governo di fatto di perpetrarsi al potere al fine di prendere tempo e dispiegare diverse strategie che gli garantiscano di restare indefinitamente al governo. Tra queste, far passare la proscrizione del M.A.S. o pianificare la grande frode tipo Honduras, fare un auto-golpe militare e se non possono chiudere l’assemblea legislativa come hanno provato in varie opportunità, quello che vogliono è governare solo mediante decreti e utilizzare questa come facciata “democratica” per una dittatura.

Altra alternativa è cercare difficoltà legali per ottenere una nuova convocazione per il processo elettorale, cosa che implicherebbe un tempo indefinito e darebbe tempo alla destra di presentare un’alleanza che unisca tutto il suo arco politico e ottenere migliori condizioni.

L’obiettivo è consolidare un progetto politico neoliberista e uno stato terrorista, poliziesco e militare armi in pugno con repressione, persecuzione politica e giudiziaria (Lawfare), tortura, sequestri, detenzioni illegali di dirigenti, militanti e di chiunque reclami i propri diritti o pensi differentemente. Promette anche alti livelli di violenza stile colombiano con auto attentati, gruppi paramilitari, creazione di gruppi terroristi, falsi positivi, detenzioni selettive di dirigenti, omicidi inclusi, etc., per creare caos nel paese e sospendere le elezioni.

Questo è il panorama che si intravede dagli ultimi fatti nella diga di Misicuni, Kara Kara e il tropico di Cochabamba.

Salute

Una richiesta è che si stabilisca un piano di contingenza contro il Covid-19, che ad oggi non esiste nell’agenda del ministero della salute, quello che c’è è una mera amministrazione dei contagi e dei morti. La situazione è di estrema gravità con corpi per strada, ospedali collassati, mancanza di medicine, di medici, equipe di bio-sicurezza, materiali per la salute, etc.

È sempre più evidente che il governo di fatto ha pianificato un genocidio indigeno lasciando il popolo senza assistenza medica di fronte al Covid-19 per utilizzare la crisi sanitaria al fine di evitare le elezioni. I pazienti supplicano assistenza medica negli ospedali senza riceverla perché sono collassati. La Bolivia a più di quattro mesi dall’inizio della quarentena, il 22 marzo scorso, ancora aspetta i 500 respiratori promessi dai vari ministri della salute che sono passati per il governo di fatto. Non ci sono medicine, la popolazione ha fatto ricorso all’uso di erbe medicinali come il wira wira, l’eucalipto, etc., e la medicina ancestrale.

In questo contesto il livello di sadismo e ignoranza de parte dei golpisti è fenomenale. Murillo, ministro di fatto deride quelli che utilizzano queste alternative: “Questa gente che crede alle favole e crede che il Covid-19 si cura con erbe medicinali, il wira wira e altro, questa gente è stupida”. D’altro canto, la direzione della medicina ancestrale è stata chiusa.

Istruzione

Il settore docente ha preteso le dimissioni di Víctor Cárdenas, ministro dell’istruzione, e l’abrogazione del decreto 4.260 sull’educazione virtuale che favorisce un piano di privatizzazione e esclusione dall’educazione delle comunità indigene rurali, la distruzione della scuola fiscale e rurale. Non c’è una norma che regoli i privati in tutti i livelli educativi dove i costi sono saliti alle stelle.

Economia

Dall’implementazione della quarantena si conoscono tre casi di suicidio per fame. I buoni d’aiuto che sono stati consegnati grazie al la pressione del popolo sono una miseria e non bastano. Sono stati annunciati crediti bancari per imprese con requisiti irraggiungibili. La recessione nel paese ha cominciato a farsi sentire persino nelle famiglie di classe medio alta che hanno appoggiato il golpe, i licenziamenti di massa e i tagli ai salari sono all’ordine del giorno e niente indica che si riattiverà l’economia, anzi che peggiorerà ancora di più.

Il 24 giugno è stato annunciato il decreto 4.272 di riattivazione dell’economia, che non destina alcun ammontare alle imprese statali con lo scopo di farle fallire e successivamente privatizzarle, ponendo a rischio il fondo che garantisce il bonus Juancito Pinto d’incentivo scolastico. D’altra parte, il decreto destinerebbe solo una minima somma alla creazione di impieghi temporanei e non permanenti. Il fantasma della svalutazione e dell’iperinflazione è in agguato, il 22 luglio si è saputo che l’esecutivo vuole flessibilizzare il tipo di cambio con il dollaro che si mantiene inamovibile da novembre del 2011 nel paese, facendo sì che il 92% dei depositi e crediti bancari siano in bolivianos, rafforzando la moneta nazionale.

La dollarizzazione dell’economia boliviana porterebbe al limite la situazione. E intanto il paese s’indebita con prestiti dal F.M.I. a un ritmo senza precedenti e questi soldi spariscono senza arrivare al popolo con politiche sociali o investimenti pubblici, che sono paralizzati. Medesimo destino hanno le numerose donazioni che sono arrivate da parte di differenti paesi e organismi internazionali per la lotta contro il Covid-19.

Bolivia, l’unico paese che attraversa la pandemia con una dittatura


Le immagini dell’oceanica mobilitazione sono incredibili, dato che è difficile da accettare per altri popoli di altri paesi, che in piena pandemia un paese si convochi nella sua totalità e si mobiliti in maniera tanto organizzata, rispettando le norme di bio-sicurezza, mascherine, distanziamento sociale, utilizzo di alcool gel, etc., c’era pure la presenza di personale specifico per far sì che si rispettino queste misure di bio-sicurezza. Qui i contesti e le motivazioni della lotta sono opposti e differenti da quelli delle marce anti quarantena dirette da settori della destra in USA, Argentina, Brasile, etc.

La spiegazione risiede nel fatto che la Bolivia, a differenza degli altri paesi, è l’unico paese che attraversa la pandemia con un colpo di stato che è arrivato al potere con la violenza e un saldo di tre massacri. Questo comporta che il governo, invece di aiutare e proteggere la popolazione, la abbandona alla deriva; lo Stato è assente e/o semplicemente non si interessa alla vita degli propri cittadini, e meno ancora di quelli che considera oppositori, del MAS o indigeni.

E, come se non bastasse, la cosa macabra è che il governo stesso, mediante un piano sistematico, fomenta e manipola i contagi al fine di peggiorare il collasso sanitario per poter continuare a rimandare le elezioni. La prima data delle elezioni era programmata per il 3 maggio, poi è stata spostata al 6 settembre perché Eidy Roca, la ministra della salute sosteneva che si attendeva un picco di 130 mila contagi per quella data.

Appena si è saputa la nuova data elettorale del 18 ottobre, la stessa ministra ha informato che a La Paz, Cochabamba e Chuquisaca il picco arriverà in ottobre. Ogni volta che si stabilisce una data elettorale, simultaneamente si rende pubblica una proiezione di contagi da Covid-19 con picchi che casualmente coincidono con la data elettorale. D’altro canto, l’agenzia boliviana (A.B.I.) e il periodico Bolivia, amministrato dal governo boliviano, ha pubblicato in una nota che la “Bolivia arriverà ai picchi massimi in Settembre, Ottobre e Novembre”.

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Crolla l’economia liberista, l’Occidente è un buco nero


In prima pagina stamane sul Corriere della Sera il crollo nel secondo trimestre dell’economia americana.

Il giornale di via Solferino intervista il noto politologo Ian Bremmer, il quale sostiene che la crisi riguarda tutti, anzi gli Usa hanno più risorse degli altri, e durerà anni.

Stanotte è invece uscito il dato del Pmi manifatturiero cinese, che cresce a luglio dal 50,9 al 51,4. È arrivata l’ora che intellettuali, accademici, uomini di cultura in Occidente, se ce ne sono, si pongano degli interrogativi. Ci sono almeno due modelli economici alternativi, e quello occidentale mostra crepe vistose.

L’assetto liberista degli ultimi 45 anni ormai volge al termine, procrastinarlo, in maniera sempre più feroce per le classi lavoratrici, è inutile e dannoso.

Occorre ripensare al ruolo del pubblico nell’economia, come nel dopoguerra (a proposito, stamane Milano Finanza parla di “scenario da dopoguerra”), occorre assumere milioni di persone nella sanità, nell’istruzione, nei trasporti, occorre una politica di edilizia pubblica recuperando l’immenso patrimonio abitativo lasciato in macerie.

Ma soprattutto, dopo decenni, è necessario ridurre l’orario di lavoro per tutti per redistribuirlo e aumentare i salari. Basta con le politiche piratesche di rubare quote di mercato nei mercati mondiali, tutti si focalizzino sul mercato interno, soprattutto in Europa, vero buco nero dell’economia mondiale.

Dal dopoguerra gli Usa hanno fatto da spugna per i prodotti di tutto il mondo attraverso il beneficio del predominio del dollaro e aumentando enormemente i debiti esteri. Quest’epoca è finita. Gli Usa sono scoppiati.

BMW – per fare un esempio – dovrebbe vendere alla classe media tedesca, rianimandola, cosi come Fiat e altri.

La Cina ha ampliato in questi decenni la fascia di classe medio-bassa, rendendola capace di assorbire buona parte della produzione industriale grazie a un costante e rapido aumento dei salari.

E lo ha fatto con la pianificazione economica, che pure paesi come Francia e Italia avevano assai prima della stessa Cina.

Se gli intellettuali, gli uomini di cultura, gli accademici non pongono queste problematiche, anche in chiave di protezione dell’ambiente, che è tutt’altra cosa del “capitalismo verde” si andrà verso il baratro.

Un amico ieri sera mi diceva: “non vedo come prospettiva che la guerra”.

Se non parlano, la Storia li condannerà.

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Lombardia: quale è la vera posta politica

Continuano le indagini dei magistrati milanesi sulla questione dei camici forniti alla Regione Lombardia dalla Dama spa, di proprietà del cognato del presidente Fontana. L’inchiesta si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi.

La Guarda di Finanza ha sequestrato nei magazzini della Dama srl 25.000 camici, che, secondo gli inquirenti, sarebbero ciò che resta della fornitura che la ditta avrebbe dovuto effettuare alla Regione ma che non completò dopo che, forse per intervento dello stesso Fontana, fu deciso che la vendita doveva diventare una donazione.

Si è scoperto inoltre che il 20 maggio, già un paio d’ore prima di decidere il cambiamento di ragione della fornitura da vendita a donazione (che non fu mai perfezionata) Andrea Dini, amministratore delegato della Dama, aveva già offerto tali camici a prezzo maggiorato alla RSA “Le Terrazze” di Varese.

Senza perdersi nei meandri di una stucchevole analisi dei messaggi Whatsapp sulla questione, appare sempre più evidente che la donazione fu un tentativo di sottrarsi al palese conflitto d’interessi e che il presidente Fontana non era affatto all’oscuro di tutta l’operazione come ha tentato di far credere sino alla seduta del consiglio regionale del 27 luglio.

La partita giudiziaria è aperta non solo sulla questione camici, poiché sono state presentate duecento denunce di familiari di vittime del Covid, la questione test Diasorin-San Matteo di Pavia è arrivata ai primi avvisi di reato e ancora altri esposti attendono di essere esaminati dai magistrati.

Infine, i giudici vogliono anche vederci chiaro sulla questione degli oltre cinque milioni provenienti dalle Bahamas che Fontana ha depositato in Svizzera parlando di un’eredità avuta dalla madre, e che, secondo lui, sarebbero “fermi” dagli anni '80, quando invece sul conto risultano diverse operazioni.

Tuttavia, la situazione giudiziaria, non certo rosea per la giunta Fontana, non deve far dimenticare la posta politica in gioco, che riguarda l’esistenza stessa del sistema Lombardia, dal punto di vista soprattutto, ma non solo, sanitario.

Proprio sul terreno della politica, la giunta Fontana sta cercando di guadagnare tempo su tutte le questioni, sperando che con il passare dei mesi l’attenzione su come essa ha gestito l’emergenza Covid e la conseguente indignazione dei cittadini e di vasti settori di operatori sanitari possa placarsi.

Un primo esempio di tale tattica è l’aver ottenuto di rinviare a settembre l’insediamento della commissione d’inchiesta del Consiglio Regionale sulla gestione della pandemia. Per regolamento, la presidenza di tale commissione spetta all’opposizione. Su questo punto la maggioranza ha dapprima tentato il colpo di mano eleggendo una consigliera di Italia Viva, Patrizia Baffi, che si è più volte dimostrata assai poco “oppositiva”.

Dopo le dimissioni, quasi scontate, della Baffi, la cui elezione serviva a prendere tempo, la maggioranza ha seguitato a porre il veto alla nomina di un consigliere del PD, poi anche di uno dei 5 Stelle, partiti che rappresentano la gran parte dell’opposizione. Ora la situazione si è sbloccata, ma la commissione non partirà che in settembre, dopo la pausa estiva.

Tuttavia, la partita politica più importante riguarda la legge sanitaria regionale 23/2015, firmata dall’allora presidente Maroni. Tale legge, allo scadere dei cinque anni della sua sperimentazione, deve passare al vaglio del Ministero della Sanità, che può accettarla, chiederne una modifica oppure rigettarla.

Quest’ultima ipotesi, non improbabile, dato quanto accaduto in Lombardia tra febbraio e giugno, è quella che fa paura alla giunta lombarda, poiché sarebbe il crollo dell’impianto privatistico e aziendalistico imposto alla sanità sin dai tempi di Formigoni.

Pur di evitare questa sconfitta, l’assessore regionale al welfare, Gallera, ha ritirato nei mesi scorsi il progetto di piano regionale sanitario che della legge doveva essere attuazione, proprio per non metterla in discussione. Ora Gallera trova un altro pretesto per rimandare l’esame della legge 23/2015 che dovrebbe essere effettuato in agosto. Poiché nel dicembre 2015 alla legge furono apportati dei piccoli e secondari emendamenti, Gallera sostiene pretestuosamente che la valutazione del Ministero della Salute debba essere differita al mese di dicembre.

Nei mesi prima di dicembre, Gallera spera di poter proporre alcuni cambiamenti alla legge, coinvolgendo associazioni, sindacati, medici e infermieri. Un tentativo di un’operazione di recupero in particolare di categorie professionali che sono particolarmente indignate con la giunta per le condizioni ignobili in cui hanno dovuto lavorare. Come si vede, la tattica dilatoria della giunta regionale si applica a tutti i diversi temi che possono metterla in difficoltà.

In questa situazione, è importante che, al contrario, la giunta lombarda sia chiamata al più presto a rendere conto del suo operato e che la legge 23/2015 che tanti disastri ha provocato, sia abrogata. Questo perché tale legge è un punto chiave del sistema sanitario basato sul modello di sussidiarietà pubblico-privato e sulla politica delle convenzioni, nonché sul modello aziendalista che ha provocato disastri, vittime e corruzione.

Si deve tornare a una sanità pubblica distinta e separata da quella privata e si deve cancellare la parola azienda da qualunque luogo dove ci si fa carico della salute dei cittadini.

Per queste ragioni non possiamo accontentarci di un orizzonte politico tutto interno al consiglio regionale e di stampo elettoralistico. Sostituire la giunta Fontana con una a guida, per esempio, del PD, che sul tema della sussidiarietà non ha programmi sostanzialmente alternativi alla Lega non può bastare a ridare ai cittadini lombardi una sanità veramente a misura delle loro necessità.

Per questo è necessario che la mobilitazione popolare che in questi mesi ha chiesto a gran voce la cacciata di Fontana e della sua giunta continui e si estenda, ma vigilando che qualche gioco di palazzo non porti a soluzioni gattopardesche. Questo è quanto sarà sul piatto in Lombardia nei prossimi mesi.

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30/07/2020

The Yellow Sea (2011) di Na Hong-jin - Minirece


Che fine ha fatto Bernadette? (2019) di Richard Linklater - Minirece


La proiezione internazionale della Cina nello stallo degli imperialismi

Paolo Beffa – Lorenzo Piccinini

In questo articolo presenteremo una breve ricostruzione della storia della proiezione internazionale della Repubblica Popolare, per poi ripercorrere come il recente protagonismo cinese stia venendo interpretato in occidente, in particolare riguardo alle teorizzazioni di un “imperialismo” cinese.

Infine abbiamo tradotto e pubblichiamo un articolo dello studioso zimbabwiano Sam Moyo su un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese: Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.

1. Il contesto internazionale: lo stallo degli imperialismi

Ci troviamo ormai da decenni all’interno di una crisi sistemica del sistema sociale ed economico capitalista, che periodicamente si manifesta sotto forme diverse. Che sia come crisi finanziaria o, come stiamo vivendo in questi mesi, una crisi sanitaria globale che impatta in maniera più forte quei paesi che del libero mercato hanno fatto il proprio feticcio, la causa di fondo rimane la stessa: una disperata difficoltà a livello globale di valorizzazione degli investimenti, che spinge il capitale a cercare i profitti di cui disperatamente ha bisogno nella speculazione finanziaria, nella distruzione dell’ambiente naturale, nel saccheggio del patrimonio pubblico, nelle privatizzazioni barbariche e sregolate.

Con l’esaurirsi della spinta data dalla mondializzazione avviata dopo la caduta del muro di Berlino, questa sempre maggiore difficoltà alla valorizzazione sta portando sempre di più ad una competizione internazionale tra macro-blocchi che si fa sempre più accesa (vedi per un’analisi più approfondita qui). La necessità del capitale europeo (a guida teutonica) di acquisire una scala adeguata allo scontro in atto è per esempio la ragione fondante della costruzione dell’Unione Europea (nonché la ragione dell’opposizione statunitense alla stessa), ed è per questo che, nonostante le laceranti contraddizioni che lo attraversano, il progetto di integrazione europeo è finora uscito più forte da ogni crisi che ha attraversato.

Se quindi il sogno della “fine della storia” teorizzato con il disgregarsi del blocco sovietico si sta infrangendo contro le contraddizioni interne del modo di produzione capitalista, c’è un altro sogno da cui qualcuno sta avendo un brusco risveglio: quello del Nuovo Secolo Americano.

Se infatti è indubbiamente vero che l’imperialismo americano mantiene una posizione dominante in una buona parte delle dimensioni che vanno a determinare gli equilibri globali (come la potenza militare), è altrettanto innegabile che la loro leadership in una serie di settori fondamentali (petrolio, tecnologia, spazio, moneta) stia venendo progressivamente incrinata. Per una disamina più approfondita delle caratteristiche della “crisi dell’Impero Americano” vedi qui.

Potendo quindi abbandonare le teorizzazioni di un mondo unipolare a guida statunitense, all’interno del mondo multipolare che va a delinearsi c’è sicuramente un soggetto con una posizione speciale: la Cina.

La Repubblica Popolare Cinese, dopo essere stata per anni complementare all’imperialismo statunitense, a cui ha fornito un mercato per il capitale in eccesso e uno strategico accesso a merci a basso costo, si è trovata negli ultimi anni (anche a causa dell’evoluzione del tessuto produttivo cinese) sempre più spesso nel ruolo di competitor. Le guerre monetarie e quella commerciale avviata dall’amministrazione Obama e alimentata dall’amministrazione Trump sono una declinazione di questo conflitto, che intorno alla gestione della crisi innestata dal COVID-19 si sta esasperando sempre di più.

2. Storia della proiezione internazionale della Cina

È necessario fare un breve cenno alla storia della Cina. Rispetto alla vulgata mainstream secondo cui le riforme economiche di apertura di Deng Xiaoping hanno rappresentato uno stravolgimento delle politiche estere cinesi, alcuni autori sostengono che il loro peso come spartiacque strategico sia da riconsiderare, in quanto anche durante l’era di Mao uno degli obiettivi strategici principali era il completamento della rivoluzione anti coloniale e l’emersione come paese indipendente e sovrano (ad esempio, all’interno del nostro ciclo di traduzioni sulla Cina, vedi qui e soprattutto qui ). All’interno di questo processo la Cina ha assunto una posizione divergente rispetto a quella dell’URSS: nel movimento comunista internazionale ha promosso il policentrismo; a livello inter statale ha promosso la collaborazione tra i paesi non allineati, fuori dai blocchi della NATO e del Patto di Varsavia; all’interno del non allineamento ha promosso i “principi di coesistenza pacifica”, inizialmente con l’India (con cui pure ci saranno scontri militari, l’ultimo a giugno 2020) e poi con gli altri paesi partecipanti alla Conferenza di Bandung. Questo l’ha portata ad assumere posizioni anche molto distanti dal resto dei paesi socialisti, portandola per esempio ad essere l’unico paese socialista a riconoscere il governo di Pinochet in nome della “non interferenza” – e questo accadeva nel 1973, mentre in Cina era ancora in corso la Rivoluzione Culturale.

La Cina ha attraversato due momenti di isolamento internazionale, il primo durante gli anni radicali della Rivoluzione Culturale, in cui volontariamente troncò la quasi totalità degli scambi internazionali, salvo poi uscirne con la mossa del cavallo dell’apertura agli USA. Il secondo dopo la repressione del movimento di Piazza Tiananmen nel 1989.

Dopo l’89 ha portato avanti la politica “nascondere le ambizioni e dissimulare gli artigli” formulata da Deng Xiaoping, il cui obiettivo era quello di riguadagnare legittimità nei rapporti internazionali. Questa policy è stata mantenuta almeno fino all’ingresso della Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio nel 2001. Dagli anni successivi è cominciata la preoccupazione in occidente per l’ascesa internazionale della Cina, chiaramente alimentata dalle conseguenze della crisi del 2008-2009.

3. La Cina nel ventunesimo secolo, come esportatrice di capitali

La Cina è stata:
1) un paese sostanzialmente chiuso agli scambi commerciali;
2) poi un paese attrattore di capitali esteri (anche se inizialmente largamente nella forma di capitali cinesi di Hong Kong, Arrighi 2007) di materie prime e componentistica, ed esportatore di prodotti finiti;
3) ora è ancora in parte importatrice di capitali, materie prime e componentistica, ma anche un paese con rilevanti investimenti esteri.

Nel decennio 2000-2010 ha fatto scalpore in occidente il protagonismo cinese in Africa con la creazione del Forum on China-Africa Cooperation (sulla portata e gli effetti di quel protagonismo, si veda l’articolo Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa alla fine di questo articolo).

Negli ultimi anni tiene invece banco la Belt and Road Initiative, l’iniziativa-marchio del presidente Xi Jinping per la costruzione di una serie di infrastrutture terrestri e marittime che colleghino la Cina all’Europa (e alle risorse energetiche africane e del Golfo) transitando per gli oceani pacifico e indiano e per l’Asia centrale. Lungo queste “nuove vie dalla seta” si sviluppano interventi di vario tipo, dall’esternalizzazione di produzione labour-intensive che in Cina non sono più favorite dai piani quinquennali (sia per l’esaurimento dei surplus di lavoro, sia per questioni di inquinamento, sia per la mutazione della produzione verso un anello superiore della catena del valore) alla creazione di poli di innovazione tecnologica. Queste “nuove vie della seta” vengono costellate di zone economiche speciali. L’effetto di questo mastodontico progetto sull’opinione pubblica mondiale e sui decision-makers occidentali è grande, e questo dà la misura di quanto sia cambiato dai tempi di Deng e del “nascondere e dissimulare”. Va però sottolineato, come nota anche Sam Moyo, che mentre i progetti cinesi sono molto appariscenti, spesso altri attori “insospettabili” sono molto più presenti. In Africa la sola Corea del Sud porta più investimenti esteri della Cina. Nei paesi dell’ASEAN il Giappone investe molto di più in progetti infrastrutturali di quanto faccia la Cina con la Belt and Road (vedi qui).

Chiaramente una misura puramente quantitativa degli investimenti non può risolvere il dibattito che, all’interno del mondo marxista, si è sviluppato riguardo a questa crescita significativa di investimenti esteri: ovvero, possiamo parlare di un’espansione imperialista della Cina?

Secondo l’economista indiano Vijay Prashad i progetti infrastrutturali della Cina nei paesi africani servono a compensare in parte l’estrazione di risorse primarie a prezzi stracciati (prezzi fissati, secondo Prashad, dalle multinazionali occidentali che continuano a dominare il mercato) e, soprattutto, bisogna andare a distinguere il comportamento del capitale cinese privato dalla cooperazione statale e dagli investimenti guidati dalla pianificazione pubblica (per un approfondimento vedere l’intervista data al Qiao Collective che abbiamo tradotto qui).

Se Prashad ha sicuramente ragione nell’invocare queste distinzioni, è un po’ più difficile praticarle nell’analisi. Aldilà della notte oscura dei settori più anti cinesi per cui non sarebbero distinguibili privati e statali in quanto entrambi direttamente controllati dal PCC, è innegabile che ci sia comunque un grado di indirizzo dello stato cinese e che in alcuni casi siano in campo privati che sono stati elevati al grado di campioni industriali nazionali sotto forte controllo statale. Tutta l’attuale vicenda attorno a Huawei e le infrastrutture del 5G ne è un ottimo esempio.

4. BRICS

La proiezione della Cina nelle relazioni internazionali più conosciuta è sicuramente quella del gruppo BRICS insieme a Brasile, Russia, India e Sud Africa. Sulla reazione di questo gruppo di paesi alla pandemia mondiale abbiamo già scritto qui.

Ovviamente le letture sul ruolo internazionale dei BRICS sono altrettanto varie quanto quelle sulla Cina in particolare. Ai due estremi ci sono le interpretazioni di chi li ha ritenuti un campo antimperialista definito, come se fossero il campo socialista o il campo dei non allineati, e di chi li ha ritenuti un polo imperialista a sé stante. In mezzo ci sono tutte le varie sfumature di sub imperialismo o di paesi che più o meno sistematicamente ma occasionalmente riescono a esercitare un’opposizione allo strapotere statunitense sul globo1.

Quello che è sicuro è che i BRICS come li abbiamo conosciuti, nonostante alcuni exploit come quello appunto relativo alla gestione del coronavirus, non esistono più. Continuano gli incontri tra i leader dei 5 paesi, il prossimo si sarebbe dovuto tenere in Russia a luglio ed è stato rimandato a data da definirsi “per via della pandemia”, ma il comune posizionamento anti-americano non c’è più. Il Brasile, prima con Temer, poi con Bolsonaro si è decisamente spostato sotto l’ombrello americano. In campagna elettorale Bolsonaro ha raccolto il sostegno dell’agrobusiness e del settore minerario giurando di proteggere le industrie nazionali dallo shopping cinese.

Ma la frattura principale è ovviamente quella tra India e Cina. Durante il primo mandato di Nerendra Modi (capo del partito BJP, della destra nazionalista induista) l'India aveva comunque mantenuto un minimo di distanziamento dagli americani, mentre nel secondo mandato ha abbandonato ogni remora. L’India ora fa parte del Quadrilater Dialogue insieme agli USA e ai vassalli Giappone e Australia, sta aumentando sistematicamente la cooperazione militare con i paesi dell’area ostili alla Cina, e torna a premere sui confini rimasti congelati dopo la guerra sino indiana del 1967. Sullo scontro armato degli inizi di giugno tra Cina e India, in cui ci sono stati venti morti da parte indiana e un numero imprecisato da parte cinese, le due parti si danno la colpa a vicenda per aver violato gli accordi di de-escalation. L’unica cosa su cui entrambi sono d’accordo è che non ci sarebbe stato uso di armi da fuoco e il numero alto di vittime sarebbe spiegato dalle condizioni estreme del combattimento: in una valle col fondo a 4000 metri sul livello del mare, con dirupi alti centinaia di metri e temperature ben sotto lo zero.

In ogni caso, è innegabile, e riportato anche da fonti anti cinesi, che è stata l’India a scongelare la crisi, andando a costruire infrastrutture permanenti all'interno della Actual Line of Control, che non è una linea ma una fascia territoriale piuttosto vasta rivendicata da entrambi i paesi, andando contro l’unico accordo che i due paesi avevano concordato in questi decenni (vedi qui). È alla luce del sole anche il fatto che Modi ha intensificato le operazioni ai confini contesi (non solo con la Cina, ma anche col Pakistan e il Nepal) proprio nel momento in cui la seconda ondata di epidemia stava esplodendo in stati importantissimi come il Maharastra, il Tamil Nadu, il Bengala dell’Ovest (ex bastione dei due Partiti Comunisti indiani, di cui uno molto filo cinese) e il Gujarat (la base di potere di Modi).

Mentre una qualche de-escalation militare è stata raggiunta, l’India ha alzato il tiro economicamente. Sono state bannate decine di app cinesi tra cui i social TikTok e Weibo/Wechat (indispensabile per chiunque abbia contatto commerciali con la Cina) e l’India è stato uno dei primi paesi a tagliare fuori Huawei dai progetti sul 5G, dando anche indicazioni a tutta l’amministrazione statale di tagliare qualunque legame con Huawei.

5. La recente accelerazione dello scontro USA-Cina

La pandemia sembra avere accelerato le dinamiche dello scontro internazionale tra Stati Uniti e Cina.

Da quando abbiamo iniziato il lavoro su questo dossier Cina gli Stati Uniti di Trump hanno accusato la Cina di aver più o meno volontariamente causato la pandemia, hanno di fatto espulso centinaia di miglia di studenti cinesi e stanno mettendo alla porta centinaia di accademici cinesi o di origine cinese anche a costo di fare un danno rilevante alla ricerca. Sono state elevate nuove barriere tariffarie e, in riposta alla legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, gli USA hanno cominciato a restringere il riconoscimento dello “status commerciale speciale” della città. È stata intensificata la campagna politica sullo Xinjiang. È stato chiuso il consolato della Repubblica Popolare a Houston con l’accusa di spionaggio, in risposta è stato chiuso il consolato americano a Chengdu. La Cina ha imposto sanzioni al gigante militar-industriale Lockheed Martin a seguito della vendita di aerei da guerra a Taiwan e minaccia di tagliare il commercio di terre rare, nel frattempo gli Stati Uniti continuano a manovrare la Settima Flotta nelle acque contese del Mar Cinese Meridionale. Il ministro degli esteri Pompeo ha addirittura tenuto un discorso rivolto esplicitamente al cambio di regime a Beijing.

Non possiamo naturalmente prevedere come queste tensioni si svilupperanno, ma possiamo cominciare a fare delle ipotesi, consapevoli che l’evoluzione delle dinamiche sarà fortemente influenzato dallo sviluppo della crisi del Modo di Produzione Capitalista che stiamo attraversando.

Un’ipotesi da tenere in considerazione è che l’escalation del conflitto da parte statunitense non sia semplicemente un tentativo di riguadagnare consenso interno da parte di Trump ma un tentativo di definire un “nuovo normale” nei rapporti USA-Cina su cui anche Biden non potrebbe fare retromarcia. Bisogna poi chiedersi anche se nel caso di una vittoria dei Democratici, questi sarebbero intenzionati a fare retromarcia. La bozza di manifesto programmatico di Biden resa pubblico a fine luglio si differenzia da Trump nella contrarietà a nuove barriere tariffarie, ma conferma la costruzione di un’alleanza regionale anti cinese e la politica di sanzioni in risposta alle mosse politiche di Beijing.

Se questo livello di scontro diventasse il “nuovo normale” delle relazioni, significherebbe la fine della ventennale strategia statunitense di engagement, cioè del tentativo di reclutare la Cina come “numero 2” principalmente con le buone maniere e occasionalmente con le cattive. In questo “nuovo normale” le cattive maniere sarebbero l’approccio standard. Una nuova guerra fredda, ma con un’interdipendenza economica che non può essere superata né in due anni né in un decennio. Per quanto gli USA possano favorire il rientro di produzioni nei propri confini e nei confini di paesi più malleabili, per quanti i cinesi possano rimodulare la propria programmazione economica verso i consumi interni, il disaccoppiamento tra i due poli resterà un processo in tendenza, a meno di un evento traumatico.

Una delle opzioni possibili è la guerra calda. Non lo scontro aperto tra le due potenze con l’uso delle armi nucleari, ma una guerra per procura combattuta con mezzi “tradizionali” in uno o più dei “punti caldi” che circondano la Cina: la penisola coreana, le isole contese nel Mar Cinese, lo stretto di Malacca da cui passa più dell’80% delle risorse energetiche dirette in Cina, Taiwan, i confini terrestri con l’India. Da decenni gli ambienti statunitensi coltivano il sogno di spezzettare la Cina continentale e farne tante Hong Kong o Singapore utilizzabili come snodi produttivi e finanziari malleabili. L’idea di poter realmente rendere delle città-stato Shanghai, le provincie del Zhejiang e del Fujian, o la provincia del Guangdong, è aldilà della fattibilità. Ma nelle accademie militari e nei circoli politici dei “falchi” viene detto esplicitamente che un limitato scontro militare potrebbe ricondurre il Partito Comunista Cinese a più miti consigli, lasciando margini più ampi di liberalizzazione nelle province interessanti per il capitale transnazionale.

6. La proiezione internazionale della Cina vista dall’Occidente

Da anni a questa parte si è radicata la preoccupazione, all’interno dell’élite americana e, in buona parte, europea che la Cina si rivelasse una “potenza revisionista” del sistema di relazioni internazionali, vale a dire che oltre a crescere economicamente acquistasse anche un peso politico tale da scardinare il sistema di dominio globale vigente, caratterizzato dall’alleanza-competizione fra i paesi della cosiddetta triade imperialista USA-UE-Giappone.

Nella sgangherata sinistra occidentale si è invece andando producendo la discussione sulla natura imperialista o antimperialista dell’ascesa cinese.

L’idea che la Cina stia costruendo un polo imperialista in tutto e per tutto è condivisa dalla gran parte delle sinistre radicali europee, dai discendenti dell’eurocomunismo e dai vari “socialdemocratici di sinistra” e “rosso verdi”. All’interno di questo campo ci sono alcune significative eccezioni come la Linke tedesca e le posizioni (spesso roboanti e oscillanti, come per tutto il resto) di Melenchon. Questa ostilità è condivisa spesso da ambienti politici che, in funzione “anti revisionista”, contestano l’adozione del Modo di Produzione di Capitalista e della conseguente supposta proiezione imperialista all’estero, talvolta individuando i BRICS come blocco imperialista tout-court. Questa posizione è stata assunta dal KKE greco e da molte organizzazioni a esso legate, come il PC in Italia.

Al di fuori dei partiti, nei movimenti basisti si può trovare un’ostilità ancora maggiore all’ascesa cinese: assumendo in toto il paradigma della restaurazione del capitalismo, del colonialismo interno sul Tibet (e più recentemente sullo Xinjiang) e dell’integrazione cinese all’interno del sistema imperialista internazionale (sia nella versione di scontro tra imperialismi, sia nella versione di ultra-imperialismo alla Kautsky riscaldata da Negri), questi movimenti basisti solitamente non si pongono nessuna problematicità sulla natura generale dell’ascesa cinese, soffermandosi invece spesso sull’opposizione a specifici progetti internazionali cinesi. Considerato che i progetti internazionali della Cina sono spesso e volentieri grandi progetti infrastrutturali, a volte questa ostilità risponde a problematicità reali.

Esista poi una posizione contrapposta che difende senza remore la natura socialista della Cina – e una conseguente “naturale” funzione anti-imperialista.

Una “terza posizione” è quella che sostanzialmente dice che non importa se lo sviluppo sia imperialista o antimperialista, l’importante è che crei un contrappeso allo stra-potere americano e sostenga le esperienze di paesi (a seconda delle inclinazioni) terzi, socialisti, non allineati, anti imperialisti o anche semplicemente temporaneamente disallineati rispetto agli USA.

Riguardo alle valutazioni di un aspetto specifico della proiezione internazionale cinese che ha stimolato tanto dibattito nel primo decennio del ventunesimo secolo, ovvero le relazioni Cina-paesi africani, rimandiamo alla lettura dell’articolo Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.

7. Si può parlare di imperialismo cinese?

Nel chiederci se possiamo parlare di imperialismo cinese o meno, un errore in cui non bisogna cadere è avvitarsi in una discussione tutta dottrinaria sulla natura dell’imperialismo, in cui la definizione di imperialismo smetta di essere uno strumento per orientare la lotta e diventi un fine in sé, con in più il pericolo di piegare la definizione ai risultati desiderati (esempio: dico che è imperialismo solo da un certo numero di basi militari all’estero. Controesempio: dico che al primo militare all’estero è imperialismo). Sarebbe poi sbagliato limitare la definizione di imperialismo a solo alcune delle sue caratteristiche: l’imperialismo non è solo esportazione di capitale, l’imperialismo non è solo presenza militare all’estero. Chiarire ciò ci permette di evitare alcune conclusioni assurde per cui uno stato non-imperialista dovrebbe essere sostanzialmente autarchico o, al limite, importare capitale e basta (della serie: non dovremmo fare campagna contro l’embargo a Cuba) e non dovrebbe avere nessuna proiezione estera di nessun tipo.

Ma l’errore probabilmente più grave sarebbe quello di esprimere un giudizio in maniere anti-dialettica, basandosi su una fotografia della situazione anziché cercando di cogliere le tendenze del processo in corso.

Per molti versi la discussione sulla “natura imperialista” o meno della Cina ricalca la discussione “Cina socialista o capitalista” che Samir Amin (nel suo articolo China 2013 che abbiamo tradotto qui) rifiuta in quanto insensata nella sua contrapposizione di assoluti, ma con qualche caveat in più. La questione centrale è data dal fatto che il PCC ha da tempo adottato il modo di produzione capitalista, al fine di costruire un sistema industriale moderno, integrato e sovrano e di controllare l’integrazione della Cina nel sistema-mondo capitalista. Questo processo è controllato politicamente dal Partito Comunista Cinese, attraverso un livello di pianificazione e regolazione significativo. Si tratta di un passaggio che Samir Amin reputa necessario, ma che allo stesso tempo genera una grande quantità di contraddizioni interne e di spinte verso un ritorno definitivo all’ovile capitalista. Ma in ogni caso l’adozione del modo di produzione capitalista comporta rimanere invischiati nelle crisi e nelle contraddizioni che questo livello di sviluppo mondiale comporta.

È importante infatti sottolineare che l’imperialismo non è una serie di politiche adottate da un paese, ma la fase di sviluppo del modo di produzione capitalista nella sua totalità. Quando si parla quindi di “imperialismi” si intendono semplicemente diverse articolazioni di questa realtà generale, che tra loro hanno diversi rapporti conflittuali. Essendo la competizione all’interno dell’imperialismo una diretta conseguenza della tendenza ad una sempre più difficile valorizzazione del capitale, è naturale che la Cina venga coinvolta in questo processo. Come è anche naturale che i possibili scenari che si aprono riguardo all’evoluzione della fase storica in generale e della linea di sviluppo della Cina in particolare, siano strettamente legati alla condizione di crisi sistemica che stiamo attraversando.

Non è possibile infatti escludere a prescindere uno scenario in cui la Cina sostituisca (con tempistiche e modalità che possono essere le più varie) gli USA come imperialismo egemonico a livello mondiale – magari con caratteristiche diverse e specifiche – riuscendo a sfogare verso l’esterno le proprie contraddizioni interne. Questo tuttavia presuppone un’uscita dalla crisi del modo di produzione capitalista, e non esclude la possibilità di uno scontro militare aperto (le tensioni militari nell’area del Pacifico si stanno intensificando velocemente negli ultimi anni). Casomai, invece, un'uscita da questa crisi, che in una forma o nell’altra si trascina dagli anni ’70 del '900, non venga trovata, gli scenari che si aprono potranno essere anche molto diversi, e vedrebbero una Cina (ma non solo la Cina) doversi confrontare direttamente con la scelta di mantenere o meno un sistema sociale e un Modo di Produzione che semplicemente non riesce più a soddisfare i bisogni della popolazione e che mette sempre più in pericolo l’umanità stessa.

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Prospettive riguardo le relazioni Sud-Sud: la presenza cinese in Africa.

di Sam Moyo

L’autore

Sam Moyo (1954-2015), nato in Zimbabwe, è stato membro dell’organizzazione giovanile dello Zimbabwe African People’s Union. Ha studiato economia in Zimbabwe, in Costa D’Avorio, in Canada e nel Regno Unito. Ha condotto ricerche e ha insegnato all’Istituto Africano per gli Studi Agrari di Harare, occupandosi di sviluppo rurale, riforma agraria e movimenti sociali.

Questo articolo è stato sviluppato prima come discorso alla conferenza “Bandung – Third World 60 Years” tenuta ad Hangzhou in Cina il 17-19 aprile 2015, poi è stato pubblicato sulla rivista scientifica Inter-Asia Cultural Studies nel 2016.

Introduzione

Questo articolo si basa su un precedente articolo che fornisce una larga cornice concettuale sull’evoluzione dell’imperialismo e la lotta per le risorse africane (Moyo, Yeros e Jha 2012). C’è un numero crescete di studi tematici e sui singoli paesi che sono stati intrapresi in merito alla presenza cinese in Africa oggi, e negli ultimi anni studi empirici più dettagliati ci hanno fornito un’immagine più chiara di questa presenza nei vari paesi africani. Questo articolo esplora la questione generale della presenza cinese in Africa.

Esaminando la presenza della Cina in Africa il continente viene spesso visto come un unico grande continente o una regione, nonostante abbia una storia e un’economia politica contemporanea variegata. Infatti, i paesi dell’Africa sub sahariana sono dotati di interessi politici, demografici e di risorse diversificati rispetto agli investimenti esteri, di cui la Cina non è che una fonte. Mentre gran parte del continente è composto largamente da società agrarie, con alcuni paesi molto dipendenti dall’esportazione di risorse naturali, minerarie e petrolifere, altri sono relativamente più industrializzati. Il continente ha avuto esperienza di penetrazione e trasformazione capitalista diverse per forma e profondità (Amin 1972). Per esempio, l’esperienza degli insediamenti coloniali in Sud Africa, Zimbabwe, Namibia e Kenya ha introdotto specifiche relazioni culturali, sociali ed economiche che hanno formato significativamente la natura delle loro relazioni esterne. Il fatto che la storia degli insediamenti coloniali dati fino al XIX secolo significa che nell’attuale corsa alle risorse africane questi paesi siano più una testa di ponte per gli investimenti stranieri che una fonte di acquisizione delle terre. In effetti, le questioni geopolitiche e di sicurezza che affrontano questi singoli paesi africani variano sostanzialmente dato che sono state plasmate dalle relazioni storiche con le potenze estere nel contesto della Guerra Fredda.

La presenza cinese in Africa oggi è quindi ampiamente differenziata secondo le variegate relazioni storiche coi differenti paesi africani in termini di commercio, investimenti e preoccupazione sulla sicurezza. In effetti la Cina ha avuto relazioni storiche coi vari paesi africani, in alcuni più visibili che in altri. La sua presenza in Africa ha acquistato importanza col sostengo ai movimenti di liberazione nell’Africa meridionale dagli anni ’60 e la costruzione della ferrovia Tazara negli anni ’70. In ogni caso, oggi la presenza cinese è più significativa nei paesi con più risorse energetiche la cui estrazione è in aumento. Più in generale, la Cina ha una presenza diffusa e crescente in Africa attraverso le relazioni commerciali, con l’importazione di beni di consumo molto visibili in molte capitali africane e in città più piccole.

Prospettive sulla presenza della Cina in Africa.

La letteratura suggerisce che ci siano tre tipi differenti ma interrelati di approcci con cui leggere la presenza cinese in Africa. La prima prospettiva vede la Cina come una forza indipendente ed egemonica che sta (ri)colonizzando l’Africa. La seconda prospettiva vede la presenza cinese come un aspetto positivo del processo di globalizzazione in cui la diversificazione dei mercati fornisce più spazi di manovra agli stati africani, a lungo marginalizzati dal dominio eurocentrico. Una terza prospettiva, collegata alle prime due, è che la Cina sia un elemento in un più largo processo di accumulazione originaria su scala mondiale nel contesto dell’approfondimenti della crisi del capitalismo. Una variante di questa prospettiva è quella che vede la Cina come forza “sub imperiale” che partecipa alla corsa per le risorse africane come componente tributaria dell’egemonia Euro-americana.

La tesi della ricolonizzazione suggerisce che l’Africa venga “colonizzata” dalla Cina come nuova forza dominante nell’economia globalizzata e che essa cerchi di estrarre le risorse naturali necessarie alla propria crescita autonoma con un limitato reinvestimento nello sviluppo del continente. In larga parte, la tesi della ricolonizzazione assume che ci sia una dominanza del capitale cinese in Africa e che lo stato cinese abbia ora l’influenza maggiore sugli stati africani. In ogni caso, le evidenze empiriche sul terreno mostrano che la presenza cinese in Africa stia diventando relativamente alta solo in tempi recenti e, comparata con la presenza complessiva del capitale euro-americano in Africa, sia lontana dall'essere dominante.

La tesi della ricolonizzazione è proposta principalmente da molti studiosi liberali occidentali e circola ampiamente nei media mainstream, così come tra alcuni studiosi africani, con la metafora del dragone distruttivo. Questa tesi ha comunque anche una risonanza a livello popolare, con la crescente preoccupazione nelle opinioni pubbliche africane per la presenza concorrente nel commercio e nel mercato del lavoro.

In ogni caso il fatto che gli stati africani siano stato politicamente indipendenti per 50 anni all’interno del sistema mondiale di stati in evoluzione – anche se nel contesto di una gerarchia tra centro e periferia dominato dall’Occidente – solleva molti dubbi sul concetto e sulla sostenibilità della tesi della ricolonizzazione in sé. In effetti, il contesto giuridico e di sicurezza del continente africano, aperto come è all’accaparramento estero delle sue risorse, comporta forme e meccanismi di controllo delle risorse differenti da quelle di un secolo e più fa. La tesi della ricolonizzazione cinese è stata malamente concettualizzata, per ora non differenzia l’attuale processo di cattura delle risorse da quello del colonialismo formale classico della corsa all’Africa attraverso la spartizione del Trattato di Berlino del 1848. Quella corsa era riferita alla spartizione europea all’interno di uno specifico contesto economico e geopolitico che includeva una specifica situazione militare in difesa di una particolare forma di imperialismo e di un sistema capitalista mondiale.

La relazione coloniale che ne è scaturita includeva la soggiogazione nazionale completa, inclusa la conquista militare e il controllo delle economie africane tramite il governo politico coloniale. La tesi della ricolonizzazione si basa su una percezione superficiale del supposto controllo cinese sull’economia politica africana, nonostante le caratteristiche dell’imperialismo siano mutate sotto i monopoli del capitale finanziario.

Inoltre, dopo l’emersione degli stati nazione africani indipendenti negli anni ’60, almeno nei termini di potere politico formale e della modalità di governo, è cambiata la modalità della divisione coloniale degli interessi economici tra le fonti occidentali di capitale, portando a un coordinamento più debole nella spinta a catturare le risorse africane rispetto alla corsa del XIX secolo. Quel processo di colonizzazione includeva la divisione delle spoglie e l’abbattimento finale dei precedenti regimi mercantili e la conquista militare diretta delle nazioni africane. Quindi, molti studi su Cina e Africa si riducono a una visione molto angusta della presenza cinese in un dato settore (petrolio, energia, edilizia) o si concentrano solo sulle nuove fonti del controllo delle risorse, come gli investimenti indiani o cinesi. In ogni caso, quando si esamina l’ammontare di tutti gli investimenti esteri nella gran parte dei paesi africani, il quadro è quello di una competizione per le risorse africane con una platea internazionale molto più ampia.

La seconda prospettiva valuta la nuova presenza cinese in Africa come una risorsa decisiva che viene, o può venire, usata dagli stati africani contro il capitale estero in generale. Questo ha creato quello che Samir Amin chiama “spazio di manovra”, dato che finora gli investimenti cinesi hanno creato spazio per decisioni a lungo termine sullo sviluppo da parte dei governi africani (Amin 2006). [...]

Di particolare importanza è lo spazio creato per negoziare le condizionalità dei prestiti delle Istituzioni Finanziarie Internazionali IFI (l’FMI, la Banca Mondiale, l’African Development Bank, i donatori bilaterali) in relazione all’accesso a nuove forme di finanza dalla Cina all’Africa e da altre “potenze emergenti”. In una certa misura, questa prospettiva è stata avanzata da nazionalisti e intellettuali di sinistra, e un piccolo numero di governi africani che hanno accolto la crescente presenza cinese nel finanziamento in vari settori come le infrastrutture, l’irrigazione e così via. In effetti questi settori sono stati finanziati dalle IFI negli anni ’50 e ’60 per essere poi abbandonati dagli anni ’80, quando sono emersi i programmi di aggiustamento strutturale. La reviviscenza di questi finanziamenti all’Africa è considerata di importanza critica per la sua agenda di sviluppo, facendo nascere dal 2000 in poi l’idea di un “Beijing Consensus”.

Lo spazio di manovra tende a essere visto sotto una luce positiva, non solo nel contesto delle nuove forme e quantità di finanziamento disponibile, ma anche nella prospettiva di riformare l’ONU e le IFI. In effetti, il ruolo della Cina nelle varie organizzazioni ONU è stato visibile, ha fornito copertura geopolitica a paesi africani che erano sotto pressione di alcune nazioni europee che cercavano un cambiamento di regime (per esempio, Zimbabwe e Sudan e così via). La partecipazione cinese al finanziamento delle IFI, come l’FMI e la Banca Mondiale, è vista come un segnale di quello che faranno le nuove infrastrutture dei BRICS, la banca di sviluppo guidata dalla Cina è vista come una promettente fonte finanziariaa allo sviluppo in Africa.

Questi due approcci all’analisi della presenza cinese in Africa alimentano e si relazionano con la terza prospettiva che, in opposizione alla tesi semplicistica della ricolonizzazione, affronta la questione nei termini del sistema-mondo. In questo caso, l’Africa e il Sud Globale sono visti come sottoposti a una classica corsa imperialista per lo sfruttamento dei mercati, delle terre, dei minerali e delle risorse naturali (incluse acqua e foreste) e come parte di un processo continuo di accumulazione primitiva, nel contesto della crisi del capitalismo dal 2001 in avanti. L’attuale corsa è classica perché vede l’esportazione del capitale in eccesso delle multinazionali, seguendo la recente crisi economica mondiale collegata al collasso dei profitti, e la crescente militarizzazione delle relazioni dell’Africa con l’Occidente (Moyo, Yeros e Jha 2012; Moyo, Jha e Yeros 2013).

In effetti la presenza cinese nel continente è aumentata dal 2001, mentre la sua economia cresceva rapidamente e in parallelo cresceva la sua richiesta di materie prime. I sintomi principali della crisi globale del capitalismo includevano la crescente insicurezza sulle fonti energetiche, la crescita della domanda di energia e materie prime, in seguito alla crisi petrolifera del Medioriente sviluppatasi dal gennaio 2000. La crisi energetica e alimentare che ne è seguita (dal 2002 al 2008) e la crisi finanziaria che ha toccato il picco nel 2008, sono state il riflesso di una crisi persistente data dalla caduta del saggio di profitto. Tutti questi processi insieme hanno creato le condizioni per aumentare l’esportazione di capitale non solo verso l’Africa ma in tutto il Sud Globale. In ogni caso l’Africa è diventata la prima destinazione dell’attuale lotta perché è ingiustamente percepita come una frontiera selvaggia in cui terra, acqua, risorse naturali e i minerali sarebbero largamente sottoutilizzati.

Quindi l’attuale corsa all’Africa coinvolge da una parte il capitale transnazionale, collocato in diversi stati-nazione, e dall’altra coinvolge gli stati-nazione attraverso vari rami dei loro governi e delle organizzazioni della società civile. Gli stati sono rappresentati dal capitale statale nella forma delle imprese statali (State Owned Enterprises SOE, NdT) e dalle imprese private sostenute dagli stati, con la copertura diplomatica e il sostegno attraverso il crescente uso del soft power statale. Mentre le forze militari esterne sono state usate per assicurarsi il controllo sulle risorse, la Cina non l’ha fatto. In ogni caso ha incrementato l’esportazione di armi verso alcuni stati africani, la maggior parte sotto embargo dalla NATO (Zimbabwe e Sudan, per esempio).

Quindi, aldilà delle problematiche attorno alla militarizzazione della corsa alle risorse africane, sono cambiati considerevolmente gli interessi internazionali nelle risorse africane e nel contesto economico e geopolitico. Per esempio, negli ultimi 30 anni una varietà di paesi semiperiferici (semi-industrializzati) sono emersi e sono stati coinvolti nell’esportazione crescente di capitale verso il Sud Globale. Questi paesi cercando direttamene nuovi mercati africani per la loro manifattura, cercano un accesso indipendente alle risorse minerarie ed energetiche per i loro progetti di industrializzazione dentro il contesto delle relazioni centro-periferia e dell’economia politica internazionale.

Quindi, c’è stata un’espansione dei paesi in Asia, in Medio Oriente, la Turchia e il Brasile, che cercano di investire in Africa ed è cresciuto il numero di paesi che hanno la capacità (differenziata) di intervenire nella corsa all’Africa. Sono cresciuti gli investimenti dei paesi del Golfo e dei paesi asiatici (oltre alla Cina) cambiando così il contesto economico mondiale. Le diverse relazione tra stati che ne sono emerse sono troppo complesse per essere inquadrato in un semplice processo di ricolonizzazione o anche di sub imperialismo.

Nonostante questo, quando si discute della corsa all’Africa si parla più di Cina che di India, Brasile, Turchia, dei paesi del Golfo e di altri paesi emergente della semi-periferia. Anche quando si parla dei paesi che hanno fatto parte del movimento dei “non-allineati”, ci si concentra sempre di più sulla Cina che su Singapore, la Malaysia e così via. Ci sono molti altri attori coinvolti in questa nuova cooperazione sud-sud, con stili e interessi differenti. Nel prossimo paragrafo esaminiamo la presenza specifica della Cina in Africa confrontandola con altri attori esterni.

La presenza cinese nell’economia africana

La presenza cinese nell’economia africana varia attraverso i settori e i paesi. Inoltre, deve essere compresa nei termini della rapidissima crescita cinese dalla fine degli anni ’90 e della crescente apertura delle economie africane a seguito delle liberalizzazioni degli anni ’80. Dal 1990, i programmi di aggiustamento strutturale hanno promosso la liberalizzazione del commercio e la continua privatizzazione delle imprese statali, includendo le miniere in paesi come lo Zambia. Negli anni ’90 la liberalizzazione ha creato lo spazio per i capitali occidentali e cinesi. Nel contesto della de industrializzazione africana dagli anni ’80 l’Occidente ha giocato un ruolo ancora più dominante nell’esportazione di beni verso l’Africa. Dagli anni 2000, l’esportazione di beni di consumo cinesi è cresciuta, in alcune settori (esempio: tessile, calzature) sono diventate l’import dominante.

Anche se gli scambi totali tra Cina e Africa sono cresciuti, il commercio e gli investimenti euro-americani continuano a dominare gli affari in Africa. In alcuni paesi, specialmente quelli ricchi di petrolio, gli investimenti cinesi in petrolio e infrastrutture hanno cominciato a spostare la bilancia in favore della Cina e la sua presenza ha cambiato sostanzialmente l’economia politica, come in Angola (Chery a Obi 2010). Nonostante questo, nella maggiora parte dei paesi è il capitale euro americano a essere di gran lunga il giocatore più forte che influenza sostanzialmente le politiche economiche.

Le nuove imprese commerciali cinesi piccole e medie (PMI) hanno comunque aumentato sostanzialmente la loro presenza in Africa; anche se sono superate in numero dalle PMI africane la loro predominanze nell’importazione è un fenomeno ormai molto visibile. Per la maggioranza dei paesi africani, i piani di aggiustamento strutturali hanno aperto le economie in termini di commercio, mercati di capitali e così via, portando alla de industrializzazione, all’abbandono delle attività di sostituzione delle importazioni, generando così una percezione negativa della presenza cinese. D’altronde, dato che la Cina è diventata il maggior produttore mondiale, e che i suoi beni sono competitivi a livello globale, non è sorprendente che le vendite al dettaglio in Africa siano abbastanza dominate dai beni cinesi e, in maniera minore, da quelli del Sud Africa, dato che i supermercati sudafricani sono diventati dominanti nel commercio formale.

In termini di investimenti nei settori minerario, agricolo ed edile, gli investimenti stranieri continuano a essere dominati dalle multinazionali con base in Occidente. Queste multinazionali, insieme alle imprese cinesi, hanno avviato la corsa alle risorse africane durante gli anni 2000. Il capitale minerario cinese sta aumentando la sua presenza su vari campi. Per esempio, nello Zimbabwe gli interessi cinesi sono presenti nell’estrazione di cromo, diamanti e platino, ma le compagnie sudafricane, americane e britanniche restano dominanti nell’Africa meridionale. La Cina è un investitore significativo nel rame in Zambia insieme al Cile. In paesi come l’Angola e la Nigeria gli investitori dominanti nel campo minerario sono ancora quelli occidentali.

Un’arena in cui la Cina è diventata l’attore dominante in Africa è quello delle infrastrutture. Nel decennio passato ci sono stati finanziamenti cinesi significativi ai maggiori progetti in paesi come l’Angola, sforzi significativi nella stessa direzione nella Repubblica Democratica del Congo hanno portato il governo congolese a uno scontro con le IFI, ritardando i progetti infrastrutturali. La presenza fisica della Cina nell’edilizia, che spesso include l’importazione di forza lavoro cinese, è quindi molto significativa in termini economici e politici e mette in luce la percezione di un dominio cinese.

Conseguentemente, nei nuovi accordi di investimento le condizioni finanziarie offerte dalla Cina ai paesi africani sono considerati come una minaccia ai modelli di prestito occidentale, inclusi quelli delle IFI. Gli investimenti cinesi hanno anche portato anche a nuove forme di prestiti per il più ampio sviluppo infrastrutturale. Il dominio cinese  e la sua influenza sono stati comunque accompagnati da importanti critiche (che io considero valide) che suggeriscono come ci sia un significativo livello di corruzione in alcuni degli accordi tra la Cina e le élite africane, che guadagnano le commissioni, in particolare investimenti cinesi non desiderabili nel campo estrattivo. Le multinazionali cinesi e indiane sono anche accusate di ignorare gli standard di “buona governance”.

In effetti, una parte importante del dibattito sulla ricolonizzazione dell’Africa tende a essere mischiato con la percezione della corruzione in cui sono coinvolte le imprese cinesi che ottengono concessione per costruire miniere e sviluppare infrastrutture a prezzi sub-economici o sopravvalutati. Questa percezione viene confrontata alla percezione di una minore, o del tutto assente, corruzione delle multinazionali occidentali. Per esempio, alcuni rapporti recenti suggeriscono che ci sia stato un significativo aumento dei flussi finanziari illeciti dall’Africa (AI/EC 2014; GFI e AfDB 2013). Le risorse che escono illegalmente dall’Africa sono legate alle multinazionali, sia dell’Occidente sia dell’Oriente.

Quando si discute se il capitale cinese mini la buona governance in Africa, una domanda migliore dovrebbe essere se i principi della buona governance siano coerentemente e uniformemente applicati in tutti i paesi africani dalle nazioni occidentali che accusano la Cina di ignorare la pessima governance e le violazioni dei diritti umani. I conflitti di governance che sono emersi dopo gli interventi militari occidentali in paesi come la Libia indicano che il mantra della buona governance sia basato su doppi standard in base agli interessi occidentali, che creano nuovi conflitti e pessima governance.

Nonostante tutto questo, un numero di studi che comparano gli investimenti cinesi e occidentali mostrano che gli investitori cinesi pagani salari inferiori rispetto agli occidentali e che le condizioni di lavoro imposte sono estremamente onerose. Ci sono reali questioni sollevate sul trattamento razzista dei lavoratori africani da parte degli imprenditori stranieri e ci sono stati conflitti significati, anche se isolati, sulle condizioni di lavoro e i bassi salari. Le regolazioni generalmente deboli del lavoro nei paesi africani sono state una fonte importante di trasgressione da parti dei capitali stranieri.

La lotta per la terra africana

Il recente aumento dell’acquisizione su larga scala della terra da parte di entità straniere è un’altra area in cui si crede che la presenza cinese sia molto aumentata. Se si esaminano i dati sul land grabbing in Africa (vedi Tabella), la Cina non risulta essere il maggiore attore. La Cina e l’India, insieme alle altre semi periferie (come Turchia e Paesi del Golfo) hanno tentato di acquistare meno del 40% delle terre sottratte.


Invece, gli attori dominanti sono le multinazionali americane, europee e scandinava (relativamente nuove nella corsa alle terre).
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La Cina non domina il land grabbing nella maggior parte dei paesi africani, nonostante le sue grandi riserve estere. Per esempio, in Etiopia è l’India il più grand accaparratore di terre. Nel Sudan del Nord e del Sud, gli attori dominanti sono le multinazionali occidentali. In Tanzania sono i paesi europei.

La dinamica della corsa alle risorse africane è diventata più complessa di quanto sia spesso riconosciuto. Per esempio, un paio d’anni fa i media hanno riportato che il governo americano stava concludendo accordi con l’India per perseguire investimenti di trasformazione agricola in Africa. C’è anche il Giappone, che insieme al Brasile ha effettuato uno dei più grandi accaparramenti di terra, nel nord del Mozambico. Risolvere la questione agraria dell’Africa è una delle più grandi questioni del presente, con il suo sottotraccia di povertà e fame in tutto il continente. L’alienazione della terra africana non offre nessuna reale opportunità nell’affrontare questi problemi.

Il land grabbing diventa sempre più problematico ma non è un fenomeno pan africano, si concentra in circa nove paesi africani. I maggiori attori stranieri (inglesi, cinesi, americani, europei, paese del Golfo) sono tutti presenti in questi paesi (Etiopia, Tanzania, Zambia, Mozambico, Sudan, Mail etc.). Lo sgombero dei popoli legati alla terra e l’incipiente mercificazione della terra stessa, sta diventato uno dei problemi principali. L’accumulazione primitiva attraverso pressioni extra economiche ha portato grandi segmenti di terra africana sui mercati globali e approfondisce la presenza di lavoro salariato in questi luoghi.

C’è una sostanziale resistenza al land grabbing in alcuni di questi paesi, anche dove è stato più presente il fenomeno. Nei passati 15 anni ci sono stato tentativi non andati a fine per via delle resistenze interne in paesi come la Tanzania e il Madagascar. In Etiopia le lotte hanno fatto sì che si attuassero meno piani di grabbing. La resistenza assume forme diverse, incluso il sistema di proprietà consuetudinaria della terra che, pur escludendo dalla proprietà chi non appartiene alla comunità locale, è un’importante istituzione nella difesa dal land grabbing. Per questo l’agenda di liberalizzazione dell’economia dagli anni ’80 ha tentato, senza successo, di trasformare le terre di proprietà consuetudinaria in terre da mettere sul mercato, acquistabili e affittabili. In alcuni stati, dove il land grabbing è comune, per forzare l’alienazione delle terre a favore degli investitori stranieri è stato necessario usare il potere statale di espropriazione.

Il controllo geopolitico e militare a sostegno della corsa alle risorse

La presenza cinese in Africa è cresciuta anche nei termini delle più ampie relazioni internazionali nell’evoluzione dell’architettura di sicurezza africana, nonostante il limitato ruolo cinese nella cooperazione militare. Anche se è cresciuta l’influenza geopolitica cinese in Africa, questo tipo di relazioni non sono state messi al centro dell’attenzione. Ci sono casi significativi in cui la Cina ha giocato un ruolo geopolitico influente nel bilanciare e mediare la relazioni esterne, per esempio durante i processi di cambiamento di regime promossi dalle nazioni occidentali, come in Sudan e in Zimbabwe, la Cina ha fornito copertura politica per evitare interventi esteri eccessivi, inclusi quelli di natura militare. Alcuni paesi si sono spinti a pronunciare pubblicamente una politica di “sguardo a est “per riequilibrare le relazioni politiche con l’Occidente. In particolare, il sostegno cinese ad alcune risoluzioni al Consiglio di Sicurezza dell’ONU non ha solo fornito copertura politica, ma ha anche promosso la solidarietà sud-sud su alcune importanti questioni politiche, anche se con contraddizioni.

Il Sud Africa ha giocato un ruolo importante nel dare allo Zimbabwe la copertura politica contro il cambiamento di regime desiderato dall’Occidente, contro le sanzioni e insieme alla Cina anche contro il tentativo di intervento militare. Sia il Sud Africa sia la Cina hanno fornito un limitato sostegno finanziario per rivitalizzare l’economia. Questo è avvenuto nel contesto dell’Africa meridionale in cui il patto di mutua difesa SADC è una delle strutture regionali di cooperazione. Il patto di difesa venne siglato dopo la Grande Guerra Africana (la guerra nella Repubblica Democratica del Congo) in cui paesi come lo Zimbabwe, l’Angola e la Namibia hanno sostenuto l’invasione statunitense del Rwanda e dell’Uganda. Questo sottolinea l’importanza di comprendere la militarizzazione delle relazioni esterne dell’Africa.

L’attuale corsa all’Africa include una crescente militarizzazione dei rapporti tra l’Africa e l’Occidente. Stiamo assistendo all’inizio di una riconfigurazione dell’architettura internazionale nelle relazioni militari in Africa, con i tentativi in espansione degli Stati Uniti di costituire un Comando Africano – tentativi che continuano da metà degli anni ’90, ma sono aumentati dal 2005. Si può osservar una nuova e grande presenza di attività militare USA nelle diverse regioni africane. La competizione per il controllo e l’influenza sullo sfruttamento delle risorse energetiche africane è strettamente legata all’allargamento a breve e lungo termine dell’architettura della NATO nel Sud Globale.

La militarizzazione delle relazioni esterne dell’Africa fa parte di una più larga ri modulazione della vecchia architettura di sicurezza della Guerra Fredda. Storicamente, paesi come il Sud Africa, l’Egitto, la Repubblica Democratica del Congo e il Kenya sono stati pilastri fondamentali della NATO, sotto la guida degli USA attraverso il comando in Europea. Vari paesi africani, fino agli anni ’80, sono stati teatro di scontro della Guerra Fredda, con Cina e URSS che sostenevano i movimenti armati di liberazione nazionale in Angola, Zimbabwe, Namibia e Sud Africa. In effetti l’URSS, non la Cina, ha avuto una grande presenza militare in Africa fino al 1980.

Dall’indipedenza del Sud Africa, la regione dell’Africa meridionale è stata vista come sempre più instabile. Si considerava che l’Africa avesse minato alla base il regime di sicurezza occidentale che era stato protetto dal dominio coloniale, con le nuove relazione politiche del Sud Africa viste come meno affidabili rispetto al regime dell’Apartheid.

In più, la riforma agraria e lo scontro con la comunità dei coloni europei in Zimbabwe è stata vista dagli occidentali come una fonte di “instabilità politica” che danneggiava gli equilibri precedenti. Un altro dei pilastri della sicurezza nell’Africa meridionale è stato scosso dalle rivolte che hanno rovesciato Mobutu e creato la Repubblica Democratica del Congo sotto Kabila. I paesi che hanno difeso la RDC (per esempio Zimbabwe e Angola) contro la guerra mossa dal Rwanda e dall’Uganda col sostegno occidentale, sono diventati una spina nel fianco degli USA che a loro volta hanno cercato di ricostruire il proprio regime di sicurezza nell’Africa centrale. Alcuni di questi paesi hanno ricevuto sostegno solo dalla Cina, nella forma di prestiti e investimenti, sostegno alle Nazioni Unite e forniture militari.

Questa dimensione militare della corsa all’Africa riguarda anche la guerra in Costa D’Avorio di più di 15 anni fa, e successivamente in Libia. Un punto di vista suggerisce che in Costa D’Avorio l’intervento militare francese rifletta una contesa tra capitali francesi e americani nell’industria del cacao, con l’intenzione del governo nazionalista dell’allora presidente Gbagbo di aprire l’industria a una platea più larga di investitori interni e stranieri. Una nuova rivalità è emersa tra le imprese petrolifere occidentali e cinesi alla ricerca di concessioni. Le Nazioni Unite hanno sostenuto uno dei partiti politici [quello di Ouattara, che ha corso contro Gbagbo alle elezioni presidenziali del 2010, NdT] sulla regolarità del processo elettorale. Il successivo intervento militare francese aveva parzialmente lo scopo di coltivare queste rivalità a proprio favore.

Similarmente, anche il Ghana è stato coinvolto nella corsa al petrolio tra interessi cinesi e americani, lì le pressioni politiche americane sono state usate per revocare concessioni alla Cina. Similarmente, in Sudan la presenza di capitali cinesi, russi e occidentali ha creato una rivalità sulle risorse energetiche su cui è stata costruita la militarizzazione del conflitto politico. La militarizzazione della corsa alle risorse africane è ovvia anche nel caso della Libia. Lo Zimbabwe è un caso unico in cui non ci sono preziose risorse energetiche, ma una grande varietà di minerali richiesta dalla Cina e dall’Occidente (platino, oro, cromo, uranio, carbone, gas, diamanti e così via). Data la nazionalizzazione delle terre, delle risorse naturali e dei minerali in Zimbabwe dal 2000, e la concessione di alcune di queste a imprese statali cinesi, russe e locali, il paese è stato continuamente colpito dalle sanzioni occidentali, comminate in nome della violazione dei diritti umani.

La presenza cinese in Africa è sempre più visibile anche dai vari strumenti di proiezione del soft power, inclusi gli aiuti e gli scambi culturali. Le attività culturali ufficiali come i corsi di lingua e l’educazione universitaria per gli africani fornita dalla Cina sono andati aumentando. Nonostante questo tipo di scambio culturale c’è una persistente tensione razziale tra cinesi e africani nel continente. In molti paesi ci sono delle specie di enclave sociali ed economiche dominate dalle comunità cinesi, con un’integrazione limitata. Questo problema razziale è comunque aggravato dai media sinofobici che costruiscono una gerarchia razziale in cui i cinesi vengono dopo i bianchi, mentre i neri sono sempre relegati al fondo. Ci sono tendenze realmente osservabile di razzismo di cinesi verso gli africani, per quanto siano spesso sopravvalutate.

Conclusioni

Per concludere, cosa dobbiamo pensare per il futuro? La Cina è diventata influente in Africa a livello di commercio, investimenti e relazioni geopolitiche, ma è ben lontano dall'essere un dominatore coloniale. In più, l’Africa è sempre più militarizzata, ma la Cina non è sostanzialmente coinvolta su questo livello. La Cina ha comunque aumentato lo spazio per l’autonomia sovrana dall’Africa.

Issa Shivji ha proposto che i paesi africani dovrebbero riconsiderare e tornare a lavorare sull’idea di non-allineamento nel contesto contemporaneo globale (Shivji 2003). Cioè, ogni paese dovrebbe esaminare l’impatto della cooperazione e degli investimenti occidentali e di quelli sud-sud nei termini di nuovi principi di non-allineamento nello spirito di Bandung2. Significa riconoscere che molti paesi africani sono ancora soggetti alle pressioni delle IFI e degli aiuti e crediti occidentali, che hanno limitato l’autonomia sovrana dei paesi africani. Significa sviluppare nuove forme di solidarietà e cooperazione e rafforzare la resistenza. Quindi, l’Africa deve ridefinire i suoi impegni internazionali col Sud Globale, inclusa la Cina.

Riferimenti bibliografici

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AU/ECA, 2014. Illicit Financial Flow: Report of the High Level Panel on Illicit Financial Flows from Africa. Commissioned by the AU/ECA Conference of Ministers of Finance, Planning and Economic Development. http://www.uneca.org/sites/default/files/PublicationFiles/iff_main_report_26feb_en.pdf

Cheru, Fantu, e Cyril Obi, eds. 2010. The Rise of China and India in Africa: Challenges, Opportunities and Critical Interventions. London/New York: Zed books.

GFI (Global Financial Integrity) e AfDB (African Developement Bank). 2013. “Illicit Financial Flows and the Problem of Net Resource Transfers from Africa: 1980–2009.” http://www.gfintegrity.org/storage/gfip/documents/reports/AfricaNetResources/gfi_afdb_iffs_and_the_problem_of_net_resource_transfers_from_africa_1980-2009-web.pdf

Moyo, Sam, Paris Yeros, e Praveen Jha. 2012.“Imperialism and Primitive Accumulation: Notes on the New Scramble for Africa.” Agrarian South, Journal of Political Economy 1 (2): 181−203

Moyo, Sam, Praveen Jha, e Paris Yeros. 2013. “The Classical Agrarian Question: Myth, Reality and Relevance Today.” Agrarian South Journal of Political Economy 2 (1): 93−119. Shivji, Issa. 2003. “The Struggle for Democracy.” Marxists Internet Archive. https://www.marxists.org/subject/africa/shivji/struggle-democracy.htm

Note:

1 https://www.cadtm.org/Subimperial-BRICS-enter-the-Bolsonaro-Putin-Modi-Xi-Ramaphosa-Era

2 Si riferisce alla Conferenza Afroasiatica di Bandung convocata nel 1955 da Cina e India con la partecipazione di molti paesi africani neo-indipendenti [NdT].

Fonte