Come sarebbe andata a finire lo si poteva capire già nella notte di domenica, quando Giusppe Conte, rivolgendosi all’olandese Mark Rutte, ha detto: “Il mio Paese ha una sua dignità. C’è un limite che non va superato”, aggiungendo il dubbio che “si voglia piegare il braccio a un Paese perché non possa usare i fondi”.
In quel momento è stato inevitabile ripensare ad Alexis Tsipras, in un’altra notte di luglio, quella del 2015, che nella stessa sede (solo qualche faccia diversa) si era alzato togliendosi la giacca per porgerla alla Merkel sbottando: «A questo punto, prendetevi anche questa...»
Poi, com’è noto, la Troika si precipitò rapace su Atene, assumendone il pieno controllo e dando il via al saccheggio di tutto quel che di pubblico poteva essere svenduto (porti, aeroporti, centrali elettriche, ecc), tagliato (salari, sanità e pensioni), impegnato.
All’Italia di Conte è andata leggerissimamente meglio, in apparenza, visto il diverso peso economico in Europa – terza economia dell’Unione – che renderebbe il tracollo senza freni di questo Paese un detonatore devastante per tutti, più della pandemia.
Ma per separare con chiarezza la realtà di quanto “concordato” dalla “narrazione” che ne viene fatta già a botta calda, sarà bene vedere i singoli punto del compromesso finale, firmato alle 5:32 del mattino, al quinto giorno di un vertice che doveva durarne due.
Il “successo” della UE sta solo nel fatto che ne sia stato firmato uno, cosa che ad un certo punto sembrava persino improbabile. Ma nessuno dei 27 leaderini spaventati e feroci poteva tornare a casa senza questo risultato. Avrebbe significato la fine di un sistema di trattati e istituzioni, sanzionato pesantemente dai “mercati” e quindi un moltiplicatore degli effetti negativi della pandemia che avrebbe alla fine travolto anche chi si sente meno esposto.
La dimensione del Recovery Fund
Qui si consuma tutta la “vittoria” del povero Conte. Alla fine viene confermata la cifra di 750 miliardi complessivi, 390 dei quali in “trasferimenti” (dovevano essere 500, definiti impropriamente “a fondo perduto”) e 360 in normali prestiti (e relativo aumento del debito pubblico).
Per l’Italia, viene detto con grande enfasi su tutti i canali, c’è addirittura una cifra superiore alle attese. Almeno sul piano astratto. 209 miliardi, invece degli originari 170, anche se con una ripartizione parecchio diversa tra trasferimenti (grants, 81 miliardi) e prestiti (loans, 127). La differenza è quasi 38 miliardi, ossia quelli ottenibili con il famigerato Mes, ma con condizioni pressoché identiche, se non anche peggiori (lo sapremo da un esame più dettagliato).
Da dove vengono fuori questi soldi, lo abbiamo spiegato molte volte e dunque non ci dilunghiamo nei dettagli. Vengono reperiti sui mercati tramite “titoli europei”, garantiti dai singoli Stati pro quota, in percentuale sul Pil. In questo senso, si tratta di una “condivisione del debito” una tantum, limitatamente a questo episodio che si vorrebbe irripetibile.
Dunque neanche la parte “a fondo perduto” è fatta di “soldi regalati”. Anzi, si tratta di “soldi nostri” che possono essere spesi solo col permesso altrui e secondo “direttive” che, come quasi sempre, ci massacrano come popolazione.
Ogni paese dovrà versare la sua parte – sotto forma di interessi sul debito comune, e il normale rimborso a scadenza dei titoli, quindi nel futuro più o meno lontano – e ricevere una percentuale leggermente diversa a seconda della gravità dei danni ricevuti dalla pandemia. Su questa parte, dicevamo altrove, va fatto il calcolo del dare e dell’avere, e vedere se c’è una differenza positiva oppure no.
Non c’è, già secondo il meccanismo originariamente proposto da Merkel, Macron e Von der Leyen. Vedremo di quanto non appena avremo fatto i calcoli con la versione appena firmata.
I meccanismi della governance
Il vero cuore del lunghissimo conflitto è stato su questo punto, in tutta evidenza politico. Nessuno contestava la necessità di un “intervento straordinario”, visto che tutti i Paesi sono stati duramente colpiti dalla crisi. Ma tutti capivano che questa era una straordinaria occasione per riscrivere le gerarchie dei poteri fra i 27 e dentro le istituzioni comunitarie, stabilendo con chiarezza definitiva chi comanda e chi si impoverisce.
Che l’Unione Europea sia soltanto un ring dove partner teorici si scambiano calci sotto la sedia, sgambetti, agguati dietro ogni angolo, per guadagnarci a scapito degli altri (in una “economia chiusa”, almeno in parte, il gioco è sempre a somma zero), lo abbiamo spiegato spesso.
Ma ora si è visto con chiarezza. Per quattro lunghi giorni che hanno messo “europeisti” media mainstream in fortissimo imbarazzo.
Il nocciolo dello scontro, come riferito con disarmante sconforto da ogni inviato a Bruxelles, riguardava il “potere di veto” preteso dall’olandese Mark Rutte su ogni tranche di erogazione del fondo ad ogni singolo Paese (ma in primo luogo all’Italia, eletta a “sorvegliato speciale”, e non da ora). Un meccanismo folle – uno qualsiasi dei 27 avrebbe potuto bloccare tutto in ogni momento, in un inferno di veti incrociati e prevedibili ritorsioni che avrebbe significato la paralisi del Recovery Fund e della stessa UE – che metteva in discussione le stesse istituzioni comunitarie create per questo scopo (Commissione Europea, Eurogruppo, Mes, ecc).
Su questo, non a caso, c’è stata l’ultima sospensione del vertice – intorno alla mezzanotte – per cercare un “compromesso specifico” che accontentasse chi voleva la possibilità di tirare un “freno d’emergenza” e chi, comprensibilmente, riteneva questo “un’offesa alla dignità” del proprio Paese, oltre che una stronzata sul piano istituzionale.
Alla fine la posizione contraria di Conte (condivisa da Spagna, Grecia, Portogallo) è stata schiacciata senza pietà. Segno certo che dietro il gruppetto dei sedicenti “frugali” c’è la ben più potente mano tedesca, che ha usato i “nanerottoli uniti” per imbavagliare un “paese grande” senza doversi esporre più di tanto (anzi, facendo la parte del “poliziotto buono”).
Vediamo il meccanismo infine approvato: quando, in autunno, ogni governo proporrà il suo “Piano nazionale di riforme”, precondizione per accedere al Recovery Fund, la Commissione deciderà entro due mesi se promuoverlo in base a quanto rispetta le indicazioni comunitarie in materia di politiche verdi, digitali e, soprattutto, delle raccomandazioni Ue 2019-2020.
Per l’Italia, in particolare, si tratterà di mettere in campo le riforme di pensioni, lavoro, giustizia, pubblica amministrazione, istruzione e sanità. A scanso di equivoci, visto che si tratta di ridurre sul lungo periodo un debito pubblico che in questo frangente necessariamente aumenta, si parla di tagli draconiani su tutti questi capitoli (che costituiscono del resto, come in ogni paese europeo, il grosso della spesa pubblica). Altro che “autunno caldo”, potremmo avere parecchi anni vulcanici, come temperatura sociale oggettiva...
Fin qui, il giudizio sulla “ammissibilità” o meno dei singoli piani nazionali spettava alla Commissione Europea, insomma il “governo” comunitario guidato dalla von der Leyen.
Ora, accettando di fatto la posizione olandese (e tedesca, altrimenti non sarebbe mai passata), il giudizio di Bruxelles sarà però votato anche dai ministri a maggioranza qualificata. In pratica basta un gruppo di paesi che rappresenta il 35% della popolazione dei 27 a bloccare ogni singola erogazione delle “rate” del Recovery Fund.
I “frugali” non dispongono di quelle dimensioni, perciò è chiarissimo che questo meccanismo prevede l’intervento di un “grande Paese”, con capitale Berlino. A sua discrezione...
Nei fatti, le singole decisioni sui pagamenti della Commissione dovranno essere confermate dagli sherpa dei ministeri delle Finanze della zona euro (Efc) «per consenso»: non proprio un “diritto di veto”, ma qualcosa che ci somiglia molto.
Non a caso, al momento dell’ennesima sospensione notturna, il testo dell’accordo recitava: «se uno o più governi» dovessero vedere «serie deviazioni dai target», avrebbero potuto chiedere che la situazione di un singolo Paese venga poi discussa al successivo Consiglio europeo, mentre la Commissione avrebbe dovuto bloccare i pagamenti.
Al di là dei giochini da azzeccagarbugli – classici, anche a questo livello, visto che la UE è un sistema di “contratti”, più che di trattati – ne esce rafforzatissima la “sorveglianza” sui singoli Paesi, a partire ovviamente da quelli mediterranei, che hanno gli scostamento più significativi rispetto ai parametri di Maastricht.
Lo si vede anche dalla dimensione dei rebates (sconti sui contributi nazionali da versare nella “cassa comune europea”) di cui usufruiscono da anni molti “frugali” e che escono fortemente aumentati da questo “accordo”.
Il tutto con una torsione dello stesso funzionamento istituzionale della UE, perché il baricentro della governance viene spostato dalle strutture comunitarie a “gruppi di Paesi” sufficientemente decisi a inchiodare un “partner” considerato un concorrente da disossare.
Una furbata, in apparenza, ma che rischia di diventare ben presto una miscela esplosiva per tensioni interne che, si è visto, nessuno è in grado di governare davvero con soddisfazione di tutti gli interessi in campo.
La “gestione europeista”
Naturalmente la narrazione subito messa in campo dice l’esatto opposto. “Vittoria”, “isolamento dei frugali” e sciocchezze varie inventate di sana pianta.
Un cerotto su ferite sanguinose che si vedranno a breve termine, peraltro. Già alla fine dell’anno, infatti, ci potrebbe essere il primo stop sulla prima rata da riscuotere – ben che vada – a metà del prossimo anno, quando gli effetti della crisi sul sistema produttivo e la tenuta sociale di molti Paesi, a partire dal nostro, saranno già esplosi.
Che questa narrazione sia fasulla, lo si è visto proprio dagli schieramenti in campo a Bruxelles, dove “europeisti” e “populisti” si sono allegramente mescolati tra loro per affermare, semplicemente, il massimo dell’interesse puramente nazionale.
E altrettanto avviene in Italia, con Berlusconi e Meloni “comprensivi” con il governo e il solo Salvini a fingere una bellicosità critica a fini puramente elettorali.
Il prossimo futuro
I capitoli su cui ogni governo dovrà mettere le mani sono chiarissimi, scritti neri su bianco: pensioni (quelle in essere, visto che quelle future sono già quasi azzerate), istruzione, sanità, mercato del lavoro, amministrazione pubblica e “giustizia” da efficentare per garantire che le imprese non restino impigliate in processi civili dalla durata decennale.
Le “misure impopolari” che anche il governo Conte aveva in preparazione (ma non annunciate, chissà perché...), e che anche Mark Rutte apprezzava, saranno la quotidianità per lungo tempo.
La Grecia del 2015, del resto, è stata sacrificata proprio per costituire un precedente inequivocabile. Ora tocca a noi, e non solo a noi...
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