50 anni fa, la strage di Gioia Tauro, ad opera di 'ndranghetisti e fascisti riuniti insieme nel comitato ”Reggio Capoluogo” e dietro la rivolta di Reggio Calabria seguita alla decisione governativa di collocare il capoluogo di regione a Catanzaro nel quadro dell’istituzione dei nuovi enti regionali, iniziata nel luglio del 1970 e conclusasi nel febbraio del 1971.
Il treno direttissimo Palermo-Torino (detto Treno del Sole) a poche centinaia di metri dalla stazione di Gioia Tauro venne fatto deragliare con l’esplosivo: sei morti e 70 feriti.
Dopo 23 anni di depistaggi, il 16 giugno 1993 due pentiti della ‘ndrangheta cominciarono a deporre le proprie testimonianze di fronte al Sostituto Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, Vincenzo Macrì, nell’ambito della maxi inchiesta “Olimpia 1”, volta a far emergere la rete di rapporti tra politica e mafia organizzata in Calabria.
Stando alle loro affermazioni, nel 1970 in Calabria si erano formate alleanze strategiche tra 'ndrangheta e fascisti. Uno dei due era Giacomo Ubaldo Lauro che sarebbe divenuto un testimone chiave nella vicenda dell’attentato di Gioia Tauro.
La sentenza della corte di Assise di Palmi del 27 febbraio 2001 individuò come responsabili tre esponenti dell’organizzazione neofascista Avanguardia Nazionale – Vito Silverini, Vincenzo Caracciolo e Giuseppe Scarcella – che si erano avvalsi del supporto logistico e dell’esplosivo fornitogli da esponenti locali della 'ndrangheta. Al momento della sentenza, però, i tre fascisti erano già deceduti.
In esito ad ulteriore processo per la strage, nel gennaio del 2006, l’unica condanna emessa nei confronti di uno dei coinvolti ancora vivente fu quella per “concorso anomalo in omicidio plurimo” a carico di uno dei due pentiti, ovvero, Giacomo Ubaldo Lauro. Nel frattempo, però, il reato era estinto per prescrizione.
Il giudice milanese Guido Salvini, nella sua sentenza di condanna contro i fascisti di Avanguardia Nazionale, sostenne la necessità di riaprire l’inchiesta sugli “Anarchici della Baracca” morti ufficialmente in un “incidente d’auto” il 26 settembre del 1970 quando, sulla strada per Roma, la Mini Morris su cui stavano viaggiando venne investita da un autotreno.
I loro nomi: Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso, Annalise Borth. I cinque, giovanissimi, durante la “Rivolta di Reggio” avevano scattato foto, raccolto centinaia di documenti e denunciato pubblicamente la strumentalizzazione della Rivolta di Reggio da parte dei fascisti di Ordine Nuovo e di Avanguardia Nazionale.
Quel 26 settembre si stavano dirigendo a Roma, con quei documenti scottanti. Aricò aveva detto, poco tempo prima, alla madre: “abbiamo scoperto delle cose che faranno tremare l’Italia”. Quelle “cose” a cui alludeva Aricò erano importanti informazioni sui retroscena della strage di Gioia Tauro e sulla “Rivolta di Reggio”.
I primi giorni di quel settembre avevano avvisato la Federazione Anarchica di Roma di essere riusciti a raccogliere molto materiale compromettente. Gianni e i suoi compagni avrebbero dovuto consegnare alla redazione del settimanale anarchico “Umanità Nova” il loro dossier e secondo alcune testimonianze nelle stesse mani dell’avvocato Di Giovanni, coautore della “Strage di Stato” e di altre importanti controinchieste. A Roma non arrivarono mai.
27 anni di indagini e processi hanno messo nero su bianco i nomi degli esecutori materiali ma non sono bastati ad individuare tanto i mandanti della strage quanto gli autori dei successivi depistaggi, compreso quello strano “incidente” in cui persero la vita i cinque giovani anarchici di Reggio Calabria.
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