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26/07/2020

Le mele marce e la loro cesta

I dieci carabinieri di Piacenza sembrano usciti dalla stessa fogna di quelli della Uno bianca, degli assassini di Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi, dei macellai della Diaz di Genova, nonché di altri che nel corso di questi decenni hanno dato prova di quanto l'uniforme non rappresenti affatto una garanzia contro il peggio che un essere umano può esprimere. Il ritornello scontato è quello delle mele marce, ma in tutti i casi di crimini commessi da agenti delle forze dell’ordine, diversi altri militari hanno coperto le loro malefatte e i loro superiori hanno deciso di voltare la testa altrove. Nel caso di specie, solo l’indisponibilità di uno dei loro sottoposti a continuare a tacere, ma costretto dalla generale omertà a recarsi in altra località per poter sporgere denuncia, ha reso possibile per l’autorità giudiziaria scoprire il verminaio. Nonostante l’evidenza di tenori di vita incompatibili con gli stipendi percepiti, i vertici dell’Arma non vedevano, non indagavano, erano concentrati sul numero di arresti utili alle statistiche. Purtroppo, non c’è controllo sulla mancanza di autocontrollo, non c’è vigilanza sull’indifferenza complice.

Mentre si attende con trepidazione diciannovista la virile solidarietà di Salvini e Meloni con gli uniformati, è bene ricordare che l’avvocato difensore di Montella, che sarebbe il capo della banda criminale di Piacenza, è l’ex candidato sindaco a Piacenza di Forza Nuova. Il che, ovviamente, non comporta un giudizio: ogni imputato, quale che sia la specie dei reati, ha diritto ad una difesa e ad un processo equo: ma il fatto che l’avvocato difensore scelto sia di Forza Nuova racconta, direttamente ed indirettamente, chi sono i carabinieri/spacciatori/torturatori. Non che vi fossero dubbi, ascoltate le intercettazioni, ma la scelta del legale e l’impianto ideologico ne confermano il profilo criminale.

Diversamente da quanto fanno i minimizzatori di professione, che urlano l’ovvio e tacciono il grave, esiste un problema di identità culturale e politica delle nostre istituzioni repressive. Il tanfo di fascismo e intolleranza, infatti, non sta solo nelle intercettazioni telefoniche degli arrestati di Piacenza: in diverse circostanze l’inneggiare di agenti a modelli vergognosi e i relativi comportamenti sono stati colpevolmente sottovalutati. Diversamente da come sarebbe lecito attendersi, in tutta Italia ci sono stanze dei commissariati con simboli e bandiere inneggianti al fascismo e al nazismo, e non ci sono interventi dei vertici per rimuovere questi e chi le ha appese o anche solo tollerate. Nelle stanze dove si organizza il rispetto della legalità si viola la legge Scelba, dove sul muro appare la foto di Mattarella mentre si viola lo spirito e la lettera della Costituzione.

Perché questa identificazione delle forze dell’ordine con il fascismo? Perché, al fondo, si sente una empatia istintiva con chi inneggia al culto della forza e della sopraffazione, con chi rivendica l’impunità per le divise, ponendo lo spirito di corpo su un piedistallo superiore rispetto alle leggi; con chi loda l’abuso quando è commesso da chi la legge dovrebbe farla rispettare. Ci si sente portati alla naturale condivisione verso chi predica la forza contro i più deboli quando si vive calpestandoli. L’ignoranza abissale che circola sotto le uniformi, non riuscendo a immagazzinare concetti, ha bisogno di iniettare odio. Allora si passa dall’interpretazione sgangherata e comoda del machiavellico “fine che giustifica i mezzi”, all’autocompacimento da b-movie di chi si sente ultimo baluardo di una società indisciplinata. Tolleranza zero per gli altri, non per loro, le regole sono quelle che pongono loro ed a loro esclusiva convenienza. A volte la distanza tra impotenza e onnipotenza si copre con un'uniforme.

Sembrano lontani anni luce i processi di democratizzazione dell’apparato repressivo, che con la sindacalizzazione e smilitarizzazione della Polizia prima, e con i Cocer dei Carabinieri poi, che aprirono alla fine degli anni ‘70 un cammino di maggiore integrazione tra la società nel suo complesso e i corpi militari. Non ha affatto aiutato la nomina dei Carabinieri come quarta forza armata ma, in fondo, questa decisione politica non è, di per se stessa, la ragione di tanta devianza.

Il nodo da sciogliere è la sponda politica che in un incastro di reciproci ricatti viene offerta ad ogni impulso autoritario da parte delle forze di Polizia, tentate proprio dall’assenza di controlli e dall’appoggio politico a forzare limiti ed ambiti del proprio operare. Che poi questo sostegno all’insostenibile che viene dalla destra non sia contrastato dal centrosinistra non deve stupire: è divenuta prassi consolidata nel Paese, frutto dell’ormai quasi impercettibile differenza che passa tra due schieramenti che dovrebbero essere invece alternativi. Troppo? E allora provateci a scorgere la differenza tra Minniti e Salvini quando si parla d’immigrazione, o tra Fassino e Meloni in politica estera.

D’altra parte non è un caso che l’Italia sia il Paese dove non esiste il reato di tortura benché gli episodi dove questa si è configurata ai danni di soggetti fermati siano ormai diversi. Come dimostrano i tanti casi simili a Cucchi o Aldrovandi o alla macelleria cilena di Genova alla Diaz, le torture vengono effettuate su casi singoli e collettivi. Il reato non esiste non perché non viene commesso ma perché non identificato: non riconoscerlo riduce la portata del reato ad abuso e ne impedisce la formulazione dell’ipotesi accusatoria più dura, inibendone, in radice, la possibilità di comminare pene dure, che vadano ben oltre la sanzione amministrativa o disciplinare.

E non è un caso se in Italia non si vuole stabilire legislativamente l’obbligo di identificativo degli agenti in servizio di ordine pubblico. Nell’anonimato di una uniforme e di un casco, oltre che di altri strumenti destinati ad occultare l’identità di chi agisce, risiede la prima garanzia di impunità per i trasgressori delle leggi e delle norme che sarebbero obbligati a rispettare, oltre che a far rispettare. Tantomeno è un caso che i responsabili degli abusi e delle torture vengano non solo tenuti liberi ma addirittura promossi a ruoli superiori o a incarichi di prestigio all’esterno, valga per tutti il caso di De Gennaro.

Non ha dunque senso discutere di mele marce, visto che i delinquenti, per fortuna, non sono né totalità, né maggioranza, in qualunque professione o mestiere. Inutile fare sfoggio di retorica imbecille ricordando che i sei carabinieri di Piacenza e i loro complici non debbono offuscare il lavoro dei restanti centomila carabinieri, perché la questione non è quale sia la percentuale di criminali in un corpo che combatte la criminalità, ci mancherebbe pure: si pone invece in termini di controllo legislativo sull’operato di corpi che, per ragioni di servizio (a volte) hanno una ridotta trasparenza sul loro operato e che, per loro natura, tendono ad abusare del proprio potere. Per questo – ma non solo per questo – vanno controllati e disciplinati e non lasciati all’autogoverno.

Saranno pure mele marce ma sarebbe bene non dimenticare le responsabilità del cestino che le contiene, ovvero del sistema. La politica, nel non disporre norme, strumenti e leggi che garantiscano il controllo democratico sull’operare delle forze dell’ordine, rinuncia al suo ruolo e rimanda all’autorità giudiziaria il compito di verificare la liceità dei comportamenti. Non vede, non sente, non parla. Perché così li vuole, perché di questo modello ha bisogno per mantenersi e perpetrarsi.

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