Durante il periodo di emergenza sanitaria le aziende pubbliche e la PA si sono trovate di fronte ad un pericolo e ad una opportunità.
Il rischio di dover fronteggiare, anche penalmente, pericoli di contagio riconducibili ai luoghi di lavoro ha dato una spinta decisiva ad accelerare il processo di inserimento in smart working per un numero importante di lavoratori. Non è stata del tutto una improvvisazione, se già dal 2015 l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano ha “formato un ristretto gruppo di indirizzo sul tema composto da 24 esperti aziendali appartenenti a grandi organizzazioni, dei principali settori merceologici, che rappresenta un punto di riferimento per la gestione delle iniziative di Smart Working”. Improvvisato è stato semmai – per i tempi e per i modi – il ricorso massiccio al lavoro agile (dai 570 mila del 2019 si passa ad oltre 4 milioni nel corso del 2020) fuori da un sufficiente contesto di regole, che rischia di alimentare una scorretta percezione del problema, sulla quale il “padrone” (supportato dall’eletta schiera di “esperti”) sta già speculando.
Ormai giornali, tv e siti vari stanno scrivendo articoli e commenti di ogni genere intorno al telelavoro o lavoro agile, evidenziandone limiti, aspetti positivi e prospettive future; ma è necessario fare chiarezza.
Lo smart working non è lavorare da casa. Non è telelavoro. È una modalità ben diversa, per la quale gli “esperti” dicono manchi in Italia la “cultura necessaria”, da una parte sottolineando l’effettivo ritardo informatico del nostro paese, dall’altra ideologizzando il processo, come se fosse un futuro ineluttabile, da cogliere senza fare resistenza se vogliamo stare al passo coi tempi. In realtà siamo di fronte ad un processo globale e digitale, costruito attraverso programmi di governo, applicazioni e robotica, in atto ormai da alcuni anni. Se Stati, Pubbliche Amministrazioni e molte aziende private sono state colte di sorpresa dall’emergenza Covid, non possiamo dire altrettanto di Amazon, Facebook, Google e Apple e di altri colossi tecnologici (stendendo un velo pietoso sulle teorie nate intorno a Bill Gates che sembra aver ormai superato Soros nelle classifiche complottiste).
Invece è come sempre un problema di regole e di rapporti di forza, di sviluppi tecnologici e di insiemi più generali, di lavoro e di capitale.
Lo smart working o lavoro agile, secondo l’osservatorio, è “una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”. Se non altro, dietro ai fumogeni delle parole, si scrive chiaramente che sono i risultati – e non il lavoro o il tempo dedicato – che pagano il lavoratore.
Più melliflua la definizione che ne dà il Ministero del Lavoro, definendola come “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
Aiutare il lavoratore a conciliare i tempi di vita e di lavoro è una affermazione gravida di possibili conseguenze.
La prima sono le perline colorate del titolo: il lavoratore si affezionerà probabilmente ben presto a questa modalità, cogliendone gli aspetti immediati di vantaggio (i tempi ed i costi di spostamento casa-lavoro, la possibilità di far fronte ad esigenze di cura, figli e anziani, l’elasticità dei tempi di lavoro non più legati al timbrare il cartellino...) e difficilmente nel tempo vorrà tornare indietro.
Ed è immaginabile che nel frattempo il rimbombo mediatico, il tam-tam “formativo” delle aziende lo condurrà ad un consenso di fondo.
Una volta stabilita questa forma, è immaginabile che avvenga una contrazione dell’offerta sociale e di welfare (asili, pensionati, trasporti) che renderà a quel punto impossibile tornare indietro.
Anche per le possibili conseguenze sulla “organizzazione delle città”, che, private del normale traffico di lavoratori, si avvieranno verso una progressiva desertificazione dei centri storici e dei quartieri industriali e direzionali, con notevoli ricadute occupazionali:
“I dati negativi si vedono nei bar (il 67% dei lavoratori fa colazione nei bar, il 75% pranza in ristoranti tavole calde, bar e simili) un altro 80% acquista quotidianamente prodotti dolciari, cancelleria ed oggettistica nei negozi o riviste nelle edicole una percentuale (non superiore al 20%) ne approfitta per fare acquisti nei negozi di abbigliamento, librerie ecc.), ci rimettono anche i benzinai che vedono ridotte le opportunità di lavaggio auto e piccole riparazioni ai veicoli.” (Documento Confesercenti 9.7.2020)
A questo punto si apre lo scenario più preoccupante: se il rapporto tra dipendente e datore di lavoro si misurerà per obiettivi, con quali regole e con quali tipi di valutazione si dovranno calare questi obiettivi? Saranno compatibili con un normale orario lavorativo o la loro “raggiungibilità” finirà per mangiarsi ogni momento di vita del lavoratore?
Se il punto di equilibrio di un contratto di lavoro sarà il raggiungimento di un obiettivo, il padrone non avrà infinita possibilità di sfruttamento tra la carota dell’incentivo economico ed il bastone del licenziamento?
Il tutto in una situazione di sostanziale isolamento da parte del lavoratore, che vivrà l’atomizzazione della propria condizione e del proprio diritto di rivendicazione.
Il laboratorio sociale che si chiama smart working – dalla immediata e confusa spinta dovuta all’emergenza sanitaria – va quindi verso:
- immediato recupero di risorse (il lavoratore utilizza la propria casa, il proprio PC, la propria connessione per esigenze di lavoro);
- atomizzazione del lavoratore con conseguente impoverimento della contrattazione e della solidarietà (anzi sempre più nella direzione di essere “imprenditore” di sé stesso, come già si vede ad esempio tra i “padroncini” della Logistica, altro laboratorio sociale di primaria importanza);
- rapporto di lavoro basato su obiettivi (con conseguente innalzamento del livello di sfruttamento);
- perdita definitiva del momento relazionale e umano in una società che già si sta avviando verso una completa e pervasiva dipendenza digitale in cui non vi è più differenza tra il tempo destinato al lavoro e quello della propria vita personale;
- ulteriore aggravamento della condizione di genere, perché finisce per colpire maggiormente le donne diventando “la modalità per massimizzare e combinare lavoro subordinato e lavoro di cura in un ciclo continuo che si interrompe solo nelle ore di sonno” (Dinamo Press Clap – Camere del lavoro Autonomo e Precario).
Il contrasto del sindacato e delle associazioni verso tutto questo si sta incagliando su dettagli che non sfiorano neanche gli obiettivi padronali: il cosiddetto “diritto alla disconnessione”, cioè rivendicare la netta separazione tra vita privata e vita professionale, pur essendo in teoria sacrosanta, non avrà alcuna forza di fronte al ricatto del risultato ad ogni costo.
Inoltre nessuna rivendicazione sul lavoro agile avrà un senso se non si lega a una lotta e a una riflessione sul salario minimo, sul reddito di base, sulla possibilità di lavorare tutti e sul lavoro e sulla tecnologia in generale, su cosa e per cosa si deve produrre e su come dobbiamo difendere le nostre vite*.
Invece “occorre stabilire, tramite la legge o tramite i contratti collettivi, un perimetro di sicurezza oltre il quale il datore di lavoro non può spingersi nel suo tentativo di sfruttare la sua posizione di forza. Sarebbe, però, una pia illusione pensare che ciò possa avvenire per gentile concessione dei poteri dominanti e dei loro portaborse. Messi di fronte a vecchi e nuovi attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori e vecchie e nuove forme di sfruttamento, dobbiamo farci trovare compatti a difesa delle nostre vite, dei nostri diritti e dei nostri salari” (Coniare rivolta).
Fonte
*Assurdo che tra queste riflessioni non venga citata quella che nei fatti è la madre di tutte, ovvero la proprietà dei mezzi di produzione, compresi quelli digitali che stanno qualificando lo smart working in tutte le sue criticità per i lavoratori.
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