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23/07/2020

Autostrade: cambiare poco per non cambiare nulla

Si è molto discusso, sin dai giorni immediatamente successivi al disastro del Ponte Morandi di Genova, delle responsabilità di Aspi (Autostrade per l’Italia) in qualità di concessionaria. Aspi è una società per azioni, posseduta, in gran parte, dalla famiglia Benetton, che gestisce in concessione, per l’appunto, molte delle autostrade italiane, direttamente o tramite società controllate.

Con una concessione, lo Stato (o, in generale, una pubblica amministrazione) affida la gestione (e, se necessario, anche la costruzione) di una infrastruttura a una società privata. Quest’ultima, in cambio dei proventi derivanti dalla gestione (nel nostro caso soprattutto i pedaggi autostradali), si impegna a far funzionare tale infrastruttura secondo logiche e regole stabilite dalle leggi e dagli atti di concessione. Generalmente, la società concessionaria è anche responsabile della manutenzione dell’opera.

Aspi, dunque, gestiva (e ancora gestisce) quel tratto di A10 che comprendeva il Ponte Morandi, in parte disastrosamente crollato il 14 agosto del 2018, con 43 morti e oltre 500 sfollati.

Sin da subito, dicevamo, il Movimento 5 Stelle, all’epoca al governo con la Lega, dichiarò di voler ritirare le concessioni autostradali ai Benetton. Il 24 maggio ancora lo ribadiva, in maniera esplicita, il viceministro alle Infrastrutture Cancelleri. Nel Governo, però, non c’era accordo, perché i principali alleati del M5S, ovvero il PD e Italia Viva, si dicevano contrari al ritiro delle concessioni. Ciò anche in virtù del fatto che Aspi minacciava cause che avrebbero potuto comportare, per lo Stato, esborsi a nove zeri.

Nel frattempo, ciò che restava del Ponte Morandi è stato demolito e, al suo posto, è stato costruito un nuovo viadotto. Il Governo ha tenuto fuori Aspi da qualsiasi gara per la costruzione della nuova infrastruttura. La società del gruppo Benetton, attraverso il Tar della Liguria, aveva provato a far dichiarare incostituzionali le disposizioni che avevano escluso Aspi dalla partecipazione alle gare per la ricostruzione. La Corte Costituzionale, però, ha dato ragione al Governo.

In questo contesto, si sono svolte trattative tra il Governo e la società della famiglia Benetton, volte a trovare un punto di equilibrio tra le due posizioni di partenza (revoca delle concessioni e mantenimento della situazione attuale) L’accordo raggiunto nella notte tra il 14 e il 15 luglio è il risultato di tali trattative.

La vicenda Autostrade ha acquisito, comprensibilmente, un significato simbolico che va ben al di là della specifica questione politica, trasformandosi in una battaglia che riguarda la giustizia per le vittime del Ponte Morandi, il ruolo dello Stato nell’economia e il rapporto tra democrazia e capitalismo. Questa ondata emotiva è del tutto comprensibile di fronte alla gravità della questione, ma produce un dibattito che rischia di generare confusione, perdendo di vista gli elementi essenziali.

Al di là degli aspetti giudiziari della vicenda, proviamo dunque a individuare le questioni economiche dirimenti così come i principali interessi – pubblici e privati – in gioco, a partire dall’accordo raggiunto tra Governo ed Atlantia, nella notte tra il 14 e il 15 luglio.

Come si evince dal comunicato del governo, la proposta transattiva presentata da Aspi, che costituisce la base dell’accordo, se da un lato esclude in modo definitivo l’ipotesi della revoca della concessione, a meno di inadempienze da parte della stessa Aspi rispetto ai punti qualificanti del programma, dall’altro sembrerebbe porre fine alla sciagurata gestione avviata col processo di privatizzazione iniziato nel 1999 e descritta nel dettaglio nel nostro dossier autostrade, aprendo la strada alla nascita di una nuova società, che avrà come azionista di maggioranza Cassa Depositi e Prestiti (CDP).

Vediamo se le cose stanno davvero così.

Un compromesso accettabile o una nazionalizzazione mancata?

Per rispondere a questa domanda è necessario analizzare i punti salienti dell’accordo, innanzitutto alla luce del nuovo assetto societario. L’accordo prevede “l’immediato passaggio del controllo di Aspi a un soggetto a partecipazione statale (CDP)”, che diventerà primo azionista di Autostrade insieme ad altri soci istituzionali, arrivando a detenere, complessivamente, il 51% delle quote.

Ad oggi, la famiglia Benetton controlla – attraverso la holding finanziaria Edizioni Srl – il 30% di Atlantia Spa e – tramite quest’ultima – l’88% di Aspi. La famiglia trevigiana possiede dunque il 26% di Aspi, ma secondo l’accordo dovrebbe ridurre il proprio peso, arrivando a detenere circa il 10-12% delle azioni della nuova società, una volta che questa sarà quotata in borsa alla fine del processo transattivo. Tale soglia è cruciale poiché è quella sotto la quale si è esclusi dal CdA, ma su questo punto, come su altri, il condizionale è d’obbligo, a causa della vaghezza dell’accordo e della mancanza di documenti ufficiali che consentano un’analisi più dettagliata.

La riduzione del peso dei Benetton avverrà innanzitutto tramite un aumento di capitale di circa 3-4 miliardi di euro riservato a Cdp, che otterrebbe di conseguenza il controllo sul 31-33% della nuova società, una volta ricapitalizzata. Si prevede inoltre la cessione diretta da parte di Atlantia di una quota (presumibilmente) tra il 20-24% delle azioni Aspi a investitori istituzionali di gradimento pubblico, escludendo la possibilità di destinare i proventi alla distribuzione di dividendi. Si prevede infine la separazione di Aspi da Atlantia, i cui azionisti valuteranno la vendita delle quote Aspi, con conseguente aumento del flottante, ossia delle azioni liberamente commerciabili sul mercato secondario.

Nonostante le dichiarazioni di vari esponenti del governo – i ministri Gualtieri e De Micheli per il PD e il Ministro Di Maio per il M5S – circa l’estromissione definitiva dei Benetton da Aspi, il processo transattivo descritto consente alla famiglia trevigiana di mantenere circa il 10% della nuova società, beneficiando dei relativi dividendi dopo la quotazione in borsa. Come se non bastasse, la cessione a prezzo di mercato di circa il 22% di Aspi frutterà un bel po’ di quattrini ad Atlantia (2,6 miliardi) e ai Benetton (690 milioni). Un bel sospiro di sollievo dopo che il Decreto Milleproroghe aveva aperto la strada alla revoca, costando ad Aspi il rating spazzatura da parte delle principali agenzie internazionali e l’incapacità di finanziarsi sui mercati. Una società messa alle strette dal rischio revoca e dalla caduta drastica del valore delle proprie azioni, è stata non solo salvata, ma anche compensata, nonostante le evidenti responsabilità circa il decadimento dell’infrastruttura autostradale pubblica. Evidenti responsabilità che riflettono un comportamento deliberato e ben preciso: comprimere al massimo i costi per massimizzare i profitti, senza troppe preoccupazioni per l’incolumità delle persone.

Più del trattamento riservato ai Benetton, tuttavia, ciò che conta è il nuovo assetto della concessionaria e le sue conseguenze sulla gestione dell’infrastruttura. Si è discusso molto in questi giorni della nascita di una nuova public company, festeggiando l’evento come se ci fossimo ripresi un’autostrada (questo dice molto del livello del giornalismo italiano).

Una public company è una società quotata ad azionariato diffuso, ossia una società le cui azioni sono distribuite tra molti soci, che non possono superare una certa soglia (5-10%); non è una società di proprietà pubblica. Ma soprattutto, la nuova società avrà in CDP un azionista di maggioranza con una quota rilevante, quindi Aspi non sarà una public company, bensì una società privata quotata in borsa e controllata per il momento da CDP e dunque dallo Stato. Il riassetto non mette in discussione la concessione e il coinvolgimento di interessi privati nella gestione di autostrade, cui rimangono delle quote, ma garantisce una presenza pubblica significativa all’interno della concessionaria. Qualsiasi valutazione sull’operato della concessionaria dipenderà dall’azione di CDP e dalla distribuzione definitiva delle quote.

Un compromesso al ribasso che lascia inalterate le dinamiche di fondo del rapporto pubblico/privato

Il riassetto societario di Aspi costituisce, forse, l’uscita di scena dei Benetton, la cui gestione votata al profitto ha causato tragedie come quella del Polcevera. Tragedie in virtù delle quali si è iniziata a mettere in discussione la gestione delle infrastrutture da parte dei privati. Tuttavia, siamo ben lontani dall’inversione di tendenza necessaria a ripristinare la gestione pubblica di una risorsa collettiva: nessuna nazionalizzazione si è magicamente verificata. Questa richiederebbe una gestione diretta dell’infrastruttura e la revoca della concessione, l’unica in grado di far transitare profitti e dividendi dalle tasche dei privati – chiunque essi siano – alle casse pubbliche.

Purtroppo, il business delle concessioni all’italiana è ancora vivo e vegeto. Non a caso si discute del possibile coinvolgimento del fondo australiano Macquire o dei fondi statunitensi Blackrock e Blackstone. Come ogni società quotata, Aspi continuerà a rispondere alla logica del mercato, basata sulla massimizzazione degli utili e la distribuzione di dividendi tra gli azionisti. Per di più, è di tutta evidenza che anche le quote “sottratte” (per così dire, dato il lauto compenso) ai Benetton potrebbero, una volta che se ne determinino le condizioni, andare ad altri soggetti privati per decisione degli organi di governance di CDP (controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze).

Ci si poteva aspettare di più? Probabilmente no, data la contiguità, più o meno stretta, tra i partiti che compongono l’arco costituzionale e pezzi più o meno grandi dell’economia e della finanza del Paese. La revoca, complici anche i rischi derivanti dalle minacce di richieste di risarcimento da parte dei Benetton, non è mai stata, parlando realisticamente, l’obiettivo di Conte né dei partiti che sostengono il suo governo. Il compromesso raggiunto porta, è vero, lo Stato a controllare un 51% di Aspi, ma lo lascia, in prospettiva, nella sua posizione di subalternità e di tutela del profitto, in un ruolo di sussidiarietà in un campo in cui, invece, dovrebbe esercitare la piena titolarità dei suoi poteri.

Non dobbiamo, dunque, prenderci in giro parlando di nazionalizzazioni. Non possiamo rassegnarci all’ipotesi di un accordo alla meno peggio. Né, tantomeno, possiamo pensare che la sostanza dell’incestuoso rapporto tra pubblico e privato sia stata anche marginalmente scalfita dalla conclusione di questa vicenda. Il sistema delle concessioni, che tanto ha arricchito quei privati che, nel tempo, si sono aggiudicati la gestione di aziende di Stato e infrastrutture, non viene minimamente intaccato.

Se vogliamo, questa è la plastica dimostrazione di quello che è sempre stato il ruolo del Movimento 5 Stelle: la “risoluzione” della vicenda Aspi, infatti, dimostra ancora una volta che il fu partito di Grillo, lungi dal rappresentare davvero un momento di rottura nella politica italiana e nella gestione del potere economico e politico, è intenzionato, tutt’al più, a concentrarsi su singole battaglie contro singoli capitalisti (e, magari, a favore di altri), senza alcuna intenzione di cambiare davvero lo status quo. Ancora una volta, i pentastellati ci presentano come una rivoluzione quello che è semplicemente un cambio della guardia: via i Benetton, dietro pagamento delle loro quote in Aspi, dentro altri. Altro che revoca delle concessioni!

Molti osservatori, anche a sinistra, hanno infatti salutato con gioia la prospettata riduzione del peso della famiglia Benetton in Aspi, ma il problema non sono le varie “famiglie Benetton” del capitalismo italiano. Il problema è la gestione privata delle autostrade e delle infrastrutture di interesse pubblico. Più in generale, è il fatto che in settori strategici e infrastrutturali, lo Stato, pur restando presente come controllore, svolge un ruolo di subordinazione rispetto all’esigenza di valorizzazione del capitale privato. Questo, e non la battaglia contro il singolo gruppo economico-finanziario, è il nocciolo della questione. Dobbiamo dire a chiare lettere che a essere spazzata via deve essere la logica che ha portato al disastro del Morandi, la logica per la quale vengono prima i profitti e poi, forse, la sicurezza e gli interessi pubblici.

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