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I poli opposti del cinema italiano.
Il fatto
Qualche giorno fa, la piattaforma Sky ha trasmesso, in anteprima, l’intensa opera seconda dei gemelli D’Innocenzo (Fabio e Damiano), giovani e promettenti registi romani, nativi di quella Tor Bella Monaca che costituisce una delle punte estreme della complessa periferia capitolina.
Il titolo – Favolacce – di quest’apologo dalle ampie implicazioni sociali, culturali, antropologiche, economiche, storiche e, seppur a margine, necessariamente politiche, sembra succhiare l’essenza stessa della tradizione narrativa propria della fabula.
Un’essenza mai consolatoria, nera, spesso addirittura orrorifica, come ogni fanciullo può intimamente sperimentare nel corso della sua infanzia. Malgrado il cinema e la narrazione, oggi dominanti, tendano a rappresentare la favola come un immancabile, consolatorio, sogno rosa a lieto fine.
Da qui forse – vogliamo alludere con un pizzico di sarcasmo – la necessità del dispregiativo in acce, quale suffisso alle favole che i D’Innocenzo hanno inteso raccontare. Favole feroci, immerse nella lugubre e squallida realtà contemporanea. Favole sporche di sangue e di merda.
La pellicola d’esordio dei due giovanissimi gemelli era stata d’altronde, è bene ricordarlo, l’altrettanto disillusorisae crudele – nel senso che Artaud attribuiva al suo Teatro della crudeltà – La terra dell’abbastanza, del 2018.
Evocazione, per contrasto semantico, di quella Terra dell’abbondanza, firmato nel 2004 da Wim Wenders, e il cui nucleo ideologico era costituito dall’osservazione oggettiva del degrado etico-sociale, in cui versa, da anni, l’impero americano.
Così come in questa wastland – che evoca, per assonanza simbolica, la terra desolata di T.S. Elliot e la crisi irreversibile dell’opulenta società occidentale – viene disegnato e registrato l’abbandono di una periferia romana (ma, se ci si estranea dal dialetto, potrebbe essere Napoli, Milano, Città del Messico o Rio de Janeiro) in cui la vita non lascia scampo ai sogni. Neanche a quelli di una “brillante” carriera criminale.
Solo la rassegnazione, fottutamente realistica, è concessa di fronte ad un misero abbastanza. Ancorché racimolato attraverso l’omicidio o la prostituzione minorile, come fanno i due protagonisti.
Sconfitti da una rinuncia ontologica, imposta alla nascita, quale sovrapprezzo di vite prese a debito. E pagate fino all’estremo sacrificio.
Or bene, andato in onda Favolacce (premiato, ricordiamolo, con l’Orso d’oro per la sceneggiatura, alla Berlinale) che già all’uscita aveva spaccato pubblico e critica – tra chi gridava al miracolo (e noi, considerando il desolante paesaggio del cinema italiano odierno, saremmo propensi ad inscriverci a questa categoria) e chi storceva il muso perplesso – quella spaccatura si è riprodotta, con le inevitabili dinamiche del tifo da stadio, anche sui social. Principalmente su Facebook.
Con l’aggravante che, com’è noto, il social consente agli utenti di lanciarsi in non sempre avvedute analisi estetico/filosofiche; cui vanno a sommarsi paragoni e distinguo con altri registi e pellicole. Tra cui, l’immancabile Premio Oscar, Paolo Sorrentino e la sua Grande Bellezza.
Pietre di paragone inaggirabili, a quanto pare, e quanto mai ingombranti, dunque, poste al collo del cinema italiano di questi ultimi anni.
Le considerazioni
E allora, una riflessione, a questo punto, è d’obbligo. Non me ne vogliano gli amici estimatori del premio Oscar, con cui immancabilmente si duetta di persona o sui social.
Una riflessione in forma di domande retoriche quanto si vuole, ma decisamente sconfortata e pessimistica.
Davvero, dunque, siamo ridotti così male? Siamo davvero così omologati nel gusto e nell’appiattimento del pensiero critico? Davvero siamo così soggiacenti all’estetica postmodernista e neoliberale, alla filosofia economica dominante (mercato e profitto) i cui precetti ideologici sottendono le logiche produttive dell’arte e della cultura, da non riuscire a percepire l’abisso di senso, poetico, stilistico, estetico, filosofico e contenutistico che separa il cinema di un Sorrentino da quello dei gemelli di Tor Bella Monaca, Damiano e Fabio D’Innocenzo?
Davvero si può ritenere – solo in virtù dell’Oscar, le cui reali motivazioni ben si dovrebbero conoscere oramai – il monotono, velleitario ed esangue La Grande Bellezza, un film capace di raccontare e di porre, sotto la lente imparziale della critica, i costumi e le decadenti forme del pensiero italico – sempre più debole e relativista in senso storico, materialistico, politico ed etico – mentre si resta scettici dinanzi alla voragine di contraddizioni, all’annichilimento morale, alla disperante presa di coscienza, sociale e storica, che un film disincantato come Favolacce dovrebbe riuscire a scavare e a destare nelle nostre pur narcotizzate intelligenze?
Siamo così addormentati nella nostra capacità di elaborazione critica della realtà e dunque dell’arte?
E mi riferisco soprattutto alla “compagneria”, buona parte della quale sembra non apprezzare le opere dei due registi romani, mentre plaude senza remore a quelle del partenopeo.
Certo, il gusto è insindacabile. Ma qui siamo al cospetto di una vera e propria mutazione genetica del senso estetico e del pensiero.
Non si spiega, insomma, come si sia potuti passare dal cinema dei grandi temi e dei contenuti importanti, caratterizzato, per larga parte, da un’autenticità d’ispirazione che ne lasciava trasparire l’adesione imprescindibile ai tempi e ai contesti storico-politici (il cinema dei Bertolucci, Petri, Olmi, Rossellini, Lizzani, Visconti, Zurlini, Scola, Fellini, Germi, Pasolini, Caligari, Montaldo, Monicelli, Ferreri, Pontecorvo, Maselli, De Sica, con le loro pur abissali differenze di genere e di stile) a quello convenzionale, estetizzante e francamente di superficie di Sorrentino e dei suoi epigoni. Quando non di peggio ci è dato da assistere.
Chiariamo. Che il regista napoletano sappia usare la Macchina da Presa, sia dotato di intuizioni geniali e abbia cognizione tecnica, anche raffinata, di come si gira un film, questo non può certamente essere smentito. Il problema sono il come e il perché. Dunque, la formalizzazione e la motivazione che sottendono il suo cinema.
Pervaso, a mio modesto avviso, da una concezione rassicurante dell‘arte e da quello che Kant chiamava sensus communis aestheticus. Ovverosia, una sorta di estetica del senso comune, universale e condivisa. Sorta di concezione trascendente del Bello e dell’Arte, intesi l’uno quale oggetto di piacere disinteressato e senza scopo; l’altra come pura azione contemplativa dell’intelletto, che nulla ha a che fare con l’idea di Verità. Come invece accadeva in Hegel e come è necessario ad un’espressione artistica che voglia definirsi marxista e materialista.
Quanto qui si vuol dire, in poche parole, è che l’esperienza estetica, esonerata dal compito della conoscenza e dal cogliere il conflitto tragico che scorre sotto il fiume della realtà, sia essa sociale o personale, si traduce in un intellettualistico esercizio di stile imitativo.
Dunque, privo di quella prospettiva critica che sola consente all’arte e alla cultura di porsi – com’è avvenuto nel corso del '900 – il compito di analizzare e, per quanto possibile, trasformare la realtà. Di farsi strumento per un’esperienza intellettuale attiva e per un sapere rivoluzionario.
Il cinema di Sorrentino risulta, pertanto, sulla base di tali premesse teoriche, spesso ridondante e artificioso. Manieristico e autocompiaciuto. Benché si tratti di un manierismo e di un accademismo comune a molti registi, autori, scrittori, artisti e intellettuali contemporanei.
Un cinema dove i grandi temi sociali, politici, storici, esistenziali diventano il pretesto soggettivo, deprivato di qualsivoglia sguardo oggettivo, distanziato e critico, per una messinscena che vada a gratificare il solo onanismo intellettualistico dell’autore.
La Grande bellezza è l’apoteosi di quell’architettura formale e linguistica, di matrice postmoderna, qui confinata al mero piacere semiotico dell’immagine. Un postmodernismo svuotato di pregnanza semantica, noiosamente autoreferenziale e fine a sé stesso, che con Sorrentino ha smarrito definitivamente il senso anticonvenzionale e di frattura espressiva che aveva assunto alle origini.
La critica di costume e quella morale, di cui si pretenderebbe essere informata la pellicola, e che si vorrebbe rivolta soprattutto a quella sinistra radical-chic, tronfia e intellettualmente arrogante, che ha depauperato l’originario patrimonio di cultura operaia che pure si era sedimentato in questo reazionario paese, si depotenzia e si trasforma, nelle sue cadenze di banale commediola agrodolce – con indosso un sofisticato abito da cerimonia degli Oscar, tutto in tiro hollywoodiano – in un riflesso indulgente, che permette allo spettatore che si riconosca in quello specchio sociale, di sorridere compiaciuto della sua, solo presunta, decadenza.
E come potrebbe essere altrimenti, ci chiediamo noi, considerando che Sorrentino è uno dei più autorevoli esponenti proprio di quella genia di intellettuali di sinistra, che hanno letteralmente smantellato il pensiero critico di questo paese?
Un lento decesso culturale, consumatosi attraverso un conformismo estetico ed ideologico, che è la conseguenza ineludibile dell’aver abbracciato il mito del successo al botteghino e, dunque, del Mercato!
Per riprendere il filo del discorso, comunque, nel film in parola, la sintesi di quella indulgenza ammiccante, ricercata, voluta e ammantata di supposta fustigazione etica si evidenzia nella scena del terrazzo. Imbarazzante per come riesca a scadere nel luogo comune tipico dell’invettiva da salotto televisivo.
Quei cosiddetti salotti buoni, frequentati dalla crème della borghesia economica e dall’élite intellettuale, immancabilmente “di sinistra”. Fazioni litigiose solo in apparenza, ma assolutamente in sintonia nella loro superba postura di classe.
Scena in cui straripa un intollerabile Servillo – oramai clone a tutto tondo di Jep Gambardella – gigionesco bacchettatore dei suoi strettissimi sodali, senza che si evidenzi alcuna reale coscienza del disastro storico, politico ed esistenziale, causa ed effetto determinati da quella borghesia di sinistra, che ha trascinato con sé anche buona parte dei destini politico-culturali del Belpaese. Scena che assume i toni, forse involontari, di un‘annoiata e sguaiata punzecchiatura cameratesca.
Insomma, un film borghese nel senso più retrivo. Intriso di presunzione intellettuale e di autocompiacimento estetico. Nel convincimento, maledettamente erroneo, che ogni immagine debba rappresentare un’epifania poetica. Ai limiti dell’esperienza esoterica.
Qui il grottesco e il surreale/espressionistico si tramutano, invece, allo sguardo attento, in commedia leggera (a tratti anche insulsa) ed in insensatezza calligrafica e tautologica.
Il montaggio e i proverbiali stacchi contribuiscono, ovviamente, a quest’effetto di facile fascinazione straniante, in un’ottica autoriale che però, per l’appunto, non sa andare oltre la suggestione di maniera. Laddove c’era la pretesa di dipingere un grande affresco sull’Italia di oggi.
Il tutto condito da un citazionismo (Fellini in primis) che denuncia la presunzione di un autore essenzialmente piccolo-borghese.
In questo senso, Youth costituisce la summa del manierismo citazionista di Sorrentino.
I poli opposti
Rigorosamente agli antipodi si colloca il cinema dei gemelli D’Innocenzo. Un cinema che trasuda verità e coscienza critica e di classe ad ogni fotogramma.
Un cinema che non fa sconti, capace di aggredire l’intelligenza e la sensibilità dello spettatore senza alcun riguardo, per destarle dal torpore che le culla e le immiserisce.
I due registi romani non contemplano la sordida realtà odierna. Non l’accarezzano, neanche contropelo. Ne sentono il puzzo della merda, l’annusano e la calpestano, senza timore di sporcarsi o di guastare il loro olfatto.
Conoscono ciò di cui parlano e ce lo descrivono senza troppo preoccuparsi di farci male. Lacerano e strappano pezzi di carne e di anima.
Non c’è bellezza, nei loro film. Almeno non quella convenzionale o rassicurante, idiota e patinata che tanto cinema, arte e letteratura confezionano e allestiscono ogni giorno, per commensali dal gusto guastato dal junk food, quello offerto nei supermarket della cultura.
Le loro immagini ed il loro linguaggio racchiudono la scarnificata avvenenza della poesia di Bukowski. I loro personaggi sembrano condensare intimamente la potenza allucinatoria e terrificante delle maschere umane dipinte da Bacon.
Il loro paesaggio urbano e periferico è il cuore di tenebra che pulsa sotto l’epidermide delle metropoli contemporanee. L’incubo che atterrisce la borghesia benpensante, che sceglie di distogliere lo sguardo.
Nel loro cinema si addensa il tremore balbettante della nostra fragile umanità, difronte all’horror vacui che siamo stati capaci di edificare con le nostre stesse mani.
Favolacce si dischiude ad un’analisi feroce del presente. Fa a brandelli l’omologazione culturale, imposta da quel dominio neoliberista il cui orizzonte di senso possono essere solo i soldi, le villette a schiera, Ibiza e una sessualità viscida, da immaginario pornografico, tramata di violenza e di sopraffazione.
Dalla pellicola dei D’Innocenzo è espulso qualunque piacere ludico della sessualità. È contemplato solo il godimento mortifero di un desiderio inappagabile e vorace di possesso.
Favolacce è un film che ci mette al cospetto di un agghiacciante deserto morale, attraversato da ombre di umanità senza nome. Senza futuro e finanche senza passato. Sospese su un tornante della Storia che assomiglia ad un precipizio che scivola frenetico verso il baratro.
Nuclei incandescenti di frustrazione che divorano i corpi dal di dentro.
I D’Innocenzo risentono della lezione di un grande maestro come Caligari e ne sanno cogliere l’essenza stilistica e concettuale; ma si aprono decisamente ad una dimensione di più ampio respiro.
Con universi concentrazionari periferici e microcosmi umani marginali che, sebbene partano da contesti di classe ben precisi – sottoproletariato e piccola-borghesia – s’immergono in una profondità psicologica e storica capace di descrivere tutta la solitudine e lo squallore della nostra asfissiante, fagocitante, spietata contemporaneità globalizzata.
Quella contemporaneità in cui l’omogeneizzazione dei desideri, frullati dagli stritolanti vortici del Capitale e del tempo veloce, viene spalmata sull’eterno presente della produzione e della merce.
Consumo indifferibile di esistenze, di corpi, di emozioni, ridotti al nulla reificato.
I D’Innocenzo mettono in scena un angoscioso, incomunicabile, oceano di emotività sterilizzate che deflagrano nella disperazione di un futuro paralizzato. In una rabbiosa, concitata bulimia di vita. Da vomitare al primo angolo di strada.
Il segno indelebile di questo sfacelo s’imprime sulla pelle di un’infanzia e di un’adolescenza violate dalla superficiale, disumana crudeltà degli adulti. Infanzia abbandonata in foreste di cemento dietro i cui muri si muovono fantasmi che tolgono il fiato e cancellano l’innocenza.
Figli che assumono su di sé il peso dell’inconsistente fragilità di adulti irresponsabili e chiusi nella propria meschina dimensione egoistica.
Adulti le cui esistenze sono ridotte a bocconi di vita, masticati con ansia dietro lo schermo degli smartphone.
Pezzi di un pasto nudo tossico, il cui veleno è pompato in vena dalla stessa brutale insensatezza della vita.
Frammenti di un discorso amoroso spezzato dal terrore dell’altro, ridotto più neanche ad oggetto ma ad una semplice virtualità social, dalla quale trarre, eventualmente, un surrogato di piacere effimero. O su cui sputare la propria rabbia amara. Solipsismo che non si concede alla tenerezza ma solo al sopruso del proprio desiderio.
Un tunnel disperato di piccoli orrori quotidiani, insomma, del quale i bambini, vittime designate ma non certo inconsapevoli, non vedono la luce se non quella rifratta della propria morte.
I due registi di Tor Bella Monaca si pongono di fronte alla realtà e all’oggetto filmico che ne delinea i contorni e ne rivela l’implicita spietatezza, con lo sguardo freddo degli entomologi. Capaci di vivisezionare emozioni e crudeltà. Disperazioni e passeggeri barlumi di dolcezza.
Per questo non abbiamo dubbi nell’affermare che i D’Innocenzo si possono definire, secondo il nostro modestissimo parere, almeno per quanto abbiamo visto in queste due prime opere, i Dardenne italiani, con spuzzate di Haneke e Lanthimos.
Ci auguriamo che continuino a viaggiare in questa direzione ostinata e contraria. Perché è questo il cinema che vogliamo vedere. È questo il cinema che ci piace.
I Premi Oscar li lasciamo ai salotti buoni. Quelli frequentati dall’intellighenzia “di sinistra”!
Fonte
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