L’ordine di chiusura reciproco di due consolati deciso dai governi di
Washington e Pechino ha suggellato un’altra settimana caratterizzata
dall’inasprirsi dello scontro sino-americano. Oltre alla nuova diatriba,
nei giorni scorsi è arrivata anche una durissima presa di posizione
dell’amministrazione Trump che, tramite il segretario di Stato Pompeo,
ha apertamente minacciato la rottura degli equilibri diplomatici degli
ultimi quarant’anni con la Cina, spianando la strada a un possibile
confronto di natura militare.
Nella mattinata di lunedì, le autorità cinesi hanno preso possesso
del consolato USA nella città sud-occidentale di Chengdu, nella
provincia di Sichuan, dopo l’ordine di evacuazione imposto venerdì ai
diplomatici americani. L’iniziativa cinese, com’è noto, è la risposta a
quella simile decisa martedì scorso dagli Stati Uniti. Per la Casa
Bianca, la rappresentanza cinese a Houston, in Texas, era un centro di
spionaggio e ne aveva ordinato perciò la chiusura con un preavviso di 72
ore.
Secondo alcune ricostruzioni in gran parte ignorate dai media
ufficiali, la ragione immediata della misura estrema presa da Washington
sarebbe tuttavia un’altra. Il governo USA aveva cioè rifiutato la
richiesta delle autorità cinesi di sottoporre a test di positività al
Coronavirus ed eventualmente a quarantena i diplomatici americani
destinati a tornare a Wuhan dopo avere lasciato la Cina all’inizio
dell’epidemia. I due governi stavano trattando sulle modalità del
ritorno, come hanno spiegato alcuni media cinesi, ma la fermezza di
Washington nel respingere i test e di Pechino nel ridurre al minimo il
rischio di “casi di ritorno” hanno impedito una risoluzione dello stallo
e innescato gli ordini di chiusura dei due consolati.
Dopo la chiusura della rappresentanza cinese di Houston, il
dipartimento di Giustizia americano aveva anche incriminato quattro
militari cinesi operanti in territorio USA e ritenuti agenti di
intelligence sotto copertura. Uno di essi si era rifugiato nel consolato
cinese di San Francisco, ma è stato in seguito arrestato assieme agli
altri tre colleghi. Al di là delle ragioni immediate delle misure
adottate da entrambi i governi nei giorni scorsi, la recente escalation
indica un rapido scivolamento verso un conflitto sempre più aspro e
forse nemmeno riconducibile a scenari esclusivamente da “guerra fredda”.
Il discorso pubblico di giovedì scorso del segretario di Stato Pompeo
ha chiarito a sufficienza quali siano le basi della rivalità con
Pechino e le intenzioni di Washington. L’ex direttore della CIA aveva
annunciato il superamento del paradigma di “cieco coinvolgimento” della
Cina, ovvero ha invocato un nuovo approccio alle ambizioni e
all’allargamento dell’influenza cinese, basato non più sul dialogo o sul
“contenimento”, bensì sulla messa in atto di politiche aggressive e
unilaterali, possibilmente in stretta collaborazione con gli alleati
americani.
Significativamente, Pompeo ha aperto una nuova fase del confronto con
Pechino parlando dalla biblioteca intitolata all’ex presidente Nixon.
Quest’ultimo, sotto la regia dell’allora consigliere per la Sicurezza
Nazionale, Henry Kissinger, negli anni Settanta del secolo scorso aveva
orchestrato la distensione con la Cina, principalmente in funzione
anti-sovietica. Con l’intervento di qualche giorno fa, Pompeo ha dato
notizia del fallimento di questo approccio, lanciando una battaglia per
un “21esimo secolo di libertà” contro la prospettiva di un “secolo
cinese” e una “nuova tirannia” di un regime definito
“marxista-leninista”.
L’assurdità
di quest’ultima affermazione è testimoniata dall’evoluzione stessa
della Cina a partire proprio dall’incontro tra Nixon e Mao Zedong del
1972 e dalla ratifica delle piene relazioni diplomatiche tra i due paesi
sette anni più tardi. Nei quattro decenni successivi, l’economia cinese
si è infatti integrata nei circuiti del capitalismo internazionale,
diventando prima un serbatoio di manodopera a basso costo per i paesi
sviluppati e oggi una minaccia alla posizione dominante degli Stati
Uniti. Ciò che costituisce una minaccia mortale per il capitalismo
americano non sono né una Cina comunista, molto difficilmente definibile
come tale, né tantomeno i metodi di un regime anti-democratico o
“totalitario”, quanto l’emergere di questo paese come potenza globale.
Questa sfida agli interessi strategici USA è tanto più formidabile in
quanto, da un lato, è lo specchio del declino del capitalismo americano
e, dall’altro, deve essere combattuta da Washington in un panorama che
vede la Cina pienamente coinvolta nel sistema economico e commerciale
globale, con intrecci dall’importanza enorme anche con gli stessi Stati
Uniti.
La vastità della sfida lanciata da Washington è tale da giustificare
un altro degli elementi chiave del discorso di Pompeo. Il segretario di
Stato USA ha sollecitato i propri alleati a fare una scelta di campo e a
mettere da parte le ambiguità. Mentre finora molti paesi, compresi
quelli dell’Europa occidentale, hanno cercato di trovare un punto di
equilibrio tra i legami strategici e nell’ambito della “sicurezza” con
l’alleato americano e quelli economico-commerciali con Pechino,
l’irrigidimento delle posizioni degli Stati Uniti nei confronti della
Cina renderà sempre più complicato un atteggiamento di questo genere.
Il deteriorarsi dei rapporti tra USA e Cina non è il risultato di
presunte attività “maligne” di Pechino, quanto la diretta conseguenza
della crisi economica, politica e sociale scatenata dall’epidemia di
Coronavirus oltreoceano. La disperazione della classe dirigente
americana di fronte all’accelerazione di dinamiche in atto da tempo ha
portato a galla e rafforzato tendenze tutt’altro che nuove o limitate al
Partito Repubblicano e alla cerchia dei “falchi” che consigliano il
presidente Trump.
L’offensiva anti-cinese è infatti un affare interamente bipartisan a
Washington ed era stata anzi l’amministrazione Obama a inaugurare quella
“svolta” asiatica che ha messo in moto la macchina diplomatica e
militare USA per cercare di ridimensionare le ambizioni di Pechino. Il
candidato del Partito Democratico alla Casa Bianca, l’ex vicepresidente
Joe Biden, in varie occasioni ha inoltre attaccato Trump da destra sulla
Cina, lasciando intendere, se possibile, un ulteriore aumento delle
pressioni su Pechino in caso di successo nelle elezioni di novembre.
Una cupa analisi dello stato delle relazioni sino-americane pubblicata nel fine settimana dal New York Times
ha confermato i sentimenti sostanzialmente univoci dell’establishment
degli Stati Uniti nei confronti del “dilemma” cinese. Le fonti citate
dall’articolo testimoniano di questa situazione e disegnano un quadro
nel quale il governo americano, “dal presidente Trump in giù”, intende
fare dello “scontro, dell’intimidazione, dell’aggressione e
dell’antagonismo” la cifra dei rapporti con la Cina, “indipendentemente
da chi guiderà gli Stati Uniti il prossimo anno”.
Il
messaggio recepito a Pechino non può essere più chiaro ed è stato
d’altra parte rafforzato da una lunga serie di iniziative al limite
dell’isteria prese a Washington negli ultimi mesi. L’elenco include
almeno le accuse di avere tenuto inizialmente nascosta la gravità
dell’epidemia di Coronavirus, la guerra contro Huawei, la denuncia, con
annesse sanzioni, del trattamento della minoranza Uigura musulmana nello
Xinjiang, la revoca dello status speciale di Hong Kong dopo il giro di
vite contro le proteste, lo stop ai visti di ingresso negli USA per gli
studenti legati alle forze armate cinesi e la recente presa di posizione
ufficiale che ha dichiarato illegali tutte le rivendicazioni
territoriali di Pechino nel Mar Cinese Meridionale.
Se c’è una conclusione che può essere tratta dagli sviluppi più
recenti, culminati nella chiusura dei consolati di Houston e Chengdu, è
che ad oggi il rischio di una guerra aperta tra le prime due potenze del
pianeta risulta più concreto che mai. A fugare qualsiasi dubbio in
questo senso è stato, tra gli altri, il direttore dell’influente testata
ufficiale in lingua inglese Global Times, Hu Xijin, il quale nel fine settimana dal suo account del social network cinese Weibo
ha invitato il governo del suo paese a dotarsi in fretta di nuove armi
nucleari, unico deterrente a suo dire in grado di “tenere l’arroganza
americana al di sotto dei livelli di guardia”.
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