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31/01/2024

Il tè nel deserto (1990) di Bernardo Bertolucci - Minirece

Il “caso Ilaria Salis” fuori dal diritto europeo

Lunedì 29 gennaio si è tenuta al tribunale di Budapest la prima udienza del processo a carico di Ilaria Salis, Tobias Edelhoff e Anna Christina Mehwald, a cui abbiamo assistito come osservatori internazionali per il Centro di ricerca ed elaborazione per la democrazia e per l’Associazione europea dei giuristi e delle giuriste per la democrazia e i diritti umani nel mondo.

Ilaria Salis, maestra e cittadina italiana detenuta in pessime condizioni dallo scorso 11 febbraio in un carcere di massima sicurezza, è stata tradotta in aula con i polsi e le caviglie bloccate da manette e con una sorta di guinzaglio che le cingeva la vita, impugnato da un’agente di polizia penitenziaria.

Gli imputati erano inoltre seduti lontano dai propri difensori e scortati da agenti in tuta mimetica e passamontagna nero che sono rimasti loro vicino per tutta la durata dell’udienza.

Tali circostanze – in netto contrasto con i principi e le tutele previste dal diritto comunitario – oltre a configurare un trattamento degradante e lesivo della dignità, pongono gravi problemi in merito alla possibile influenza sull’imparzialità di giudizio, sulla violazione del diritto di difesa e sulla presunzione di innocenza.

Il reato contestato a Salis è lesioni potenzialmente mortali a fronte di referti medici che attestano lesioni guarite in un lasso di tempo che va dai 5 agli 8 giorni.

La pena comminabile va da un minimo di 2 a un massimo di 24 anni, lasciando un eccessivo margine di discrezionalità al giudice. La competenza è, peraltro, affidata ad un giudice monocratico nonostante la pena irrogabile sia potenzialmente superiore ai 20 anni.

Inoltre, il giudice che deciderà la causa ha già avuto accesso e conosciuto tutti gli atti dell’accusa, ha già emesso una sentenza di colpevolezza nei confronti del coimputato Edelhoff ed ha rigettato la richiesta di quest’ultimo di sostituzione della misura con altra meno afflittiva, esprimendosi così anche sulla necessità che rimanga in carcere nonostante la pena irrogata sia bassa, 3 anni, di cui uno interamente già scontato.

Nel nostro ordinamento, il reato contestato a Salis non sarebbe perseguibile per assenza della condizione di procedibilità, mancando la querela delle persone offese.

In base alla pena irrogabile sarebbe di competenza collegiale e verrebbe deciso da giudici terzi e imparziali che non hanno accesso agli atti dell’accusa né possono essersi già pronunciati sulla colpevolezza di altri coimputati.

Il diritto di difesa di Salis è stato compromesso anche dal mancato accesso a tutto il materiale probatorio, non avendo avuto la possibilità di visionare i filmati indicati dall’accusa come prove né avendo avuto la disponibilità di tutti i documenti tradotti in lingua italiana.

Infine, fino ad oggi, è stata negata a Salis la possibilità di ottenere gli arresti domiciliari in Italia a fronte della sola esigenza cautelare del pericolo di fuga, non essendole contestato né il pericolo di inquinamento probatorio né quello di reiterazione del reato.

Tale circostanza risulta essere particolarmente allarmante tradendo, di fatto, una completa sfiducia nelle istituzioni italiane. La misura ben potrebbe essere eseguita con l’ausilio del c.d. braccialetto elettronico che offrirebbe le più ampie garanzie di controllo, scongiurando il pericolo cui la misura è sottesa.

Ci auguriamo che le autorità diplomatiche e il Governo siano in tempi rapidi in grado di porre fine alle violazioni riscontrate, ristabilendo le garanzie e il rispetto dei diritti che dovrebbero essere riconosciuti a ogni cittadino e a ogni cittadina italiana ed europea.

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Immersioni quotidiane

di Gioacchino Toni

Federica Cavaletti, Filippo Fimiani, Barbara Grespi, Anna Chiara Sabatino (a cura di), Immersioni quotidiane. Vita ordinaria, cultura visuale e nuovi media, Meltemi, Milano 2023, pp. 330, € 22,00

Immersioni quotidiane esplora l’immersività mediale contemporanea intesa come condizione in cui i media, facendosi pervasivi e naturalizzati, divengono parte integrante della vita ordinaria agendo in maniera importante sulle soggettività e sui loro rapporti con gli altri e con il mondo. Ad essere esplorati sono pertanto alcuni aspetti della vita ordinaria contemporanea riguardanti l’identità, i corpi, i sensi, i luoghi, gli oggetti e le immagini, nel loro costante mutare alla luce delle innovazioni tecno-estetiche e visuali prodotte dai nuovi media e dalle loro potenzialità immersive. Il volume si articola dunque in cinque capitoli in cui, attraverso una pluralità e una varietà di sguardi, vengono indagate forme e figure di esperienza della vita ordinaria e delle nuove tecnologie.

Gli interventi raccolti nel Primo capitolo indagano come i media visivi e audiovisivi tendano ad assegnare ruoli e posizioni soprattutto a soggetti marginalizzati ma anche come questi possano, grazie agli usi di tali dispositivi, sottrarsi agli incasellamenti sociali e culturali loro imposti. I saggi di Sofia Pirandello, Margherita Fontana, Alice Cati e Luisella Farinotti affrontano il rapporto delle donne con la fotografia nel suo oscillare tra pratica emancipatava e strumento di mantenimento, se non di rafforzamento, di incasellamento sottomissivo.

Il Secondo capitolo è dedicato alla costituzione della soggettività alla luce del ruolo svolto dai media nel plasmare e riplasmare il modo in cui il soggetto si presenta agli altri. Federica Villa si occupa della rappresentazione del volto e dei filtri digitali, Lorenzo Donghi e Deborah Toschi affrontano la rielaborazione in forma visiva dei dati derivanti dal self-tracking, Paola Lamberti e Clio Nicastro approfondiscono alcune forme di disagio contemporaneo alla luce dei media, dall’ansia giovanile su Tik Tok ai disturbi alimentari messi in scena dal cinema; Imma De Pascale, infine, si occupa della produzione fotografica di Vivian Maier.

Alle forme artistiche ottenute attraverso i dispositivi mediali contemporanei è dedicato il Terzo capitolo. Elena Lazzarini e Augusto Sainati ricostruiscono le tappe principali dell’“immersività” a partire dai sui esempi più remoti, Andrea Mecacci indaga il “Pop diffuso” inteso come processo di estetizzazione della società e della cultura che ha condotto all’esteticità diffusa e post-mediale di oggi, Luca Malavasi si occupa delle forme di espansione dell’universo immaginario e filmico che permettono processi di appropriazione e manipolazione mentre, viceversa, Adriano D’Aloia e Federica Cavaletti indagano casi in cui sono i media a “manipolare” i loro utenti, dal ruolo del selfie nel riorganizzare il rapporto del soggetto con sé stesso all’incidenza della realtà virtuale nel rapporto tra soggetto ed esperienze vissute negativamente come il senso di vergogna.

Il Quarto capitolo presenta una serie di saggi incentrati su come i media mutino tendendo ad adattarsi a determinati requisiti e usi, o abusi. Alessandro Costella ricostruisce la storia che ha condotto all’affermazione della superficie trasparente in varie tipologie di dispositivi visivi, «di quegli schermi cioè che non sono fatti per essere guardati, ma per farsi guardare attraverso», Diego Cavallotti guarda alla “trasparenza” come a una «condizione necessaria per la naturalizzazione o “banalizzazione” dell’uso dei media» esaminando in particolare il ruolo giocato dalle videocamere analogiche, Filippo Fimiani e Anna Chiara si occupano del ruolo delle immagini registrate dalle tante videocamere che riprendono il quotidiano, Max Schleser ragiona attorno al filmmaking portatile intendendolo come un genere cinematografico a sé stante, mentre Emilia Marra si occupa di come la fruizione degli archivi di materiale registrato sul web si rifletta sulle facoltà umane.

L’ultimo capitolo si concentra sui media all’interno del tessuto cittadino e comunitario mettendone in luce le valenze politiche. Ruggero Eugeni guarda all’automobile contemporanea come a un iper-medium, Arianna Vergari riprende le “sinfonie della città” realizzate a partire dagli anni Venti del secolo scorso osservando come queste rappresentino e de-familiarizzino l’esperienza quotidiana dello spazio urbano, Miriam De Rosa indaga come gli artefatti mediali attivino gli spazi in cui sono collocati, delle modalità di costruire spazi si occupa anche Roberto Pisapia esaminando il placemaking, il placetelling e il placedoing, infine Giuseppe Previtali indaga il ricorso ai meccanismi videoludici nella realtà quotidiana, nella comunicazione politica e, in particolare, nella comunicazione della “Guerra al Terrore”.

Nel loro insieme, i contributi raccolti in questo volume forniscono una pluralità e una varietà di sguardi su un fenomeno che oggi sembra tanto più urgente indagare, quanto più a portata di mano e sotto gli occhi di tutti noi. Un fenomeno forse unico, come lo è ogni fenomeno di un certo momento storico, ma né unitario né unificabile, e che anzi chiama a raccolta nuovi punti di vista, nuovamente e diversamente situati, che non potranno che essere seriamente curiosi e arrischiati, cioè davvero interdisciplinari. Perché le immersioni quotidiane nelle nuove tecnologie vanno insieme alle immersioni nel quotidiano grazie ai media e ai loro usi, e alle competenze ermeneutiche e critiche che da tali usi possiamo apprendere e sperimentare. Ogni giorno diversamente.

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Altri laboratori biologici USA nelle aree ex sovietiche

Torna in primo piano la questione dei laboratori biologici USA, operativi in diverse repubbliche ex sovietiche, tutt’intorno ai confini della Russia.

In un’intervista a Ukraina.ru, ne ha parlato in questi giorni il politologo kazako Ajnur Kurmanov, rappresentante della Coalizione internazionale per la proibizione degli esperimenti e la diffusione delle armi biologiche, il quale afferma che i biolaboratori yankee attivi nelle vicinanze dei confini russi debbano essere considerati alla stregua di basi militari USA e NATO, con tutte le conseguenze da ciò derivanti.

L’occasione dell’intervista è data dalla notizia, diffusa dall’armena “Past”, sull’apertura dell’ennesimo laboratorio (il 13°) nella repubblica caucasica: questa volta nelle immediate vicinanze della base militare russa di Gjumri, nell’Armenia nordoccidentale.

A parere di Kurmanov, l’attivazione di questo nuovo sito (al pari dei 12 precedenti, completamente segreto) costituisce una ulteriore dimostrazione, da parte di Erevan, della propria volontà di distanziarsi da Mosca (pur continuando ad esserne, formalmente, alleata, nel ODKB) e mostrarsi vicina all’Occidente.

Per USA e NATO, l’Armenia costituisce un “fronte di riserva” per accendere nuovi focolai nell’area sudorientale, di fronte al fallimento ucraino: una spina puntata contro il sud della Russia.

Nel nuovo laboratorio armeno, quantunque le autorità rifiutino di fornire la minima indicazione, sembra che vi si studi antrace, peste, varie febbri e malattie caratteristiche della Transcaucasia.

Ma non c’è solo l’Armenia. Nel sud del Kazakhstan, nella regione di Žambyl, si parla dell’attivazione del settimo (su un totale di poco meno di trenta siti in tutto il paese) laboratorio biologico del 4° livello di pericolosità, denominato “BSL-4”, finanziato dalla Defense Threat Reduction Agency (DTRA) del Pentagono.

Pare che, in tutto il mondo, ci siano solo una dozzina di siti simili; viene realizzato insieme a un deposito sotterraneo per gli agenti patogeni quali virus Marburg, vaiolo, febbri latinoamericane, virus Ebola e altre malattie per le quali non esistono farmaci.

Secondo Kurmanov, in Kazakhstan di recente americani, britannici e tedeschi avrebbero lavorato su antrace, peste e tularemia. Si studierebbe la possibilità di utilizzare i cammelli quali portatori delle malattie più pericolose, lavorando anche su tipi di coronavirus che infettano gli animali in condizioni naturali; studi anche su febbri del Congo-Crimea e di Omsk.

Va detto che nel 2013, in Kazakhstan, gli americani avevano già raccolto zecche per la diffusione della febbre del Congo-Crimea. Poi, i biomateriali erano stati trasferiti per posta diplomatica in Georgia, al Centro Lugar, e qui sottoposti a “modernizzazione”; quindi, come atto di diversione biologica, rilasciati nel Caucaso settentrionale russo, provocando diversi casi letali.

Laboratori biologici USA sarebbero attivi anche in Uzbekistan e Tadžikistan e, senza bisogno dell’apertura di altri siti, in vari casi si utilizzano vecchie strutture di ricerca sovietiche, ovviamente su base DTRA.

Nell’area centroasiatica ex sovietica, secondo Kurmanov, la situazione epidemiologica è aggravata anche dal degrado dell’intero sistema sanitario (o di ciò che rimane dell’epoca sovietica) – assenza di vaccinazioni, chiusura di numerosi ospedali e policlinici – che si manifesta con la ricomparsa di malattie a suo tempo debellate.

Ciò costituisce un indubbio vantaggio per le attività dei laboratori USA e NATO, come è il caso della rinnovata diffusione del morbillo. Nel caso specifico, c’è ragione di ritenere che si tratti di una tipica sperimentazione sul campo, con l’utilizzo di ceppi tossici di morbillo mai registrati in queste regioni prima del 2016.

Si tratterebbe di due ceppi apparsi per la prima volta in Ucraina e successivamente in Kazakhstan, Kirghizija, ecc. Tra l’altro, quella del morbillo è una malattia molto utile ai fini militari. Fornisce un’eccellente possibilità di monitorare la velocità di diffusione di un’infezione, per verificare quanto siano in grado di affrontarla i sistemi sanitari locali coi vaccini a disposizione.

Un altro esempio è dato dalla peste suina africana, non tipica delle nostre latitudini, dice Kurmanov: i primi casi sono comparsi a metà del decennio scorso, con l’avvento dei nuovi laboratori. Un serio colpo fu inferto nel 2018-19 agli allevamenti suini russi e cinesi, con parecchi milioni di maiali che dovettero esser soppressi.

Per quanto riguarda l’Ucraina (nel marzo 2022 aveva trattato l’argomento il comandante delle truppe di difesa radioattiva, chimica e biologica russe Igor’ Kirillov), sembra che anche là si stiano nuovamente attivizzando i laboratori biologici, con la presenza di ricercatori americani e tedeschi.

Si sono visti biologi militari della Bundeswehr negli ex siti militari sovietici della città di Šostka, dopo di che si è notata un’anomala diffusione di diversi tipi di zecche nelle aree di Brjansk, Belgorod, Kursk e Voronež.

In generale, sottolinea ancora Kurmanov, tali laboratori dovrebbero essere considerati alla stregua di basi militari USA e NATO, con la possibilità che vari agenti patogeni e virus vengano intenzionalmente diffusi, con danni irreparabili alla popolazione e all’agricoltura.

Nel caso del “BSL-4” in Kazakhstan, ad esempio, in presenza di una fuga da un deposito sotterraneo, con i venti che in quell’area soffiano principalmente verso la valle di Fergana, si verificherebbe un’autentica crisi umanitaria: il locale sistema sanitario, semplicemente, non sarebbe in grado di reagire, col risultato di un enorme flusso di rifugiati ai confini russi e cinesi.

Vale a dire, senza bisogno di un attacco militare diretto, Asia centrale e Caucaso diverrebbero un focolaio di continue epidemie, con milioni di appestati e di morti, economia e infrastrutture sociali distrutte.

Parafrasando il Victor Hugo de “Il Novantatré”, anche la guerra moderna, come «la Vandea serve al progresso. Le catastrofi hanno un oscuro modo di accomodare le cose»: in questo caso, per l’eternità.

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“Desaparecidos i prigionieri d’Israele a Gaza e Cisgiordania”

Il quotidiano americano lancia pesanti accuse alle autorità di Tel Aviv fin dal titolo dell’articolo pubblicato lunedì 29 gennaio: “Spogliati, picchiati e poi scomparsi. Il trattamento riservato da Israele ai detenuti di Gaza suscita allarme”.

Nel pezzo firmato Mark Landler si parla della sorte delle migliaia di palestinesi incarcerati dalle autorità di Tel Aviv, sottoposti a vessazioni al limite della tortura e viene rivelato che “un ufficio delle Nazioni Unite ha affermato che la carcerazione e il trattamento dei detenuti potrebbero equivalere a tortura. Si stima che migliaia di persone siano state detenute e tenute in condizioni orribili. Alcune sono state liberate indossando solo perizomi”.

I giornalisti del NYT hanno interpellato direttamente i funzionari dell’IDF ma le risposte, ovviamente, sono state evasive, affermando genericamente di detenere persone «sospettate di coinvolgimento in attività terroristiche, e di aver rilasciato successivamente coloro che sono stati scagionati».

C’è un “piccolo” problema, cioè che le procedure utilizzate dall’esercito israeliano per accertare il “coinvolgimento in attività terroristiche” sono eufemisticamente “discutibili”.

La denuncia del quotidiano americano è terribile: “Durante il primo mese di guerra, Israele avvertì coloro che non fuggivano dalle aree sottoposte a ordine di evacuazione che potevano essere considerati partner di un’organizzazione terroristica. Il mese scorso un portavoce del governo di Tel Aviv, Eylon Levy, ha detto che le forze israeliane stavano detenendo uomini in età militare in quelle aree”.

Tutto ciò si traduce, nei sospetti del NYT, che ogni palestinese maggiorenne, nella Striscia di Gaza, possa essere un miliziano presente o futuro, un semplice fiancheggiatore, o persino un innocuo simpatizzante, di Hamas.

Il portavoce della Croce Rossa, Hisham Mhanna, ha denunciato la scomparsa di 4000 palestinesi a Gaza. Si ritiene che almeno 2000 di essi siano stati segretamente incarcerati dall’esercito israeliano. È stato possibile avere qualche conferma della loro esistenza in vita, solo in pochissimi casi.

E così, mentre all’Aia si discute del possibile tentativo di genocidio a Gaza da parte di Israele, e la risposta dell’Occidente supinamente filoisraeliano è l’attacco all’ONU e alla sua organizzazione sul campo, l’UNRWA, si solleva anche la questione della violazione sistematica dei diritti fondamentali dell’uomo.

E su questo punto il New York Times riporta le parole di Francesca Albanese, Relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati, che mentre nello zelante e servile sistemata mediatico italiano è trattata alla stregua di ciarlatana, mentre nel resto del mondo viene considerata fonte autorevole, la quale ha affermato che “designare i civili che non sono stati evacuati come complici del terrorismo non solo rappresenta una minaccia di punizione collettiva, ma potrebbe costituire pulizia etnica”.

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Le guerre di religione non esistono

Vale la pena di approfondire la tendenza, abbastanza diffusa, che porta a considerare la guerra tra Israele e Palestina come un conflitto religioso. Conflitto da cui i comunisti dovrebbero tenersi fuori dal momento che, per chi guarda alla realtà attraverso la prospettiva del materialismo dialettico, la religione va considerata come l’oppio dei popoli.

Per approfondire la questione è necessario fissare due punti:

1) cosa intendiamo, riferendoci a Marx, per religione;

2) cosa intendiamo con l’espressione “guerre di religione” (espressione che abbonda non soltanto nei resoconti dei media ma anche sui libri di storia nell’analisi dei conflitti e delle guerre).

L’oppio dei popoli

Questa definizione si accompagna sempre alla locuzione “come ha detto Marx la religione è…”. Ma se vogliamo veramente entrare nel senso di questa celebre espressione, dobbiamo sottrarci a qualsiasi semplificazione da social network: Marx non poteva certo accompagnare questa frase all’immagine di qualche pittoresca sfilata di santi, icone o flagellanti – come fosse autoevidente nel suo significato. Per coglierne il senso originario nella sua complessità vale quindi la pena di riportarla per esteso, nel suo contesto discorsivo:

«Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale.

La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.

Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.»

Tale brano è tratto da “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”. Tradotta più volte in diversi modi, non può però essere confusa nel suo significato, se la leggiamo per intero, anche usando la trascrizione reperibile su Wikipedia.

Il pensiero di Marx è, in assoluto, non riducibile mai a una affermazione diretta e incontrovertibile, dogmatica. Per Marx la realtà va affrontata con un metodo: la dialettica. La religione, data la sua enorme importanza nel mondo, non può quindi essere dileggiata. A dire il vero, il filosofo tedesco, nella sua critica al capitalismo, non denigrò neppure quello, lo analizzò, ne valutò l’importanza storica nello sviluppo dell’umanità e ne rivelò l’intima struttura transitoria mettendone in evidenza i meccanismi contraddittori. Sulla religione, Marx usa lo stesso metodo.

Ma analizziamo con calma. Per Marx, in generale, l’antitesi dialettica è tra la religione come “sospiro degli oppressi” e come “oppio dei popoli”. Il sospiro degli oppressi è quindi ciò che deve, per forza di cose e del contesto, emergere in ciò che Marx descrive come mondo capovolto.

La lotta contro la religione è quindi la lotta contro il potere che la determina. Ma rappresenta in primo luogo la difficoltà degli oppressi ad accettare quel mondo e, contemporaneamente, è la cultura che in quel mondo è accettata e sostenuta in quanto capace di stabilizzarlo. Il sospiro degli oppressi non è quindi un fardello dell’umanità, come qualcuno potrebbe credere, ma è la risposta che gli oppressi danno (un sospiro, in altre traduzioni un “grido”) in un mondo in cui non hanno ancora raggiunto la coscienza di se stessi.

Dobbiamo quindi chiederci se e in che misura viviamo in un mondo capovolto. Dobbiamo chiederci in quale modo le masse palestinesi o degli altri popoli oppressi possono aver acquisito la coscienza necessaria per una critica alle proprie condizioni sociali devastate e contemporaneamente all’ideologia religiosa, che costituisce al contempo strumento di rivalsa e forza conservatrice. O se da loro sorga almeno quel sospiro o quel grido. Se quel grido debba essere considerato come l’inizio di un processo in cui i popoli possono iniziare ad aspirare alla propria liberazione (anche dalle ideologie o false coscienze che li opprimono) oppure debba essere considerato alla stregua di una falsa coscienza che deve essere sempre combattuta come causa e non come effetto della condizione sociale in cui si è sviluppata.

Le guerre di religione

Ovviamente, il corollario necessario all’analisi marxista sulla religione, per come l’abbiamo spiegata, va portato alla conseguenza che ne deriva direttamente: le guerre di religione non esistono in quanto tali. Possono essere combattute anche attraverso l’uso strumentale della religione ma questa non è di certo la loro prima causa.

Tutto questo è talmente chiaro nella attuale situazione palestinese che non merita neppure una spiegazione approfondita. Se da un lato è sicuramente evidente la torsione messianica insita nel progetto sionista e come essa sia esacerbata dal prevalere del quadro politico maggioritario in Israele da più di 20 anni; se dall’altro lato non si può nascondere che la Resistenza Palestinese sia oggi nelle mani maggioritarie di una organizzazione politico-religiosa che si chiama Hamas, non si può tuttavia non vedere come il conflitto israelo-palestinese sia invece strettamente legato al furto ultradecennale delle terre che i colonizzatori israeliani hanno perseguito ai danni dei palestinesi. In un territorio dove la corrispondenza tra dominio territoriale ed economico è fondamentalmente assoluta.

In generale, che l’opera di colonizzazione portata avanti da Israele si ammanti di miti religiosi e che la Resistenza Palestinese trovi sostegno nella religione islamica rappresenta un caso di scuola su come le sovrastrutture culturali o religiose si innestano su quello che Marx chiama, nella citazione che abbiamo riportato per esteso, il mondo capovolto creato dalla società e dallo stato sionista.

Ma l’analisi che facciamo sulla situazione palestinese non è un caso particolare. È evidente infatti come il recente prosperare di estremismi religiosi come l’ISIS o al-Qaeda siano il frutto di situazioni capovolte che sono state create nel corso dei decenni. Attraverso l’opera di veri e propri stermini di popolazione, saccheggi di risorse, fallimenti politici e militari che l’imperialismo ha portato all’interno dei vari paesi nel corso della storia recente. Basti pensare alla guerra dell’Occidente in Iraq o alla fuga USA/NATO dall’Afghanistan, per concludere con lo sviluppo dell’estremismo islamico nelle zone del Sahel, simbolo del fallimento sociale e politico del neocolonialismo francese in Africa.

All’interno dell’errore teorico principale che considera la religione come la causa delle guerre, si innestano altre false coscienze che assumono però valori strettamente propagandistici, atti a giustificare l’esistenza e la persistenza del dominio di ristrette classi sociali ai danni delle masse popolari. Tra queste, la più comune è la voluta confusione tra organizzazioni come Hamas e come l’ISIS o al-Qaeda che serve solo a creare l’immagine di un nemico crudele, di un “male assoluto” da poter utilizzare come immagine del mostro contro il quale occorre combattere senza alcun riguardo.

L’Occidente capitalista, inteso non in senso geografico ma come blocco di potere economico del capitalismo mondiale e militare garantito dalla NATO, si trasforma quindi di fatto in un sistema in cui emerge una cultura definibile come suprematista e razzista. Creando e dipingendo uno scontro che non è di classe ma culturale. Le masse dei popoli oppressi sarebbero tali in quanto incapaci di comprendere la superiorità della cultura occidentale liberale, laica, attenta ai diritti civili, tecnologicamente avanzata.

In tutto questo non c’è nulla di nuovo: le disuguaglianze globali sono sempre state considerate dal pensiero capitalista come il risultato di un divario di sviluppo tra i paesi avanzati e i paesi del terzo mondo. Mentre noi siamo stati in grado di capire e applicare scoperte scientifiche e metodi di produzione efficaci, altri popoli sarebbero stati bloccati da ostacoli di natura culturale e religiosa. Il dominio occidentale sarebbe quindi necessario anche allo sviluppo dei popoli arretrati in quanto in grado di imporre con la forza il superamento di quegli ostacoli. Si tratta di quel “fardello dell’uomo bianco” descritto da Kipling nel 1899.

Negli anni centrali del secolo scorso, il processo di decolonizzazione di ampie parti del Pianeta, aveva scosso alcune di queste fondamenta ideologiche. Per i socialisti e i comunisti era evidente che le diseguaglianze globali erano necessarie al mantenimento e perpetuazione del potere dei capitalisti.

Non esisteva, quindi, alcun gap culturale e tecnologico, il divario sociale era l’autentico pilastro del mantenimento dell’ordine capitalista e in tal senso era evidente che la lotta dei popoli oppressi per la propria autodeterminazione era, di fatto, una lotta contro il dominio capitalista. Lo sviluppo di un pensiero laico, progressista e attento ai diritti civili era quindi necessario ma solo se in rapporto diretto con le lotte per l’indipendenza e per nuove condizioni sociali a vantaggio dei popoli oppressi.

Anche qui, a ben vedere, si nota il ribaltamento ideologico affermato dal pensiero dominante capitalista. La cultura di un popolo (di cui l’elemento religioso è parte integrante e fondamentale) non è un dato immutabile ma deriva da condizioni sociali precise. In termini marxisti non è mai la cultura o la coscienza a determinare l’essere sociale ma il suo contrario.

Vale la pena di sottolineare ancora che queste confusioni, che si affermano in ambiti molto ampi, non sono in realtà tali per le classi dominanti. L’orrore che i media occidentali dichiarano come caratteristica di pratiche e culture considerate inferiori, è pubblicizzato a fasi alterne, a seconda delle convenienze. Infatti, ciò che viene dipinto come “male assoluto” quando sfugge di mano agli apprendisti stregoni occidentali come nel caso di al-Qaeda (filiazione degli “insorti” afghani mobilitati dagli USA in funzione antisovietica nel decennio 1979 – 1989) diventa, invece, utilizzabile propagandisticamente quando impatta “nemici sistemici” come la Cina (si veda il caso delle presunte repressioni delle etnie islamiche nella regione dello Xinjang), la Russia o la Libia e la Siria

Qui il discorso si fa quindi più prosaico. La trasformazione di Hamas nel male assoluto da combattere, va data in pasto all’opinione pubblica occidentale dipingendola come estremismo religioso, ma è semplicemente necessaria per nascondere i massacri coloniali di Israele, il rappresentante generale degli interessi capitalistici nell’area strategica, economicamente e politicamente, del Medio Oriente.

In conclusione, come comunisti non possiamo non comprendere la contraddizione che sta dietro alla predominanza politica e militare di Hamas, in campo palestinese, nel conflitto con l’entità sionista. Ma in questo conflitto dobbiamo avere presente quale è la contraddizione principale e quali sono quelle secondarie.

Ciò non significa eludere i problemi che emergono. Per utilizzare, parafrasandolo, Antonio Gramsci, siamo in una situazione in cui il vecchio sta molto male (muore) e il nuovo fatica soggettivamente a nascere (non può nascere). In questo chiaroscuro emergono mostri, ma, semplicemente, non abbiamo nessuna possibilità di restare fuori da questa battaglia. Innanzitutto occorre analizzarla con la dovuta cura. Lavorando nel contesto dato e tralasciando immaginari mondi ideali per sviluppare gli embrioni obiettivi del mondo che verrà.

Ciò che vediamo oggi è, almeno in parte, il fallimento di una strategia politica, militare ma soprattutto economica. Che si tramuta sempre di più in sconfitta ideologica. La brutalità israeliana sembra scappare di mano anche agli alleati storici del colonialismo. Le reali ragioni dei conflitti in Ucraina, in Sahel, nel Medio Oriente faticano sempre di più a essere nascoste sotto le solite false motivazioni addotte dal sistema capitalista dominante. Il conflitto contro la Cina appare sempre più come probabile atto finale della lotta per un dominio che schiaccia i subalterni in ogni parte del pianeta.

Il genocidio e il massacro in atto a Gaza, messo in relazione con il racconto puntuale dei massacri ripetuti in decenni di apartheid e colonialismo nella terra palestinese, scuote le fondamenta della propaganda dominante. Le enormi manifestazioni di dissenso che si sviluppano anche in Occidente ci raccontano anche di questo.

La crisi del dominio capitalista è una possibilità che si dà qui e ora.

Con tutti i pericoli del caso, la situazione non è immutabile, la storia è in cammino. Lottare al fianco dei popoli oppressi senza farsi travisare da ideologie e false coscienze diventa fondamentale per tutti coloro che vogliono lavorare per un mondo senza più popoli oppressi, senza sfruttatori né sfruttati.

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La grande crisi della piccola impresa agricola

Se gli agricoltori di tutta l’Europa occidentale scendono in strada con i loro trattori, o addirittura con le greggi, significa che c’è un problema comune, anche se le normative nazionali – e i rapporti di forza storici tra i vari paesi – sono spesso molto differenti.

Con uno sguardo superficiale è facile prendere lucciole per lanterne. Chi privilegia le “forme di lotta” sarà attirato dai blocchi stradali, condotti in modo molto determinato, ma scoprirebbe ben presto che – stavolta sì, al contrario delle mobilitazioni dei Gilets Jaunes o contro la riforma delle pensioni – la destra radicale, non solo in Francia e Germania, ci mette il suo zampino.

Basterebbe vedere il diverso atteggiamento del ministro dell’interno francese, Darmanin, che stavolta ordina alla polizia di “controllare da lontano” e non intervenire, mentre negli altri casi comandava cariche durissime e largo uso di proiettili di gomma o flashball. Si vede, insomma, che questi sono o erano “i loro”...

Chi privilegia l’ecologia, al contrario, non può che disprezzare una protesta che tra i vari punti (un altro tratto comune ai diversi paesi) ha la libertà di utilizzo di pesticidi e fertilizzanti chimici, nonché il mantenimento di forti sconti sul prezzo del “gasolio agricolo” (lo stesso usato per l’autotrazione, ma con accise e Iva molto ridotti).

Evidente, insomma, che questi approcci ideologici non aiutano a capire. E, come sempre, è meglio “follow the money” per districare nodi apparentemente inamovibili.

Di certo c’è che l’agricoltura europea è stata drogata per anni dalla “Pac” (politica agricola comunitaria), che ha distribuito risorse pubbliche per compensare le differenze di rendimento tra produzioni nazionali diverse o anche tra vari comparti della produzione nazionale.

Il passaggio alla nuova fase, però, sembra il brancolare di un cieco un po’ storpio che non sa dove andare né come farlo.

Le “direttive” provenienti da Bruxelles, in effetti, sono tra loro profondamente incoerenti, anche se ognuna viene scritta seguendo silenziosamente la regola annunciata da Giorgia Meloni fin dal suo esordio come “premier”: non disturbare le aziende.

Il problema è che “le aziende” sono diverse tra loro per dimensione, posizione di mercato, interessi immediati e di lungo periodo, specializzazione produttiva. E ciò che va bene ad un certo tipo di imprese è la morte per altre.

Gironzolando tra i trattori fermi a un casello stradale è piuttosto semplice sentirsi consegnare il cahier de doleance degli agricoltori di medio livello, titolari di aziende con pochi addetti (spesso familiari):

a) il prezzo dei prodotti agricoli viene fatto e imposto dalle industrie di trasformazione o dalla grande distribuzione;

b) il costo della lavorazione del terreno (aratura, semina, trebbiatura, eliminazione dei parassiti, ecc.) segue le dinamiche dei prezzi energetici;

c) il cambiamento climatico sta rendendo difficile proseguire con le colture storiche dei territori (l’anno scorso è stato durissimo per gli ulivi, l’uva, gli alberi da frutto, con raccolti limitati o nulli);

d) alla fine, tra uscite ed entrate, “non ci si sta dentro”.

Si possono considerare ovviamente un po’ esagerate le dimensioni dei danni calcolate dai diretti protagonisti, ma c’è molto di vero.

L’Unione Europea, come detto, fa cadere su questo mondo (il settore primario dell’economia) una pioggia di regole contraddittorie. Le analizzava qualche giorno fa su Teleborsa, con il consueto acume, Guido Salerno Aletta, economista ed ex vicedirettore di Palazzo Chigi, tra l’altro ora anche produttore di vino e dunque conoscitore “da dentro” della materia.

“La schizofrenia non è una malattia, a Bruxelles, ma una ben sperimentata tecnica di governo: basta dare ragione a tutte le proposte più estreme, dagli ecologisti che chiedono il ritorno alla Natura incontaminata alle Multinazionali che continuano a dettare legge con le loro tecnologie in campo agricolo e nella alimentazione sintetica, per vantarsi di essere sempre all’avanguardia”.

Ma, appunto, le regole ecologicamente più sensate (“combattere l’abuso dei concimi chimici che bruciano il terreno, i diserbanti asserviti alle singole varietà coltivate, i pesticidi che da una parte contrastano gli insetti e gli organismi patogeni e dall’altra annientano gli agenti impollinatori, come le api. Nel settore dell’allevamento, si impongono giuste regole sul benessere animale, con il divieto di gabbie anguste e di metodi strazianti per l’abbattimento dei capi”) in questo sistema di produzione si traducono in un aumento dei costi di produzione in capo agli agricoltori e allevatori. E dei consumatori, ovvio...

Sull’altro lato, la libertà d’azione concessa alle multinazionali – sia delle filiere agroalimentari che delle biotecnologie e della grande distribuzione – spinge per una riduzione continua dei prezzi della “materia prima” (i prodotti agricoli). Persino il Corriere è costretto ad ammettere che quanto preteso dalla multinazionale francese Lactalis – un litro di latte viene pagato solo 42 centesimi – riduce alla fame i fornitori.

In più, approvando programmi di “rinaturalizzazione” di alcune aree territoriali, in modo da ricostruire una biodiversità senza interventi biotecnologici, ma senza prevedere una politica complessiva che renda ordinariamente redditizia l’attività agricola, la stessa UE di fatto restringe le aree coltivabili per la produzione.

“La conseguenza di questa decisione è aberrante: voler ridurre il territorio da destinare all’agricoltura, per restituirlo alla Natura incontaminata, significa dover sfruttare maggiormente quello che rimane. Invece di favorire il ritorno all’agricoltura sostenibile e all’allevamento brado, si aumenta il differenziale naturalistico tra le aree protette e le aree coltivate”.

Che va di pari passo con l’impostazione neoliberista per cui, in assenza di interventi “dirigistici” degli Stati, i prodotti biologici costano inevitabilmente di più di quelli “normali”, tirati fuori usando pesticidi, ecc.

Ovvero quei prodotti che altre multinazionali (sia dell’agroalimentare che della distribuzione) cercano di ottenere a prezzi sempre più bassi, in modo da massimizzare i propri profitti a scapito di altre imprese (e ovviamente del consumatore finale, impossibilitato a risalire le filiere per sapere cosa mangia).

E già si intravede un ulteriore salto di qualità, naturalmente peggiorativo: “Non è un caso, a questo punto, che la Food and Drug Administration statunitense abbia già dato la sua autorizzazione alla commercializzazione della carne di pollo prodotta in laboratorio: dopo gli OGM in agricoltura, le Multinazionali puntano a spiantare l’allevamento tradizionale con la carne sintetica”.

È la descrizione di un processo di violenta concentrazione dei capitali. Con quelli più grandi che come sempre cannibalizzano quelli più piccoli e impossibilitati a “differenziare gli investimenti” (i terreni non si spostano, al massimo puoi cambiare cambiare prodotto finale, ma cambia poco).

Ricostruita così la mobilitazione degli agricoltori risulta a tutti gli effetti una “lotta di classe”... all’interno della borghesia. E i governi europei si trovano a dover gestire la crisi del consenso piccolo-borghese – da cui traggono sia il grosso dei voti che la “narrazione” con cui orientare il grosso della società – senza mai scontentare “i mercati” (definizione “immateriale” dietro cui si nascondono i gruppi multinazionali, sia industriali che finanziari).

Un rebus che la UE, come si è visto, ha deciso di non sfiorare nemmeno (“dando ragione a tutti”). Coltivando così – è il caso di dire – le condizione per uno scontro sociale interno sempre più complicato e duro. Con molte guerre alle porte...

Fonte

30/01/2024

Kramer contro Kramer (1979) di Richard Benton - Minirece

“Non userete le donne per giustificare il genocidio in Palestina”

Nelle scorse settimane a livello internazionale e nazionale sono state diffuse notizie e appelli che, utilizzando le donne come mezzo, sono volte a giustificare lo sterminio del popolo palestinese da parte di Israele.

Abbiamo pertanto deciso di controbattere a questa bieca strumentalizzazione, ribadendo il nostro supporto incondizionato alla resistenza palestinese, contro il genocidio in atto a Gaza.

Di seguito il testo dell’appello, per il quale chiediamo a tutte e tutti di firmare e di dargli massima diffusione.

A seguire, le prime – più di cento – firme raccolte e le traduzioni in arabo, inglese, spagnolo e francese.
NON IN NOSTRO NOME

Non userete le donne per giustificare il genocidio in Palestina

Le donne da sempre sono un campo di battaglia: sono oggetti da campagna elettorale, mezzi da sfruttare nella società del profitto, strumenti nello scontro di civiltà per l’Occidente “libero e democratico”.

Per questo, quando la campagna mediatica e politica a difesa di Israele si è tinta di rosa non abbiamo provato nessuno stupore, solo rabbia.

Israele è dipinto come baluardo di democrazia e di salvaguardia dei diritti delle libere soggettività e delle donne in Medio Oriente contro l’avanzata dei barbari palestinesi e arabi, accusati dei peggiori crimini, finanche di “femminicidio di massa”.

Una narrazione mediaticamente forte e “facile” in un paese come il nostro, scosso dalla violenza di genere.

Una storiella, la loro, che utilizza le donne per giustificare il genocidio e la pluridecennale occupazione israeliana dei territori palestinesi.

Una retorica che ha il sapore della “antica” missione civilizzatrice bianca, oggi anche “femminista”, che opera una distinzione tra donne di serie A (le nostre, le occidentali, le bianche, le israeliane) e donne di serie B (le altre).

Per questo diciamo: non in nostro nome.

Come donne, uomini, libere soggettività, militanti, collettivi e organizzazioni, prendiamo parola per ribadire pubblicamente e a chiare lettere che:

- siamo contro il colonialismo genocida di Israele e il suo regime di apartheid: crediamo nel diritto all’autodeterminazione e alla legittima resistenza anticoloniale del popolo palestinese, per una pace giusta;

- siamo contro il pinkwashing e il femminismo bianco e coloniale: non può esistere liberazione femminile e di genere senza spezzare le catene del colonialismo, dell’imperialismo, del razzismo, delle guerre e dei suoi orrori;

- siamo contro la strumentalizzazione degli eventi del 7 ottobre, delle donne e delle lotte contro la violenza di genere per giustificare lo sterminio del popolo palestinese da parte di Israele: non saremo libere e liberi fino a che non lo sarà anche il popolo palestinese!
Fonte

Il sequestro Dozier

Nell’appartamento veronese entrano in quattro, travestiti da idraulici. Tengono la donna sotto il tiro di una pistola, la immobilizzano ed escono con l’ostaggio nascosto in un baule, caricandolo su un pulmino che è rimasto in attesa in strada. Poi, via, di gran corsa, verso Padova dove è stata allestita la base in cui il prigioniero resterà per più di 40 giorni[1].

È il 17 dicembre 1981 e, con il sequestro di James Lee Dozier, generale statunitense NATO[2], le Brigate Rosse-Partito Comunista Combattente realizzano l’azione più spettacolare di una storia iniziata appena pochi mesi prima, dopo la cattura di Mario Moretti[3].

Durante la fase del rapimento uno dei sequestratori parlava uno “slang” americano, così scrivono i giornali dell’epoca, e quindi, lo scenario è quello di una operazione in cui gli attori non possono essere soltanto i brigatisti italiani. Anzi, la foto del sequestrato diffusa dalle BR-PCC è un fotomontaggio e questo vuol dire che Dozier già si trova all’estero, forse dopo aver viaggiato su uno dei tanti TIR che vanno e vengono dall’Austria.

I cronisti sono pronti a scommettere che il rapimento è opera di una centrale europea del terrorismo che comprende le BR, la RAF tedesca, l’ETA basca e l’IRA, organizzazioni che si sono incontrate in riunioni sul lago di Garda e in Svizzera. Insomma, un turbinio di improbabili ipotesi e di vere e proprie bufale.

È vero invece che, a Roma, arrivano alcuni agenti CIA e che il Ministero dell’Interno, guidato dal democristiano Virginio Rognoni, seleziona il nucleo di funzionari che dovrà coordinare le indagini nel Veneto: Umberto Improta, Oscar Fioriolli, Salvatore Genova e Luciano De Gregori.

Nella Questura di Verona, Gaspare De Francisci, il capo dell’UCIGOS (Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali), convoca la squadra messa in piedi dal Viminale. L’Italia non può perdere la faccia e, quindi, secondo ordini che vengono dall’alto, per trovare Dozier si potrà usare qualsiasi mezzo, anche le maniere forti.

Nessun timore, rassicura De Francisci, perché, se qualcuno resterà invischiato in una storia di violenza, godrà di una sicura copertura, politica ed istituzionale.

Finalmente può partire la caccia ai rapitori del generale e, questa volta, è consentito ogni metodo per estorcere informazioni.

Il giorno dopo arriva a Verona il funzionario dell’UCIGOS Nicola Ciocia (il “professor De Tormentis” secondo la definizione che gli è stata affibbiata da Improta), lo specialista, con la sua squadra dei “cinque dell’Ave Maria”, delle sevizie che servono a far parlare.

Ha già torturato, nel maggio ’78, Enrico Triaca, il tipografo brigatista di via Pio Foà a Roma[4] e questa volta, finalmente, può agire senza adottare particolari precauzioni perché la sorte di coloro che saranno arrestati, veri o presunti brigatisti che siano, è stata decisa dall’alto: se non parlano subito, magari dopo schiaffi e pugni, saranno torturati.

Ciocia resta in Veneto solo qualche giorno. Poi corre a Roma dove sono stati arrestati, il 3 gennaio ’82, Stefano Petrella ed Ennio Di Rocco, membri delle BR-Partito Guerriglia, per fare loro quello che ha già fatto a Triaca.

Dozier è tenuto al sicuro in un appartamento, in via Ippolito Pindemonte, all’interno del quale è stata collocata una tenda in cui vive il prigioniero.

Ma gli uomini del Viminale non hanno alcuna idea del luogo in cui possa trovarsi né della identità dei brigatisti. E le centinaia di telefoni messi sotto controllo non possono certo condurre alla prigione del generale. Non resta che prelevare le persone, interrogarle e, soprattutto, affidarsi, come già faceva l’inquisizione, alle sedute di tortura.

Alla fine di gennaio accade a Nazareno Mantovani che viene interrogato e picchiato per prepararlo alla vera e propria seduta di tortura che è affidata a Ciocia ed alla sua squadra.

I poliziotti hanno un luogo appartato per infliggere tormenti. È un villino che è stato preso in affitto dalla questura veronese. Mantovani ci arriva bendato. Ciocia ed i suoi uomini “trattano” Mantovani con acqua e il sale, ma esagerano, tanto che De Francisci interrompe la seduta dopo lo svenimento del prigioniero.

Paolo Galati mette i poliziotti sulle tracce di una militante. Oscar Fioriolli dirige la perquisizione a casa di Elisabetta Arcangeli senza sapere che dentro ci troverà anche Ruggero Volinia, nome di battaglia “Federico”. È lui che ha guidato il pulmino con dentro Dozier da Verona a Padova.

Separati da un muro, Volinia e Arcangeli si trovano all’ultimo piano della Questura veronese. Ciascuno può sentire l’altro mentre Fioriolli li interroga ed Improta segue la scena. La brigatista, nuda, è legata mentre i poliziotti le tirano i capezzoli con una pinza e le infilano un manganello nella vagina.

Dall’altra parte del muro, percuotono Volinia. Lo caricano su una macchina, lo conducono in una chiesa sconsacrata e, sottoposto ad acqua e sale dal gruppo di Ciocia, rivela il luogo in cui si trova Dozier[5].

Il 28 gennaio 1982, verso le 11:00, sette uomini del NOCS (Nucleo Operativo Centrale Sicurezza), le “teste di cuoio” della Polizia italiana, irrompono nell’appartamento di via Pindemonte. Senza difficoltà, immobilizzano i carcerieri di Dozier: Antonio Savasta, Giovanni Ciucci, Cesare Di Lenardo, Emanuela Frascella ed Emilia Libéra.

I brigatisti vengono messi pancia a terra sul pianerottolo mentre arrivano Genova ed Improta. Sono bendati ed hanno le mani legate dietro la schiena. Rifiutano di rivelare la propria identità ed i nomi di battaglia ed allora giù calci e botte. Qualche poliziotto ritiene sia ancor più efficace camminare sopra i loro corpi.

Alle due militanti («Sei una mignotta?» urlano i polizotti, «No!», ed allora giù calci e pugni) va ancor peggio. Abbassano la gonna ed i collant di Libéra e Frascella, sferrano calci sul pube e sul sedere, alzano la maglietta delle due donne e tirano i capezzoli del seno.

Su quel pianerottolo gli arrestati restano una infinità di tempo (sicuramente, dietro le porte dei vari piani del grande edificio, tanti ascoltano quello che sta accadendo, ma nessuno ha il coraggio di mettere la testa fuori). Poi, gli agenti NOCS portano i brigatisti nella palazzina del II reparto celere di Padova.

Il senso di impunità è talmente smisurato che il comandante del reparto scrive un ordine di servizio e non esita a mettere nero su bianco le disposizioni che dovranno essere seguite per custodire i sequestratori di Dozier, un documento che prova, prima ancora di qualsiasi testimonianza, quali metodi illegali saranno usati contro gli arrestati.

I cinque detenuti dovranno «essere costantemente legati e bendati», dovranno essere usati tutti gli accorgimenti per «non far avere loro la percezione del luogo in cui si trovano», il personale «non dovrà assolutamente rivolgere loro parola o rispondere a loro domande, tantomeno pronunciare nomi, luoghi e gradi che possano dar luogo ad eventuali identificazioni», i detenuti potranno «essere accompagnati eccezionalmente» in bagno, «non dovrà essere esaudita nessun’altra richiesta se non previa superiore opportuna autorizzazione» e «si dovrà accertare da parte del personale preposto che i legacci e i bendaggi siano sempre ben messi».

L’estensore del piccolo manuale di istruzioni per annichilire e spezzare il detenuto non dimentica di raccomandare che «il servizio ovviamente riveste natura di massima riservatezza»[6].

La giornata del 28 gennaio è frenetica e la tortura inizia a produrre i suoi risultati.

«Quando sei entrata nelle BR? Chi ha partecipato al sequestro? Chi è Sara?». Frascella non risponde alle domande, così chi la interroga le alza la gonna, le cala le mutande e le strappa i peli del pube. La brigatista inizia a cedere e fornisce qualche informazione.

Escono i “cattivi” e nella stanza entrano i “buoni”. «Dai collabora, ti conviene», continuano a ripeterle. Tornano i “cattivi” e riprendono a strapparle i peli del pube ed a stringergli i capezzoli. La fanno appoggiare a un tavolo e le dicono che le infileranno una gamba della sedia nella vagina.

Frascella cede e parla di “Federico”. Bendata e legata su una sedia, la militante non può dormire perché appena si appisola qualcuno corre a svegliarla. È notte fonda quando tornano i “buoni” e Frascella, che ha sentito chiaramente le grida di Savasta e Di Lenardo, vuota il sacco.

In un’altra stanza, Emilia Libéra è costretta a restare in ginocchio, sul pavimento, per alcune ore. Un “premuroso” poliziotto che la sorveglia le dice che i suoi colleghi, nella stanza accanto, stanno violentando la Frascella. Poi, bendata, viene messa su una sedia. Arriva il “cattivo” e le chiede dove possono trovare Sara, il nome di battaglia di Barbara Balzerani.

Libéra non apre bocca e allora giù pugni e schiaffi, capezzoli schiacciati e calci sul pube. Le tolgono pantaloni e mutande e la fanno chinare su un tavolo. Il “cattivo” annuncia che le metterà un bastone nella vagina e, aggiunge, lei deve crederci perché lui ha già “trattato” Di Rocco e Petrella. Libéra sa che con i due brigatisti hanno usato l’acqua e il sale e teme che, da un momento all’altro, tocchi a lei la stessa sorte.

Anche Savasta, bendato e legato su una sedia, viene colpito su tutto il corpo ed i seviziatori si divertono a spegnergli sigarette sulle mani. Sente le grida di Libéra e Frascella, ma non la voce di Ciucci che, dicono i poliziotti, è già morto.

Poi arrivano i «giustizieri» (così si presentano a Savasta) che puntano la pistola alla tempia del brigatista e minacciano di ucciderlo. Savasta cerca di fermarli: «Io sto già parlando». Ma a loro non interessa, sono giustizieri[7].

I “cattivi” vanno via ed i “buoni” lo portano in un’altra stanza e, dopo avergli chiesto se vuole nominare un avvocato, gli fanno firmare un verbale.

Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci (lui è veramente malridotto perché non riesce a camminare e gira seduto su una sedia da ufficio) vengono messi insieme in una stanza. Discutono e decidono tutti insieme di saltare il fosso e collaborare.

E così, già quella notte, forniscono le prime informazioni. Quelle di Savasta sono molto importanti perché lui conosce la base di via Verga, a Milano, dove più volte si è riunita la Direzione strategica.

Di Lenardo non cede ed è l’unico che non si piega alla tortura. Non si può dire che con lui non siano stati chiari: «Nessuno sa del tuo arresto, sei solo un sequestrato e possiamo fare di te quello che vogliamo». Ma il brigatista si ostina a non parlare, si dichiara prigioniero politico ed allora occorre ricorrere a tormenti più sofisticati.

I poliziotti si danno il cambio per colpirlo sulla pianta dei piedi, ma non disdegnano di sbattergli la testa contro il muro. Lo fanno distendere per terra, nudo, per ricevere scariche elettriche sul pene e sui testicoli, mentre altri gli danno calci ai fianchi e gli comprimono la testa. Poi pugni e schiaffi al volto, colpi sul naso, compressione delle pupille, schiacciamento della testa con i piedi, bruciatura delle mani, tagli al polpaccio. Con i calci, gli rompono il timpano dell’orecchio sinistro.

A Di Lenardo non viene risparmiato nulla, ma, se i suoi compagni, nella notte tra il 31 gennaio e il 1° febbraio, già firmano i verbali di dichiarazioni spontanee, il brigatista è irremovibile. Ed allora bisogna fare in fretta perché tra qualche ora si presenterà in caserma il sostituto procuratore veronese per gli interrogatori.

I poliziotti sono delusi. Nella base milanese di via Verga, quella indicata da Savasta, non hanno trovato nessuno. Forse, Di Lenardo può fornire altre notizie. Magari, può far arrestare la Balzerani. «Di Lenardo deve parlare».

Gli tolgono le manette dai polsi e le mettono ai piedi, gli legano le mani con pezzi di stoffa, gli stringono la benda sugli occhi, chiudono la bocca con un’altra benda e lo mettono nel bagagliaio di un’auto si mette in movimento seguita da un altro veicolo. Dopo un giro di mezz’ora le auto si fermano e due poliziotti trascinano il brigatista tenendolo per le ascelle. Di Lenardo comprende che si trova su un prato, sicuramente in una una campagna nei dintorni di Padova.

Lo fanno inginocchiare e lo pestano. Solito copione: il “cattivo” arrabbiato si alterna al “buono” che modera gli eccessi. Poi una voce, più forte delle altre: «Adesso ti spariamo». Parte un colpo di pistola. Non è morto!!! Nemmeno la finta esecuzione (el simulacro de fusilamiento, tanto in voga in America latina) fa crollare il detenuto[8].

Di nuovo botte. Lo riportano in caserma. Nudo, steso su un tavolo con la testa penzoloni, braccia e gambe legate. Gli riempiono la bocca di sale, gli tappano il naso e giù acqua in grande quantità. Una pausa e poi si riprende. Altra pausa e si riprende. Di Lenardo non respira, sta soffocando, il corpo trema, grida. Si fermano.

Mentre viene torturato il brigatista sente qualcuno dire «Genova». Pensa a un poliziotto, ad uno di quelli che, nei giorni precedenti, gli hanno parlato delle operazioni anti BR che hanno fatto nel capoluogo ligure. Si sbaglia. Alcuni giorni dopo, un funzionario cerca di convincerlo a collaborare. Entra nella stanza un poliziotto e dice «dottor Genova, al telefono». Di Lenardo allora comprende: nella stanza, mentre veniva torturato, c’era il commissario Salvatore Genova[9].

I brigatisti non vengono portati in carcere ed il sostituto procuratore veronese li interroga, il 1° e il 2 febbraio, negli uffici della celere. Savasta riempie pagine e pagine di verbale. Così fanno anche Libéra, Ciucci e Frascella.

Buon ultimo, nel pomeriggio del 2 febbraio, Cesare Di Lenardo si siede davanti al magistrato. Lui non ha nulla da dire, vuole solo denunciare le sevizie che ha subito. Lo farà di nuovo, il 28 febbraio, con un dettagliato memoriale spedito alla Procura ed al Presidente del Tribunale di Verona.

Il sistema generalizzato delle violenze sugli arrestati per fatti di terrorismo è cresciuto così a dismisura che, proprio nel febbraio-marzo ’82, diventa incontrollabile e non è più possibile tenerlo segreto.

Pier Vittorio Buffa, de “L’Espresso”, e Luca Villoresi, di “La Repubblica”, pubblicano due articoli grazie a notizie fornite da fonti interne alla Polizia che non vogliono assecondare la linea oltranzista dettata dal Viminale. Le pratiche della tortura sono diffuse e vanno oltre i confini delle province di Padova e Verona.

A Mestre, nel II distretto di Polizia, hanno usato gli stessi mezzi. La stessa cosa è avvenuta anche a Roma e Viterbo. A Villoresi, un anonimo investigatore veneto sostanzialmente ammette che la tortura, in alcuni casi, è stata usata e rivendica il risultato di aver «ripulito il Veneto»[10].

Si moltiplicano le denunce, ma Virginio Rognoni risponde seccamente: «…sulle pretese violenze cui sarebbero stati sottoposti i terroristi recentemente arrestati a Padova e nel Veneto posso dire che sono totalmente false».

Al Ministro dell’Interno risponde anche Magistratura Democratica, l’unico gruppo di giudici che affronta, senza reticenze, il tema dei metodi con i quali viene praticato il contrasto al terrorismo. MD giudica «non sufficienti e definitive le risposte date dal governo», vede distintamente «il pericolo di cedimenti e tolleranze per simili degenerazioni», chiede di «rispettare i termini di legge per presentare l’arrestato al magistrato» e sollecita i magistrati a «fare indagini ed accertamenti medico-legali sulle violenze denunciate».

Intanto, il processo veronese al gruppo dirigente e ai militanti delle BR-PCC va avanti senza particolari sussulti. Sfilano davanti ai giudici tutti i brigatisti che hanno fatto la scelta di collaborare ed i funzionari di Polizia che li hanno arrestati.

Quando arriva il suo turno, Umberto Improta racconta che Ruggero Volinia “Federico”, appena arrestato, subito ha detto di voler collaborare, ha condotto i poliziotti ad un covo a Mestre e poi ha fornito tutte le informazioni sul covo di via Pindemonte. E giunti qui, continua Improta, l’inarrestabile onda del pentitismo ha prodotto altri risultati.

Pensate che, aggiunge il funzionario UCIGOS, terminata l’irruzione alle 11:20, Antonio Savasta, appena 15 minuti dopo, già esclamava: «Vi dirò tutto!».

Le uniche voci dissonanti sono quelle di Cesare Di Lenardo e di Alberta Biliato che, presentandosi come prigioniera politica, sostiene che le dichiarazioni che lei ha fatto al magistrato, dopo l’arresto a Treviso, sono solo il frutto delle torture che ha subito.

Poi un colpo di scena, l’unico del processo. Savasta, Libéra, Frascella e Ciucci – che sino a quel momento hanno fatto ogni sorta di rivelazione, ma nulla hanno detto sulle violenze – consegnano un memoriale al Tribunale. Non fanno marcia indietro rispetto alla scelta del “pentimento”, ma assicurano di non aver avuto favori perché «il trattamento riservatoci dopo l’arresto è stato per noi tutti identico a quello che altri compagni hanno denunciato».

E proseguono: «Quattro lunghissimi giorni che non ti fanno restare dentro neanche la dignità di disprezzare chi ti ha torturato, che hanno un fine ben più ambizioso delle informazioni immediatamente estorte, poiché perseguono l’annientamento della tua identità politica». Così, mentre il processo veronese si avvia alle batture finali, per la prima volta anche i brigatisti “pentiti” denunciano le torture[11].

A Giovanni Palombarini, segretario di Magistratura Democratica, che sostiene che la risposta di Rognoni «non è certo stata tranquillizzante ed esaustiva, non dissipa i sospetti, né quieta le voci»[12], ed ai tanti che denunciano la barbarie che si sta consumando sembra quasi indirettamente rispondere il sostituto procuratore che, al termine del processo veronese ai brigatisti, durante la requisitoria, rivolge «un grazie motivato alla polizia che ha lavorato nella più stretta legalità» perché «..mai ho ricevuto lamentele, non dico denunce, di comportamenti scorretti, non dico di abusi…» sino alla scoperta del covo padovano a cui si è arrivati nella “più piena legalità”, grazie esclusivamente alle «indagini sagaci della polizia giudiziaria».

Proprio mentre il magistrato pronuncia queste parole alla Camera dei deputati si svolge un dibattito dai contenuti molto meno rassicuranti.

Il Ministro dell’Interno, per la seconda volta, risponde alle tante interrogazioni sul tema delle violenze. I parlamentari citano decine casi accaduti in tutta Italia, ma, soprattutto, le denunce delineano i profili di un sistema diffuso che ha travolto le regole dello stato di diritto ed ha generato una involuzione autoritaria e repressiva[13].

E’ il sistema nel quale maturano le torture: diventa prassi comune mettere un cappuccio all’arrestato oppure bendarlo; gli interrogatori dei sospettati avvengono in luoghi diversi dagli uffici delle forze di polizia per creare un effetto di “disorientamento”; i familiari, per giorni, ignorano la sorte della persona fermata ed invano, al pari degli avvocati, la cercano nelle carceri; si esercitano pressioni indebite sulle famiglie affinché convincano gli arrestati a collaborare; ai detenuti si chiede, insistentemente, di rinunciare a nominare un difensore di fiducia e di affidarsi al difensore di ufficio; gli arrestati non vengono portati in carcere, ma sono trattenuti presso commissariati, questure, caserme; gli interrogatori del pubblico ministero avvengono molto oltre i termini stabiliti dalla legge, in alcuni casi anche 9/10 giorni dopo l’arresto; vengono denunciati anche casi di illegale “patteggiamento” nei quali si chiede all’interrogato di non denunciare le violenze subite in cambio di favori che riceverà.

Ma il governo non fa nessuna apertura e Virginio Rognoni, anzi, alza il tiro e sostiene che i terroristi, non riuscendo ad arginare il fenomeno dilagante del pentitismo, hanno messo in piedi una vera e propria campagna diffamatoria per colpire la credibilità delle forze di polizia.

I poliziotti democratici di Venezia organizzati nel SIULP (Sindacato Italiano Unitario Lavoratori della Polizia) intervengono a gamba tesa nella polemica politica e, con un comunicato diffuso il 10 marzo ’82, sostengono, sulle violenze, che «tali pratiche sono state tollerate o, addirittura, incoraggiate da direttive dall’alto e infine sostenute dal tacito consenso di una opinione pubblica condizionata dall’incalzare sanguinaria e folle di un terrorismo che ha avvelenato la vita politica e sociale del paese».

Anche le Brigate Rosse fanno i conti con un fenomeno, inedito per dimensioni e radicalità, che sta sconvolgendo la vita della organizzazione. Il 18 marzo 1982 diffondono un lunghissimo comunicato nel quale lanciano la parola d’ordine della «ritirata strategica» sviluppando una articolata analisi della pratica della tortura («la tortura misura un nuovo livello di scontro») e degli effetti che sta producendo.

Il gruppo di Magistratura Democratica nel Consiglio Superiore della Magistratura chiede che l’organo di autogoverno dei giudici metta all’ordine del giorno del plenum la discussione su quella che si sta profilando come una vera e propria emergenza democratica[14].

Il magistrato inquirente di Verona trasmette gli atti alla procura padovana, competente per le violenze accadute in via Pindemonte e nella caserma della celere.

Vittorio Borraccetti, sostituto procuratore padovano, ascolta tutti i brigatisti, scova testimoni anche tra i poliziotti e, attraverso altri accertamenti medici, dimostra che le violenze non sono una invenzione.

Nel giugno ’82, il giudice istruttore Mario Fabiani firma i mandati di cattura contro alcuni tra i responsabili di quei fatti, tra i quali Salvatore Genova, vicedirigente la Digos genovese. Le accuse sono di concorso in sequestro di persona, violenza privata e lesioni personali.

Scatta istantanea la solidarietà agli arrestati e monta la rabbia contro i magistrati.

Virginio Rognoni esprime «perplessità ed amarezza» per i provvedimenti, mentre il Questore di Genova telegrafa al Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, manifestando fiducia nella condotta tenuta del commissario arrestato.

Nei locali della Questura di Roma si tiene una assemblea permanente dei poliziotti che non escludono di organizzare altre clamorose iniziative. «Se volevano portarci all’esasperazione, ci sono riusciti…nemmeno ad alcuni accusati per banda armata è stato riservato lo stesso trattamento», tuona un anonimo dirigente UCIGOS al giornalista de “l’Unità” che lo avvicina.

Il 5 luglio ’83, in un clima apertamente ostile ai magistrati, si apre il processo padovano mentre un gruppo di poliziotti, solidali con i colleghi imputati, presidia l’ingresso del Tribunale.

Salvatore Genova non può essere giudicato perché è stato appena eletto, nella fila del PSDI, nelle elezioni politiche generali del 26 giugno ed occorre attendere l’autorizzazione a procedere della Camera dei deputati che, tre anni più tardi, nel 1986, rifiuta di concederla. Nella udienza dell’8 giugno, il Capitano Lucio De Santis viene arrestato in aula per falsa testimonianza e condannato.

Depongono tutti i brigatisti che descrivono le violenze patite, i medici che hanno osservato i segni lasciati dalle torture e i testimoni che confermano l’utilizzo di metodi illegali.

Un quadro impressionante, alternativo a quello offerto dal testimone Umberto Improta che, in udienza, racconta una storia diversa, cioè di come nacque, nella palazzina della celere, un rapporto cameratesco tra poliziotti carcerieri e brigatisti carcerati: «…il rapporto tra personale UCIGOS, i NOCS e gli arrestati era un rapporto ottimo, di piena collaborazione, addirittura affettuoso…»[15].

Ma i giudici non credono ai poliziotti ed ai funzionari dell’UCIGOS e il 15 luglio 1983, il Presidente del collegio, Francesco Aliprandi, legge il dispositivo della sentenza con la quale gli imputati vengono condannati per il reato di abuso di autorità contro arrestati[16].

I brigatisti e i militanti di altre formazioni picchiati e torturati, durante e dopo il sequestro Dozier, furono moltissimi e, dissoltosi il fumo della retorica che accompagna il plauso ed i riconoscimenti ai liberatori del generale statunitense, emergono i fatti crudi di una operazione nella quale si consumarono violenze che servirono a carpire informazioni senza le quali, come ha francamente riconosciuto Salvatore Genova, quel risultato non sarebbe mai stato raggiunto.

Anzi, molte di queste violenze, in realtà, non sortirono nemmeno questo effetto visto che tanti episodi avvennero quando Dozier era già libero e rappresentarono, così, una delle cause scatenanti la scelta di collaborazione assunta dai brigatisti mentre erano in balia dei torturatori.

Quella padovana è l’unica sentenza degli anni ‘80 che riconosce la responsabilità di pubblici ufficiali per fatti di violenza commessi contro arrestati per vicende di terrorismo. Le decine di denunce fatte da altri inquisiti non producono altro che archiviazioni perché sono ignoti gli autori delle violenze[17].

Tra il 2007 e il 2012, il commissario Salvatore “Rino” Genova decide di raccontare ai giornalisti Matteo Indice e Pier Vittorio Buffa cosa è realmente accaduto durante la stagione di lotta al terrorismo. Descrive le torture, confessa il suo ruolo e quello dei suoi colleghi (De Francisci, Improta, Fioriolli, Ciocia) nell’uso dei metodi illegali e conferma che furono i vertici del Viminale ad impartire la linea della tortura[18].

A Buffa, laconicamente dice: «…Non ho fatto quello che sarebbe stato giusto fare. Arrestare i miei colleghi che le compivano. Dovevamo arrestarci l’un con l’altro. Questo dovevamo fare…»[19].

Le parole del commissario non scatenano la reazione veemente dei vertici istituzionali. Certo, quelli tirati direttamente in causa replicano che si tratta di fantasie, ma anche nel fronte di quelli che sostengono che mai ci furono violenze sui brigatisti si aprono alcune crepe, con ammissioni, a volte, sorprendenti.

È il caso di Giordano Fainelli, ex ispettore capo della Digos veronese, che sostiene che, in realtà, Ruggero Volinia trattò la sua confessione in cambio della immunità per Elisabetta Arcangeli e di una sostanziosa somma di denaro, superiore a quella consegnata a Paolo Galati che parlò dopo aver ricevuto circa 40 milioni e la promessa di un trattamento favorevole per il fratello Michele, brigatista che già si trovava in carcere[20].

Ma Fainelli, che nega che Volinia sia stato torturato, ammette poi che la notte del 26 gennaio ’82, insieme ad Umberto Improta e altri colleghi, condusse Ruggero Volinia in un villino in un residence in cui c’era anche Nicola Ciocia. Non assistette a torture, ma non esclude che «l’euforia collettiva portò qualcuno ad andare oltre le righe»[21].

A queste vicende fa riferimento Giuliano Amato intervenendo, a sorpresa, sul tema. E non usa un linguaggio paludato: la classe politica «aveva coperto il ricorso a metodi e strumenti ai margini della legalità…quando non extralegali…vi fu il ricorso a forme di pressione fisica e psicologica su alcune migliaia di arrestati e detenuti che, nel caso dei primi, sembra siano talvolta arrivate, malgrado le smentite, a toccare la tortura».

La magistratura non è senza colpe perché «se pochissimi magistrati seppero del water boarding e pochi dei pestaggi degli arrestati, diverso è il caso dei trattamenti speciali dei detenuti e della possibilità di usare il carcere come strumento di pressione nei confronti di categorie di persone ritenute particolarmente indegne, che divennero pratiche abbastanza diffuse negli anni Ottanta»[22].

Nemmeno le inusuali rivelazioni di Giuliano Amato sgretolano il muro del silenzio eretto 40 anni fa. Tace la classe politica della prima Repubblica, tacciono i vertici del Viminale e della Polizia di stato, resta silenziosa la magistratura non meno dei giornalisti che quelle inchieste seguirono, celebrando i fasti di uno Stato democratico che prevaleva sulle formazioni eversive sempre rispettando le regole del diritto.

Insomma, un’Italia reticente (reticente proprio nel senso strettamente giuridico «di chi tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti») che non ha ancora trovato il coraggio di discutere, senza infingimenti, dei metodi che vennero impiegati per sconfiggere le organizzazioni della lotta armata, anche di quelli usati durante le indagini in cui raffinati investigatori «cercavano Dozier dentro la vagina di una brigatista».

* presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia – da Insorgenze.net

Note

[1] Il nucleo che, con vari ruoli, sequestrò e trasportò Dozier a Padova era composto da Antonio Savasta, Pietro Vanzi, Marcello Capuano, Cesare Di Lenardo, Emilia Libéra e Alberta Biliato. Una avvincente ricostruzione della vicenda Dozier e delle torture inflitte nella fase della investigazione è contenuta nella docu-serie Sky Original Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, 2022.

[2] Dozier, al momento del sequestro, era sottocapo di stato maggiore addetto al Comando delle forze terrestri NATO nell’Europa meridionale.

[3] Alla fine del 1980, nella organizzazione BR matura la rottura definitiva con la colonna milanese “Walter Alasia” che viene espulsa nel dicembre di quell’anno. Mario Moretti viene arrestato a Milano il 4 aprile 1981. Nello stesso anno, il Fronte carceri e la colonna napoletana danno vita alle BR-Partito Guerriglia, organizzazione che fa capo a Giovanni Senzani. Infine, nell’autunno 1981, si costituiscono le BR-Partito Comunista Combattente, fortemente radicate nella colonna romana, in quella genovese ed in quella veneta (la colonna Annamaria Ludmann-Cecilia) che realizza il sequestro Dozier.

[4] Enrico Triaca è il protagonista del documentario di Stefano Pasetto Il Tipografo, 2022, vincitore del premio quale miglior lungometraggio all’8° Festival internazionale del documentario Visioni dal Mondo. Sulla vicenda Triaca, vedi dell’autore I tormenti e la calunnia” pubblicato su www.questionegiustizia.it, 12 luglio 2023.

[5] La dettagliata descrizione delle torture inflitte a Nazareno Mantovani, Ruggero Volinia ed Elisabetta Arcangeli è contenuta nella testimonianza resa da Salvatore Genova al giornalista Pier Vittorio Buffa e ad altri organi di informazione.

[6] L’ordine di servizio del comandante del II reparto celere disciplinava esso stesso una forma di tortura sui prigionieri o, quantomeno, una pratica di trattamento inumano e degradante: bendati, legati, tenuti costantemente al buio e senza avere la possibilità, per diversi giorni, di avere la percezione del luogo in cui si trovavano e della identità di coloro che li interrogavano, i brigatisti furono sottoposti alla “deprivazione sensoriale”. Inoltre, nel processo padovano, venne provato che i poliziotti usarono costantemente anche il metodo della privazione del sonno. A questi mezzi aveva fatto ampio ricorso l’esercito inglese in Irlanda, nei primi anni ’70, contro i detenuti appartenenti all’IRA (Irish Republican Army). Già bollato dalla Commissione europea dei diritti dell’uomo come pratica di tortura, in seguito la Corte europea dei diritti dell’uomo sostenne che il metodo della “deprivazione sensoriale” costituiva una pratica di trattamento inumano e degradante.

[7] Quasi certamente si tratta dello stesso gruppo di poliziotti della celere padovana che, secondo le successive rivelazioni di Salvatore Genova, si autodefiniva “Guerrieri della notte”.

[8] Intervistati per la docu-serie Il sequestro Dozier. Un’operazione perfetta, gli ex poliziotti Danilo Amore e Carmelo Di Janni hanno riconosciuto che il racconto di Cesare Di Lenardo sulla finta fucilazione era vero.

[9] I racconti di Savasta, Di Lenardo, Frascella, Libéra sulle violenze subite sono riportati, integralmente, nella sentenza del Tribunale di Padova del 15 luglio 1983.

[10] L’articolo di Pier Vittorio Buffa dal titolo Il rullo confessore venne pubblicato su L’Espresso del 28 febbraio 1982. Quello di Luca Villoresi intitolato Ma le torture ci sono state? comparve sull’edizione di La Repubblica del 18 marzo 1982. I due giornalisti vennero arrestati per ordine della magistratura veneziana perché rifiutarono di rivelare l’identità delle loro fonti. L’articolo di Buffa contiene anche una elencazione di altre vicende di violenza su arrestati per fatti di terrorismo: Massimiliano Corsi, Stefano Petrella, Ennio Di Rocco, Luciano Farina, Lino Vai e Gianfranco Fornoni.

[11] I giudici veronesi, con la sentenza emessa il 25 marzo 1982, condannarono gli ideatori ed esecutori del sequestro Dozier: Francesco Lo Bianco, Barbara Balzerani, Umberto Catabiani, Vittorio Antonini, Luigi Novelli, Remo Pancelli, Marcello Capuano, Pietro Vanzi, Cesare Di Lenardo, Alberta Biliato, Ruggero Volinia, Antonio Savasta, Emilia Libéra, Giovanni Ciucci, Emanuela Frascella, Armando Lanza e Roberto Zanca.

[12] Intervista di Giovanni Palombarini a Il Manifesto dell’11 marzo 1982.

[13] Nella seduta del 22 marzo 1982 della Camera dei deputati, diversi parlamentari fecero riferimento ad una miriade di fatti di violenza praticati su arrestati e detenuti. I casi citati, oltre ovviamente quelli veneti, riguardavano gli arresti di Pietro Mutti, Anna Rita Marino, Giuseppe De Biase, Gianni Tonello, Giorgio Benfenati e Paola Maturi.

[14] La richiesta venne rivolta al Vicepresidente Giancarlo De Carolis da Salvatore Senese, Franco Ippolito ed Edmondo Bruti Liberati, rappresentanti di Magistratura Democratica nel CSM.

[15] Sulle testimonianze di De Francisci e Improta, i giudici padovani scrissero: «con le loro risposte evasive e con il loro comportamento omissivo circa l’obbligo di indagare…hanno dimostrato il loro preciso intento di difendere gli imputati e il loro operato».

[16] La sentenza del Tribunale di Padova, Pres. Aliprandi, emessa il 15 luglio 1983, è pubblicata su Il Foro Italiano, maggio 1984, vol. 107, No. 5, con commento di Domenico Pulitanò. La condanna venne inflitta agli agenti NOCS Danilo Amore, Carmelo Di Janni, Fabio Laurenzi e al tenente del II reparto celere Giancarlo Aralla solo per l’episodio del trasporto illegale in campagna e della finta fucilazione del brigatista Di Lenardo. Inoltre, Amore venne riconosciuto responsabile anche di violenza privata contro Emilia Libéra. L’amnistia promulgata nel 1990 cancellò la condanna.

[17] Nel 2013, i giudici della Corte di Appello di Perugia, accogliendo la richiesta di revisione della sentenza irrevocabile di condanna per il reato di calunnia, hanno riconosciuto che, nel 1978, Enrico Triaca venne torturato.

[18] Secondo il ricercatore Paolo Persichetti («8 gennaio 1982, quando il governo Spadolini autorizzò il ricorso alla tortura» in Insorgenze, 30 marzo 2012) il governo diede il via libera all’uso della tortura nel corso di una riservatissima seduta del Comitato Interministeriale per l’informazione e la sicurezza (CIIS) a cui parteciparono il Presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, ed i ministri Rognoni, Lagorio, Marchiora, La Malfa, Di Giesi e Altissimo.

[19] L’articolo del giornalista Matteo Indice che contiene l’intervista a Salvatore Genova, dal titolo E la CIA si stupì dei nostri metodi venne pubblicato su Il Secolo XIX del 24 giugno 2007. Quello di Pier Vittorio Buffa, dal titolo Così torturavamo i brigatisti comparve su L’Espresso del 5 aprile 2012.

[20] Michele Galati, componente della colonna veneta delle Brigate Rosse, venne arrestato nel dicembre 1980. Il 4 febbraio ’82, al PM di Venezia, fece le sue prime rivelazioni. Galati sostenne che, da un po’ di tempo, stava già collaborando segretamente con il generale Dalla Chiesa ed altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri con i quali parlava in occasione delle traduzioni dal carcere. Rivelò anche che, nell’ottobre ’81, aveva informato Dalla Chiesa che le BR intendevano rapire un alto ufficiale statunitense in forza alla NATO e di stanza a Verona o Vicenza.

[21] Intervista di Giordano Fainelli al quotidiano L’Adige del 12 febbraio 2012. Anche Salvatore Genova raccontò che ad alcuni brigatisti “pentiti” venne elargita una somma complessiva di 100 milioni di lire, denaro prelevato da un fondo riservato del Viminale.

[22] Le considerazioni sono contenute nel libro di Giuliano Amato e Andrea Graziosi, Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, il Mulino, 2013.

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Piano Mattei: grandi ambizioni, scarse possibilità

Il governo Meloni ha ufficialmente presentato il “Piano Mattei per l’Africa” nella giornata di ieri a Roma. “Il Piano Mattei può contare su una dotazione iniziale di oltre 5,5 miliardi di euro tra crediti operazioni a dono e garanzie”, ha detto la premier Giorgia Meloni, aprendo la conferenza Italia-Africa nell’Aula del Senato. Meloni ha aggiunto che dei 5,5 miliardi, “circa 3 miliardi arriveranno dal fondo italiano per il clima e circa 2,5 miliardi dalle risorse della cooperazione allo sviluppo. Certo, non basta – ha aggiunto – per questo vogliamo coinvolgere le istituzioni internazionali e altri stati donatori”.

Si può ben dire che se l’intenzione è buona, la dotazione economica che lo sostiene appare piuttosto gracile, ed anche lo standard di credibilità politica dell’Italia in Africa non è più quello di trenta anni fa. Non solo. Neanche l’Africa è più quella di tre-cinque anni fa. L’Italia quindi non ha rendite di posizione da sfruttare, tutt’altro.

Secondo il quotidiano francese Le Monde, espressione di uno storico competitore dell’Italia in Africa, “a differenza della Francia, che si ritira sul continente, Roma, che vi considera intatta la sua immagine, è lieta di sfuggire alle accuse di neocolonialismo, e si atteggia quindi a facilitatore delle relazioni euro-africane. Per Meloni, sia la geografia che la politica predispongono la penisola italiana a diventare un ponte tra i due continenti. A questa idea si affianca un’aspirazione molto concreta a fare dell’Italia un hub tra le risorse energetiche africane e i mercati europei”.

Diversamente il giornale Politico scrive che “vista l’ambizione del progetto, Meloni sta facendo una scommessa significativa. Il successo potrebbe fornire il riconoscimento mainstream che brama come statista conservatrice internazionale; ma l’Africa è un luogo enorme e complesso, e il frutto della sua strategia, se ce ne sarà, potrebbe richiedere anni se non decenni per maturare”. Il giornale statunitense aggiunge che “il piano di Meloni contiene molte potenziali insidie, dicono i critici, a partire dal fatto che i leader africani compreranno ciò che il leader italiano sta vendendo”.

Al vertice di Roma hanno partecipato i rappresentanti di 45 paesi africani tra cui i presidenti di Comore, Congo, Eritrea, Ghana, Guinea Bissau, Kenya, Mauritania, Mozambico, Repubblica Centrafricana, Senegal, Somalia, Tunisia, Zimbabwe; i vicepresidenti di Benin, Burundi, Costa d’Avorio, Gambia, Guinea Equatoriale, i primi ministri di Cabo Verde, Eswatini, Etiopia, Gibuti, Libia, Marocco, Sao Tomé e Principe, Uganda; i ministri degli Esteri di Algeria, Angola, Congo, Ciad, Egitto, Malawi, Madagascar, Ruanda, Sierra Leone, Sud Sudan, Tanzania, Togo, Zambia, Sud Africa; gli ambasciatori di Botswana, Camerun, Mauritius, Lesotho, Namibia, Seychelles.

Diversi presidenti africani hanno preferito rimanere nel continente per seguire le partite delle varie nazionali nella Coppa d’Africa.

Presenti al vertice anche il presidente dell’Unione africana Azali Assoumani e il presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki. Quest’ultimo ha gelato la Meloni quando nel suo intervento ha sottolineato che l’Unione Africana non era stata consultata per la convocazione del vertice in Italia. Ma a molti sarà anche tornata in mente l’imitazione dello stesso Faki da parte di due comici russi che ingannarono in uno scherzo telefonico proprio la Meloni alcuni mesi fa.

A presentare “i pennacchi” si sono precipitate a Roma anche le massime autorità europee come la Von Der Leyen, Michel e la Metsola. E fin troppo spesso le foto immagini del vertice hanno visto più primi piani degli invitati europei piuttosto che di quelli africani.

Il governo Meloni spera dunque di lasciare un’impronta sul piano dell’iniziativa internazionale e si dice pronto a investire in Africa per avere in cambio un forte contenimento dei flussi migratori.

Il piano Mattei è sotto il controllo diretto della Meloni e con una cabina di regia composta dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, e dal ministro delle imprese e del Made in Italy Adolfo Urso. Collaborano all’iniziativa anche la Conferenza delle regioni, l’Agenzia italiana per la cooperazione e quella per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, ma soprattutto Cassa Depositi e Prestiti, la Sace, e la Simest che supporta la presenza internazionale delle imprese italiane.

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Francia - La rabbia degli agricoltori “assedia” la capitale

A partire dalle ore 14 di lunedì pomeriggio, la FNSEA – la maggiore organizzazione degli agricoltori francesi e i Giovani Agricoltori del Grand Bassin parigino – ha previsto otto “punti di blocco” sulle autostrade a qualche chilometro, o ad alcune decine, dalla périfephérique, il principale raccordo esterno che circonda la capitale.

La loro parola d’ordine è l’“assedio” della capitale, senza aver posto limiti temporali alla propria azione.

Si tratta di un “salto di qualità” di questo movimento di agricoltori, il cui malessere – a livello europeo – si è espresso in precedenza in tutto il Nord ed Est Europa (Polonia e Romania), in ultimo in Germania, e che sta in parte cambiando la geografia politica in alcuni paesi come è avvenuto in Olanda.

Anche in Italia, negli ultimi giorni, abbiamo visto il blocco del casello di Orte, punto di collegamento tra l’A1 e la superstrada per Ravenna; nonché alcuni blocchi stradali in Calabria.

Domenica sera il ministro dell’interno Gérald Darmanin ha annunciato il dispiegamento di 15mila uomini delle forze dell’ordine per impedire che i trattori entrino nella capitale e nelle grandi città della Francia, arrivando a bloccare il nevralgico centro della logistica alimentare sito a Rungis, nella periferia sud di Parigi – come una parte degli agricoltori aveva annunciato – così come degli aeroporti della zona attorno alla capitale.

Finora il nuovo governo del Primo Ministro Gabriel Attal ha scelto una linea piuttosto interlocutoria con il variegato mondo degli agricoltori francesi – che va dal vero e proprio agro-business ai piccoli coltivatori diretti – e delle assai differenti sigle che lo rappresentano.

Lo stesso Darmanin, caratterizzatosi per il “pugno duro” nei confronti delle proteste contro la riforma pensionistica ed ancora di più di quelle successive all’uccisione del giovane Nahel a Nanterre, ha invitato le forze dell’ordine alla moderazione, affermando che “non dovranno intervenire nei blocchi”, ma solamente “metterli in sicurezza”.

L’“assedio” a Parigi non è l’unica azione che la categoria sta mettendo a segno, dopo aver scelto il blocco degli accessi autostradali come forma di protesta.

Proprio il capo dell’esecutivo si è recato questa domenica mattina in visita ad una exploitation maraichère nella Indre-et-Loire prendendosela con le “ingiunzioni contraddittorie” che sono a suo parere imposte al mondo agricolo.

«Si lascia ancora troppo spazio ai discorsi che non considerano gli agricoltori, che li fanno passare per dei banditi, per coloro che inquinano», ha affermato Attal, aggiungendo che «la loro considerazione è assolutamente necessaria».

Il capo dell’esecutivo ha rivendicato con fierezza il settore agricolo come parte dell’identità francese, rimarcando il fatto che ciò che è in gioco «è anche l’indipendenza e la sovranità. Vogliamo dipendere di meno dagli altri e più da noi stessi».

Il governo intende quindi incanalare le proteste all’interno di questo binario, scegliendo la via del dialogo con la maggiore coalizione di forze del settore per limitare il più possibile l’impatto dell’azione degli agricoltori; anche per togliere spazio al possibile sfruttamento della protesta, in chiave elettorale, da parte dell’estrema-destra.

Anche la Presidente del gruppo parlamentare del RN (ex-FN) e tre volte candidata alla presidenza Marine Le Pen si è recata in un’azienda agricola nel Nord (Radinghem-en-Wappes) ed ha esortato il governo a «mettere in piedi un grande piano di salvataggio dell’agricoltura» e a far «uscire l’agricoltura dagli accordi di libero scambio»

Domenica, sul canale televisivo BFM-TV, il ministro dell’agricoltura, Marc Fesneau ha annunciato delle “misure complementari” a quelle per ora annunciate da Gabriel Attal ma che saranno rivelate dall’esecutivo “da martedì”.

Lunedì mattina, poi, su France 2, Fesneau ha di fatto affermato che l’annuncio delle misure sarà anticipato per «dare prova della volontà del governo di uscire dalla crisi, ma soprattutto di portare delle risposte concrete».

Il governo aveva annunciato alcune misure “tampone” come quella di soprassedere all’innalzamento della tassa sul gasolio agricolo (GNR), di disporre gli aiuti d’emergenza agli allevatori di bovini toccati per una malattia emorragica (MHE) – il cosiddetto “Covid delle vacche” – semplificare le procedure burocratiche e fare applicare la legge EGalim, destinata ad assicurare degli introiti decente agli agricoltori.

La FNSEA, che è la principale associazione di categoria degli agricoltori, chiede tra l’altro, la soppressione delle zone di divieto di trattamento ai prodotti fitosanitari (le ZNT), che fissa delle distanze di sicurezza in prossimità delle abitazioni per l’impiego di certi pesticidi.

Allo stesso tempo si oppone alla restrizione dell’uso di alcuni pesticidi e alcuni divieti di impiego di prodotti fitosanitari che sono in corso di discussione nel quadro del rinnovamento del piano Ecophyto.

Chiedono che la Francia porti a Bruxelles l’opposizione alla misura prevista dalla nuova politica agricola comune del mettere a riposo il 4% delle terre coltivabili. Una misura che riguarda soprattutto le aziende delle grandi culture cerealicole e non solo.

La FNSEA, fondata nel 1946 e comprendente la Federazione di allevatori dei bovini (FNB), punta il dito particolarmente contro gli accordi di libero-scambio e rappresenta quella parte del mondo agricolo più afferente all’agro-business ed ad un’agricoltura ad alto impatto ambientale e dei “grandi allevatori”.

È la prima organizzazione ad avere incontrato il nuovo capo dell’esecutivo, inviando lo scorso martedì un centinaio di richieste al governo, insieme ai Jeunes Agriculteurs, giovani sotto i 35 anni che hanno una azienda agricola che si dicono “apolitici ed indipendenti”, con cui costituisce la coalizione più forte.

Il loro principale rivale è la Coordination Rurale, fondata nel 1992 da agricoltori che si opponevano alla politica agricola comune in sede UE, e si collocano per così dire più “a destra” della FNSEA. Sono molto presenti ai blocchi, sono principalmente sostenuti dall’estrema destra.

La Confédération paysanne, fondata nel 1987, ha un orientamento decisamente più progressista ed è attenta ai temi ambientali, anche se condivide una parte delle richieste della FNSEA.

Integra la protesta e fa della giusta remunerazione uno degli assi centrali delle proprie rivendicazioni, in attesa di misure strutturali «con dei prezzi minimi garantiti, la regolazione dei mercati (compreso in Europa) e della gestione dei volumi».

Si lamenta dell’ascolto da parte del governo delle istanze “produttiviste” della FNSEA che «vanno a indebolire le norme e accelerare la concorrenza tra agricoltori», favorendo di fatto l’agro-business a discapito dei più piccoli coltivatori diretti.

Certamente è favorevole ad un alleggerimento dei carichi amministrativi, ma «senza che questo metta in discussione le norme che proteggono la nostra salute, i nostri diritti sociali ed il nostro pianeta».

Il movimento, partito di fatto il 18 gennaio sulla base del malessere a lungo inascoltata dello stratificato mondo rurale, è un “campo di battaglia” per le stesse associazioni di categoria che rappresentano porzioni e spaccati diversi dell’universo agricolo francese, già in parte emerso durante il movimento dei giletes jaunes.

Il tasso di povertà tra i contadini/allevatori è del 17%, più elevato che quello tra impiegati ed operai e comunque “il doppio” di quello della popolazione generale.

Una situazione aggravata recentemente dall’inflazione che ha aumentato il costo dell’energia, in particolare per ciò che concerne il “gasolio agricolo”.

Secondo uno studio, ogni giorno due agricoltori in Francia si toglierebbero la vita.

La concorrenza è sempre più pesante, aggravata dalle politiche decise dalla UE nel giugno 2022 di sostegno ai prodotti alimentari ucraini a cui sono stati temporaneamente sospese le tasse doganali nonostante non faccia parte dell’Unione e non è sottoposta alle normative vigenti per i produttori agricoli degli stati membri.

Questo combinato disposto ha prodotto una frustrazione crescente che si esprime in questo variegato movimento, la prima crisi politica del nuovo governo del Presidente Macron a qualche mese dalle elezioni europee.

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L’assist ‘inatteso’ di Sabino Cassese all’autonomia differenziata

Il giudice emerito della Corte Costituzionale, Sabino Cassese, nel corso di un’intervista andata in onda nel corso della trasmissione di Rai3, In mezz’ora, si è espresso così sul disegno di legge del governo di autonomia differenziata:

“Le regioni che hanno più muscoli nelle gambe correranno, quelle che ne hanno di meno andranno più lentamente ma questo potrà essere uno stimolo per le regioni che vanno più lentamente per esercitare i propri muscoli”.

In altre parole: chi può, fa, chi non può “si alleni i muscoli”, ovvero, basta con la solidarietà nazionale e via al darwinismo regionale. E così il già martoriato e sempre più ignorato Mezzogiorno sprofonderà definitivamente e sarà consegnato, una volta per tutte, a mafia, camorra e ‘ndrangheta.

I 13 miliardi stanziati con la legge di bilancio 2024 per il famigerato “ponte sullo stretto” hanno dato già un segnale netto in questa direzione.

Se sarà approvato definitivamente il disegno di legge sull'“autonomia differenziata” del ministro Calderoli (già passato al Senato il 22 gennaio scorso), grazie alla clausola che l’operazione dovrà essere portata avanti “senza oneri aggiuntivi” per lo Stato (ovvero, a costo zero), ogni Regione dovrà arrangiarsi con i propri fondi con buona pace della Costituzione che – all’articolo 5 – prevede che i diritti sociali (sanità, istruzione, ecc.) debbano essere uguali ed accessibili su tutto il territorio nazionale.

Si tratta dei Livelli Essenziali delle Prestazione (LEP) eppure previsti dall’articolo 117 del novellato titolo V della Costituzione secondo il quale “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”.

In buona sostanza, con il nuovo titolo V, venne affidata allo Stato e alle regioni la competenza “concorrente” su una lunga serie di materie ma, a condizione che venissero “determinati i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”.

Il ministro leghista per gli Affari regionali Calderoli dice di voler dare attuazione a quanto previsto dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione ai sensi del quale – sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata – possono essere attribuite alle regioni a statuto ordinario, che ne facciano richiesta, forme e condizioni particolari di autonomia in 23 materie.

Si va dalla Salute all’Istruzione, dallo Sport all’Ambiente, passando per Energia, Trasporti, Cultura e Commercio Estero. Ed al tal fine, il disegno di legge “Autonomia differenziata” prevede la possibilità, da parte delle stesse regioni, di trattenere il gettito fiscale legato alle erogazioni del servizi per l’utilizzo di quelle risorse sul proprio territorio.

Ma il disegno di Legge Calderoli non ha sciolto il suo nodo principale: le funzioni autonome doverebbero essere attribuite solo dopo aver determinato proprio i LEP, ovvero il livello minimo di servizi da rendere al cittadino in maniera uniforme in tutto il territorio nazionale.

I fautori della norma sostengono che per evitare squilibri economici fra le regioni che aderiscono all’autonomia e quelle che non lo fanno il disegno di legge introduce “misure perequative”.

Altro che: se il disegno di legge venisse approvato definitivamente, il ruolo delle Regioni, sia ordinarie che autonome (ex art.116 comma 3 Cost.) si ridurrebbe a quello di “agenti regionali” dello smantellamento del SSN e della Privatizzazione della Sanità.

Lo si deduce abbastanza facilmente proprio nella parte del DL Calderoli che riguarda i LEP: l’art. Art. 9 esclude “nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”; l’art. 4 comma li vincola nei “limiti delle risorse rese disponibili nella legge di bilancio”.

Del tutto privo di sostanza, infine, l’emendamento di Fratelli d’Italia che, sempre all’art. 4, inserisce il “vincolo dell’incremento delle risorse sull’intero territorio nazionale”. Quali risorse e come se ne determirebbe l’incremento, non è dato sapere.

E a pagarne le spese sarebbe, innanzitutto, il nostro Servizio Sanitario Nazionale già gravemente eroso da un massiccio processo di privatizzazione e finanziarizzazione.

Ne sono conferma il “combinato disposto” tra la Legge Bilancio 2024, il decreto milleproroghe 2024, e lo stesso DDL n. 615-A Calderoli, così come modificato in Commissione Affari Costituzionali e in Aula in Senato.

La legge di Bilancio 2024, infatti, ha stanziato per il Fondo Sanitario Nazionale circa 131 Miliardi di euro; inferiore di 10 miliardi a fronte dei 141 Mld, stimabili senza incrementi, rispetto all’anno 2022 per effetto dell’inflazione cumulativa pari al 9%.

Con gli stessi criteri la spesa privata diretta sarebbe di 43,5 Mld, ben 3,5 superiore a quella del 2022. In qualsiasi caso è evidente che, nel 2024, il FSN sarà ancor più insufficiente a finanziare il SSN, e non sarà certo la ulteriore sua frammentazione in 21 Servizi Sanitari Regionali a risolvere questo problema.

Eppure, a luglio dell’anno scorso, il gruppo dei “big” chiamati dal governo a far parte del “Comitato per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, preliminari per l’Autonomia differenziata”, presieduto proprio da Sabino Cassese e di cui facevano parte Giuliano Amato, Franco Gallo (ex presidente del Consiglio di Stato), Alessandro Pajno e l’ex ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini (ex Pci-Pds-Pd, cui dobbiamo la famigerata legge 59/1997 che fece da battistrada alla catastrofica riforma del titolo V della Costituzione), si era dimesso in blocco dal Comitato in ragione dei dubbi sollevati sui costi legati ai LEP, cioè i livelli essenziali delle prestazioni indispensabili per garantire in tutto il territorio nazionale i «diritti civili e sociali» tutelati dalla Costituzione.

E lo aveva fatto con una lettera aperta in cui era scritto, nero su bianco, che servivano assolutamente dei “correttivi su come impostare e finanziare i Livelli essenziali delle prestazioni”. La risposta, come abbiamo visto, è stata soltanto ed esclusivamente, una risposta di facciata con l’emendamento di Fratelli d’Italia in cui si fa riferimento ad astratti ed indeterminati “criteri equitativi“.

Ecco perché l’endorsement di ieri di Sabino Cassese alla riforma Calderoli ci appare come una inspiegabile giravolta del professore.

Certo, a ben vedere, anche la “riforma costituzionale” voluta da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi – poi bocciata dal referedum confermativo del 2015 – aveva incassato il pieno sostegno di Cassese, oltre che dall’altro insigne dinosauro, Giuliano Amato, sopravvissuto a tre Repubbliche.

Insomma, in quanto a condiscendenza nei confronti dei “riformatori” di turno, il professore aveva già evidenziato una spiccata propensione.

In ogni caso, c’è solo da darsi da fare perché questo abominio dell’autonomia differenziata faccia la stessa fine della riforma di revisione della Costituzione “Renzi-Boschi” insieme all’altra porcata del “premierato”.

Il combinato disposto delle due cose sarebbe un vero disastro per un paese già devastato da decenni di malgoverno regionale, da privatizzazioni selvagge e dagli attacchi feroci degli ultimi anni a sanità, istruzione e servizi al cittadino (ovvero, a quel poco che ancora rimane in piedi del nostro Welfare e della prima parte della Costituzione) oltre a spingere verso il pericoloso piano inclinato di un’ulteriore torsione autoritaria ed antidemocratica.

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