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24/01/2024

Una guerra civile tutt’altro che nascosta

di Sandro Moiso

Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval, Pierre Sauvêtre, La scelta della guerra civile. Un’altra storia del neoliberalismo, Meltemi Editore, Milano 2023, pp. 314, 20 euro

Per chi, come il sottoscritto, ha scritto una serie di articoli e curato una raccolta di saggi sull’odierna guerra civile scatenata dal capitale contro i cittadini delle classi meno abbienti e medie, rappresenta davvero una interessante sorpresa la pubblicazione in Italia della raccolta di saggi di Pierre Dardot (ricercatore in Filosofia presso l’Università di Parigi Nanterre), Haud Guéguen (docente di Filosofia presso il Conservatorio nazionale delle arti e dei mestieri di Parigi), Christian Laval (professore emerito di Sociologia all’Università di Parigi Nanterre) e Pierre Sauvêtre (docente di Sociologia presso l’Università di Parigi Nanterre) sullo stesso argomento e, ancor di più, scoprire che l’edizione originale di La scelta della guerra civile è uscita in Francia nel 2021. Lo stesso anno, appunto, in cui il redattore di queste note ha curato la pubblicazione di Guerra civile globale per l’editore Il Galeone di Roma.

Le similitudini non si fermano però soltanto ai titoli o alla data di prima pubblicazione poiché, in entrambi i casi, al centro dell’analisi ci sono le strategie economiche e repressive, oltre che politiche, messe in atto soprattutto in gran parte del mondo occidentale dai governo variamente neoliberisti che si sono alternati al governo degli stati presi in considerazione. Come si afferma nella Prefazione del testo qui recensito:

Quest’opera s’inscrive nella riflessione collettiva del Gruppo di studio sul neoliberalismo e le sue alternative (GENA). Questo gruppo, costituitosi nell’autunno del 2018, è transdisciplinare e internazionale. In particolare, esso si è dato come oggetto l’osservazione e l’analisi delle metamorfosi del neoliberalismo, considerandolo sotto l’angolazione delle sue varianti strategiche […] così come la diffusione su larga scala di modelli di governo nazionalisti, autoritari e razzisti, è stato il punto di partenza del nostro lavoro collettivo sul ruolo della violenza e la dimensione della guerra civile nella storia del neoliberalismo1.

D’altra parte, come potrebbe accadere, come testimoniano i dati forniti dall’ultimo rapporto Oxfam, che dal 2020 allo scorso novembre, i 5 uomini più ricchi del mondo ( Elon Musk, Bernard Arnault, Jeff Bezos, Larry Ellison e Warren Buffett) hanno più che raddoppiato le proprie fortune (+ 114%), da 405 a 869 miliardi di dollari a un ritmo di 14 milioni l’ora, mentre i 5 miliardi di persone più povere del pianeta hanno visto rimanere sostanzialmente invariate o peggiorate le proprie condizioni (-0,2%), se non per mezzo di una coercizione sempre più violenta esercitata nei confronti di queste ultime, sia in termini di estrazione di pluslavoro attraverso l’intensificazione dello sfruttamento individuale e collettivo che di negazione dei servizi minimi necessari alla conduzione di una vita degna di questo nome?

Tali dati, confermando le affermazioni di Marx invece più sbeffeggiate dai rappresentanti della “scienza economica” istituzionale, ovvero quelle sull’impoverimento crescente della popolazione nel corso dello sviluppo capitalistico, non fanno altro che ricordare come ormai da anni, o forse da sempre, non soltanto gli uomini più ricchi (dato comunque relativo) ma l’intero sistema di appropriazione privata della ricchezza collettivamente prodotta, non si fondi altro che su una guerra continua condotta contro le classi meno abbienti da parte di coloro che detengono, soprattutto nel Nord del mondo (come rivelano ancora i nomi dei cinque uomini più ricchi), gran parte delle ricchezze e del potere politico “reale”, non formalizzato certo soltanto nelle istituzioni democratiche parlamentari o consimili. Soprattutto a partire dal trionfo politico e ideologico del neoliberalismo, come si afferma ancora nell’introduzione allo stesso testo.

Il neoliberalismo muove sin dalle sue origini da una scelta effettivamente fondativa, la scelta della guerra civile. Questa scelta continua ancora oggi, direttamente o indirettamente, a comandare gli orientamenti e le politiche neoliberali, anche quando questi non implicano l’uso di mezzi militari.
È questa la tesi sostenuta da un capo all’altro del libro: attraverso il ricorso sempre più manifesto alla repressione e alla violenza contro le società, ciò che si sta realizzando oggi è una vera e propria guerra civile […] Adottando questo punto di vista, apprendiamo che la politica può perfettamente far suo l’uso più brutale della violenza e che la guerra civile può essere combattuta attraverso il diritto e la legge2.

Come afferma ancora il rapporto Oxfam, tra il luglio 2022 e il giugno 2023, per ogni 100 dollari di profitto generati da 96 tra le imprese più grandi del mondo, 82 sono finiti nelle tasche degli azionisti sotto forma di dividendi o di operazioni di riacquisto (buyback) invece di essere reinvestiti nello sviluppo delle aziende, causando così una sorta di soffocante spirale economica in cui la ricchezza si accumula su se stessa senza produrre alcun altro beneficio che non la crescita di capitale azionario e monetario già detenuto dagli stessi.

Un accumulo di ricchezza privo di qualsiasi altra prospettiva che non la ripetizione infinita dello stesso ciclo, anche a costo di guerre condotte all’interno contro le stesse popolazioni, anche nel Nord del mondo, oppure contro qualsiasi altro possibile competitor sia nazionale che internazionale, statale o privato.

Vale proprio per ciò la pena di ricordare che il 74,2% della ricchezza dei miliardari globali è concentrata nel Nord globale e che di questi il 65% è concentrato ancora nella stessa area geo-economica. Mentre il 69,3% della ricchezza globale è concentrata ancora nel Nord, dove però risiede soltanto il 20, 6% della popolazione mondiale. Non a caso, forse, è proprio in una parte di mondo non pienamente considerabile come appartenente al Nord, il Cile, che, nel 2019, ha inizio una formidabile e spietata repressione dei movimenti nati inizialmente per contestare l’aumento del costo dei biglietti della metropolitana di Santiago.

Il 20 ottobre 2019, due giorni dopo l’inizio dei disordini nella metropolitana di Santiago a causa dell’aumento delle tariffe dei biglietti, il presidente cileno Sebastián Piñera non ha esitato a dichiarare lo Stato di guerra in questi termini: “Siamo in guerra con un nemico potente, implacabile, che non rispetta niente e nessuno ed è pronto a usare la violenza e la delinquenza senza alcun limite”. Per i cileni che lo ascoltano, questo utilizzo del termine “guerra” non ha niente di metaforico: l’esercito ha il compito di far rispettare l’ordine e i veicoli blindati ricompaiono per le strade di Santiago, riportando i più anziani a sinistri ricordi, quelli del colpo di Stato militare di Augusto Pinochet dell’11 settembre 1973. Nelle settimane successive, i Carabineros si assumeranno il compito di dare alla parola “guerra” un senso molto preciso, quello dello scatenarsi violento dello Stato contro comuni cittadini (stupri nei commissariati di polizia, auto della polizia lanciate sui manifestanti al fine di schiacciarli, centinaia di manifestanti feriti agli occhi o che hanno perso la vista a causa dell’utilizzo di proiettili contenenti piombo, ecc.).
Ma qual era il volto del “potente e pericoloso nemico” designato da Piñera? Il 18 ottobre 2019 debutta il movimento noto come “Risveglio d’ottobre”. In pochi giorni, questo movimento orizzontale, senza leader o capi politici, ha assunto la dimensione di una vera e propria rivoluzione popolare, senza precedenti per durata e intensità. È tutta la diversità della società a fare rumorosamente irruzione nello spazio pubblico. È significativo che gli striscioni femministi e le bandiere dei Mapuche si siano mischiati nelle manifestazioni. Le donne cilene sono state schiacciate da un familiarismo che esigeva da loro sempre più sacrifici, i Mapuche sono stati vittime di una “colonizzazione autoritaria interna”. Senza dubbio la guerra dichiarata da Piñera è una guerra civile, una guerra che richiede la costruzione discorsiva e strategica della figura del “nemico interno”. Nasce dalla scelta, da parte dell’oligarchia neoliberale, di fare guerra a un movimento di massa di cittadini che minacciano direttamente il suo dominio. Un graffito onnipresente sui muri lo mostra: “Dove il liberalismo è nato, il liberalismo morirà”3.

Slogan particolarmente significativo, quest’ultimo, poiché proprio in Cile, a partire dal ricordato golpe di Pinochet e dei suoi generali, la scuola economica dei Chicago Boys di Milton Friedman, antesignana del neoliberalismo, poté sperimentare ed esercitare in piena libertà le proprie teorie e pratiche di ridistribuzione della ricchezza esclusivamente verso l’alto4. Insomma, fu un golpe, un’autentica dichiarazione e pratica di guerra contro la società, a dare inizio a quelle leggi economiche che oggi giustificano tutte le scelte portate avanti dal capitale finanziario a livello nazionale e globale.

Nel periodo preso in esame dall’ultimo rapporto Oxfam:

Per quasi 800 milioni di lavoratori occupati in 52 paesi i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione e anzi il monte salari ha visto un calo in termini reali di 1.500 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022, una perdita equivalente a uno stipendio mensile per ciascun lavoratore. […] Vale naturalmente anche per l’Italia, dove dal 2000 a oggi, le quota di ricchezza nazionale netta detenute dal 10% più ricco e dalla metà più povera della popolazione italiana hanno mostrato un andamento divergente. La quota di ricchezza detenuta dal top-10% è cresciuta di 3,8 punti percentuali nel periodo 2000-2022, mentre la quota della metà più povera ha mostrato un trend decrescente, riducendosi nello stesso periodo di 4,5 punti percentuali5.

Così mentre un’opposizione da operetta, soprattutto nel Bel Paese, si preoccupa di braccia levate nel corso di manifestazioni folkloristiche più che politiche oppure di levare nei teatri urla commosse in difesa della “repubblica antifascista”, la vera guerra civile dichiarata dal Capitale e dai suoi funzionari e profittatori contro i lavoratori, i disoccupati, le donne, gli immigrati e le classi medie impoverite continua a svilupparsi sotto gli occhi di tutti, anche nel cuore di quello che è stato definito fino ad ora come “Nord” del mondo.

Lo spettro della guerra civile non è mai stato brandito tanto quanto durante le ultime settimane della campagna presidenziale americana, mentre si producevano violenti scontri tra suprematisti bianchi e manifestanti antirazzisti a Portland o a Oakland. L’editorialista Thomas Friedman non ha allora esitato ad affermare sulla CNN che gli Stati Uniti erano alla vigilia di una seconda guerra civile. […] Lo spettacolo dell’irruzione del 6 gennaio 2021 a Washington ha rivelato un movimento radicato nelle profondità della società americana. Tutte queste violenze non svelano una classica guerra civile in cui due eserciti si affrontano, come durante la guerra di Secessione, ma una divisione profonda e duratura tra due parti della società, per troppo tempo occultata dal prisma deformante dell’opposizione elettorale tra democratici e repubblicani, e che oggi si presenta come una singolare forma di guerra civile. È troppo facile vedere in Trump un demiurgo che avrebbe creato questa divisione all’interno di una società in precedenza pacifica. Quello che Trump ha saputo fare è stato reinvestire su divisioni molto antiche, razziali, sociali e culturali, per meglio attizzarle a proprio vantaggio, ravvivando in particolare l’immaginario sudista fatto di schiavismo e di razzismo […] Ma la cosa più importante per il futuro è senza dubbio che Trump sia riuscito a tenere insieme intere fasce della popolazione, aumentando anche in modo significativo il numero di voti a suo favore tra il 2016 e il 2020 (da 63 milioni a 73 milioni nel 2020). Questa polarizzazione è stata resa possibile solo da una contrapposizione di valori, quelli della libertà e dell’uguaglianza o della libertà e della giustizia sociale […] È infatti questa contrapposizione ad aver dato senso all’odio o al risentimento provati da gran parte di questi elettori. Come dice Wendy Brown, il più grande risultato dei repubblicani in queste elezioni è stato quello di “identificare Trump con la libertà”: “Libertà di resistere ai protocolli anti-Covid, di abbassare le tasse ai ricchi, di espandere il potere e i diritti delle aziende, di cercare di distruggere ciò che resta di un Stato regolatore e sociale”6.

Ma, come si afferma ancora nello stesso testo:

Non possiamo attribuire all’estrema destra il monopolio della strategia neoliberale. La cosiddetta sinistra “di governo” […] ha condotto dagli anni Ottanta questa stessa guerra, certo in maniera più elusiva, ma sempre con terribili effetti sui rapporti di forza e sulle possibili alternative. Non solo non ha difeso le classi lavoratrici e non ha protetto i servizi pubblici, ma li ha impoveriti e indeboliti in nome del “realismo”, vale a dire in nome dei vincoli della globalizzazione o dei trattati europei, a seconda dei casi. L’ascesa del neoliberalismo nazionalista della destra radicale non avrebbe potuto captare il risentimento delle classi popolari senza questa partecipazione attiva della “sinistra” all’offensiva neoliberale7.

Sinistra di governo che, ammantandosi sempre di politically correct, nel tentativo di smarcarsi dalle proprie responsabilità politiche e amministrative all’interno dell’azione statale messa in atto da governi solo apparentemente diversi per orientamento ideologico, ha cercato ripetutamente di sottolineare come:

l’emergere di una destra autoritaria, nazionalista, populista e razzista corrisponde a uno sviluppo “mostruoso”, a una “creazione frankensteiniana” del neoliberalismo delle origini – quello di Friedrich von Hayek, Milton Friedman o degli ordoliberali tedeschi, che era incentrato sulla difesa del libero mercato e della morale tradizionale. […] Per altri ancora, l’attuale risorgenza della versione “autoritaria” del neolibealismo risalente agli anni Trenta sarebbe “l’espressione del suo indebolimento politico”, della sua “crisi di egemonia avanzata”. In ogni caso, il neoliberalismo, considerato a partire dalle sue forme contemporanee, starebbe subendo uno snaturamento o una degenerazione […] Tuttavia, se affrontato nella sua dimensione strategica, il neoliberalismo sembra essere sempre stato coinvolto in un insieme di relazioni (di composizione o di alleanza, ma anche di antagonismo) con altre razionalità politiche, essendosi quindi confrontato fin dall’inizio con l’obbligo di designare i nemici e di riflettere sulle modalità d’azione che avrebbero potuto garantire l’efficacia dell’offensiva. Riconoscere questa dimensione strategica del neoliberalismo implica come conseguenza il riproporre la questione delle sue origini storiche, per mostrare quanto il ruolo della strategia sia stato centrale sin dall’inizio8.

Ed è proprio questa indagine storica sulle forme e le strategie del neoliberalismo a costituire una delle parti più interessanti e convincenti del testo che, nel suo insieme , risulta diviso in dodici capitoli, ognuno destinato ad approfondire aspetti diversi dell’azione e della storia del neoliberalismo.

Si inizia dal Cile, con un capitolo significativamente intitolato Il Cile, la prima controrivoluzione liberale (pp. 29-54), per poi proseguire con la Demofobia liberale (pp. 55-71), l’Apologia dello Stato forte (pp. 73-95), Costituzione politica e costituzionalismo di mercato (pp. 97-117), Il neoliberalismo e i suoi nemici (pp. 119-141), Strategie neoliberali dell’evoluzione sociale (pp. 143-167), La falsa alternativa tra globalisti e nazionalisti (pp. 169-189), La guerra dei valori e la divisione del “popolo” (pp. 191-211), Sul fronte del lavoro (pp. 213-229), Governare “contro” le popolazioni (pp. 231- 247), Il diritto come macchina da guerra neoliberale (pp. 249-266) e Neoliberalismo e autoritarismo (pp. 267-294).

La raccolta di saggi, tutti rigidamente e consequenzialmente collegati l’uno all’altro, costituisce così un perfetto manuale politico per l’analisi del neoliberalismo, ultima e più recente del dominio del capitale sulla società e il mondo intero, dando vita, contemporaneamente, ad una autentica enciclopedia storico-politica sul tema della guerra civile come normale condizione di esistenza dell’ordine sociale dettato dall’attuale modo di produzione.

contrariamente a quanto sostiene il discorso del potere, la guerra civile non è ciò che lo minaccia dall’esterno: lo abita, lo attraversa e lo implica, perché “esercitare il potere è in un certo modo fare la guerra civile”. In questo modo, la guerra civile funziona come “una matrice all’interno della quale operano gli elementi del potere, si riattivano, si dissociano”. È in tal senso che si può sostenere che, lungi dal porre fine alla guerra, “la politica è la continuazione della guerra civile” 9. […] Agli antipodi di una politica di protezione statale dei rischi sociali a opera dello Stato, lo Stato neoliberale mira a costruire il mercato e a proteggerlo dalle minacce di regolamentazione e di controllo da parte di uno Stato abusivo. Ma per adempiere a questa missione, lo Stato deve rimanere costantemente sul piede di guerra al fine di evitare che la democrazia interferisca sull’economia. Se siamo stati in grado di mostrare la natura “costruttivista” di un neoliberalismo che dà forma a un ordine economico concorrenziale, diventa di conseguenza necessario dare pieno risalto alle strategie di guerra civile condotte dai governi neoliberali contro tutto ciò che minaccia la “società libera”: governi e partiti socialisti, sindacati e movimenti sociali in lotta per rivendicazioni economiche, ecologiche, femministe o culturali. Una guerra che assume essenzialmente due forme: l’istituzione di uno Stato forte e la repressione di tutte le forze sociali e dei movimenti che si oppongono a questo progetto.
Vedere un’“ambiguità”, un “fallimento” o un “segno di crisi” nel fatto che la governamentalità neoliberale possa ricorrere contemporaneamente a forme costituzionali e a forme dirette di repressione statale significa, quindi, mancare proprio ciò che fa la coerenza strategica del neoliberalismo, poiché comprende appieno l’idea della necessità, almeno in certe situazioni, di ricorrere alla violenza. Occorre tuttavia precisare che la violenza neoliberale non è una violenza di tipo fascista, che si eserciterebbe contro una comunità designata come estranea al corpo della nazione, ma, sebbene possa mobilitare gli effetti di tale comunità, è innanzitutto caratterizzata dalla violenza conservatrice dell’ordine di mercato, rivolta contro la democrazia e la società. I neoliberali hanno la convinzione che la posta in gioco nell’ordine di mercato, molto più che una scelta di politica economica, sia un’intera civiltà, basata principalmente sulla libertà e la responsabilità individuali del cittadino-consumatore. Ed è perché la “società libera” poggia su tale fondamento che lo Stato, con tutte le sue prerogative, continua a mantenere un ruolo chiave, e ha persino il dovere di utilizzare i mezzi più violenti e più contrari ai diritti umani, se la situazione lo richiede. 10.

Per concludere, lasciando al lettore il piacere di trovare nel testo mille altri spunti di riflessione sull’azione “civilizzatrice” e fomentatrice di guerre intestine e esterne da parte del neoliberalismo, vale la pena di riprendere un’altra considerazione, contenuta nello stesso, adatta a riassumere il senso della guerra messa in atto dal capitalismo di stampo neoliberale e delle sue conseguenze sociali, politiche e repressive.

In primo luogo queste guerre, condotte su iniziativa dell’oligarchia, sono guerre “totali”: sociali, in quanto mirano a indebolire i diritti sociali delle popolazioni; etniche, in quanto cercano di escludere gli stranieri da qualsiasi forma di cittadinanza, in particolare limitando sempre più il diritto di asilo; politiche e giuridiche, in quanto utilizzano i mezzi della legge per reprimere e criminalizzare qualsiasi resistenza e contestazione; culturali e morali, in quanto attaccano i diritti individuali in nome della difesa più conservatrice di un ordine morale, spesso riferito ai valori cristiani. In secondo luogo, in queste guerre le strategie sono differenziate, si sostengono e alimentano a vicenda, ma non danno luogo a una strategia globale unitaria le cui strategie nazionali o locali sarebbero solo particolarizzazioni. In terzo luogo, esse non oppongono direttamente un “ordine globale” di tipo imperiale, anche se guidato da una potenza egemone, a popolazioni prese in blocco, così come non oppongono due regimi politici o due sistemi economici l’uno all’altro. Esse contrappongono oligarchie coalizzate ad alcune fasce della popolazione, con il sostegno attivo di altre fasce della popolazione. Ma questo sostegno non è mai dato in anticipo; deve essere ottenuto ogni volta, strumentalizzando le divisioni esistenti, soprattutto quelle più arcaiche. È così che queste strategie vanificano qualsiasi schema dualistico. Le guerre civili del neoliberalismo sono appunto civili, in quanto non contrappongono l’“1%” al “99%”, secondo uno slogan tanto famoso quanto fallace, ma mettono in tensione e quindi mettono insieme diversi tipi di raggruppamenti, secondo linee di clivaggio molto più complesse di quelle dell’appartenenza a classi sociali: le oligarchie coalizzate, che difendono l’ordine neoliberale con tutti i mezzi dello Stato (militari, politici, simbolici); le classi medie, che hanno aderito al neoliberalismo “progressista” e al suo discorso sui vantaggi della “modernizzazione”; una parte delle classi popolari e medie, il cui risentimento è catturato dal nazionalismo autoritario; infine, un ultimo tipo di raggruppamento, che si è formato in gran parte tra le mobilitazioni sociali contro l’offensiva oligarchica e che rimane legato a una concezione egualitaria e democratica della società (in cui troviamo in particolare le minoranze etniche, sessuali e delle donne)11.

In occasione della prima edizione del festival Meltemi, che si terrà alla Zam (Zona Autonoma Milano), via Sant’Abbondio 4, dal 26 al 28 gennaio con il titolo Cronache dalla fine dell’impero, La scelta della guerra civile verrà presentato il 27 gennaio da Max Guareschi, Andrea Fumagalli e Vittorio Morfino.

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