Vale la pena di approfondire la tendenza, abbastanza diffusa, che porta a considerare la guerra tra Israele e Palestina come un conflitto religioso. Conflitto da cui i comunisti dovrebbero tenersi fuori dal momento che, per chi guarda alla realtà attraverso la prospettiva del materialismo dialettico, la religione va considerata come l’oppio dei popoli.
Per approfondire la questione è necessario fissare due punti:
1) cosa intendiamo, riferendoci a Marx, per religione;
2) cosa intendiamo con l’espressione “guerre di religione” (espressione che abbonda non soltanto nei resoconti dei media ma anche sui libri di storia nell’analisi dei conflitti e delle guerre).
L’oppio dei popoli
Questa definizione si accompagna sempre alla locuzione “come ha detto Marx la religione è…”. Ma se vogliamo veramente entrare nel senso di questa celebre espressione, dobbiamo sottrarci a qualsiasi semplificazione da social network: Marx non poteva certo accompagnare questa frase all’immagine di qualche pittoresca sfilata di santi, icone o flagellanti – come fosse autoevidente nel suo significato. Per coglierne il senso originario nella sua complessità vale quindi la pena di riportarla per esteso, nel suo contesto discorsivo:
«Il fondamento della critica irreligiosa è: l’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. Infatti, la religione è coscienza di sé e il sentimento di sé dell’uomo che non ha ancora conquistato o ha già di nuovo perduto se stesso. Ma l’uomo non è un’entità astratta posta fuori dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il suo universale fondamento di consolazione e giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque, mediatamente, la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale.
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.»
Tale brano è tratto da “Per la critica della filosofia del diritto di Hegel”. Tradotta più volte in diversi modi, non può però essere confusa nel suo significato, se la leggiamo per intero, anche usando la trascrizione reperibile su Wikipedia.
Il pensiero di Marx è, in assoluto, non riducibile mai a una affermazione diretta e incontrovertibile, dogmatica. Per Marx la realtà va affrontata con un metodo: la dialettica. La religione, data la sua enorme importanza nel mondo, non può quindi essere dileggiata. A dire il vero, il filosofo tedesco, nella sua critica al capitalismo, non denigrò neppure quello, lo analizzò, ne valutò l’importanza storica nello sviluppo dell’umanità e ne rivelò l’intima struttura transitoria mettendone in evidenza i meccanismi contraddittori. Sulla religione, Marx usa lo stesso metodo.
Ma analizziamo con calma. Per Marx, in generale, l’antitesi dialettica è tra la religione come “sospiro degli oppressi” e come “oppio dei popoli”. Il sospiro degli oppressi è quindi ciò che deve, per forza di cose e del contesto, emergere in ciò che Marx descrive come mondo capovolto.
La lotta contro la religione è quindi la lotta contro il potere che la determina. Ma rappresenta in primo luogo la difficoltà degli oppressi ad accettare quel mondo e, contemporaneamente, è la cultura che in quel mondo è accettata e sostenuta in quanto capace di stabilizzarlo. Il sospiro degli oppressi non è quindi un fardello dell’umanità, come qualcuno potrebbe credere, ma è la risposta che gli oppressi danno (un sospiro, in altre traduzioni un “grido”) in un mondo in cui non hanno ancora raggiunto la coscienza di se stessi.
Dobbiamo quindi chiederci se e in che misura viviamo in un mondo capovolto. Dobbiamo chiederci in quale modo le masse palestinesi o degli altri popoli oppressi possono aver acquisito la coscienza necessaria per una critica alle proprie condizioni sociali devastate e contemporaneamente all’ideologia religiosa, che costituisce al contempo strumento di rivalsa e forza conservatrice. O se da loro sorga almeno quel sospiro o quel grido. Se quel grido debba essere considerato come l’inizio di un processo in cui i popoli possono iniziare ad aspirare alla propria liberazione (anche dalle ideologie o false coscienze che li opprimono) oppure debba essere considerato alla stregua di una falsa coscienza che deve essere sempre combattuta come causa e non come effetto della condizione sociale in cui si è sviluppata.
Le guerre di religione
Ovviamente, il corollario necessario all’analisi marxista sulla religione, per come l’abbiamo spiegata, va portato alla conseguenza che ne deriva direttamente: le guerre di religione non esistono in quanto tali. Possono essere combattute anche attraverso l’uso strumentale della religione ma questa non è di certo la loro prima causa.
Tutto questo è talmente chiaro nella attuale situazione palestinese che non merita neppure una spiegazione approfondita. Se da un lato è sicuramente evidente la torsione messianica insita nel progetto sionista e come essa sia esacerbata dal prevalere del quadro politico maggioritario in Israele da più di 20 anni; se dall’altro lato non si può nascondere che la Resistenza Palestinese sia oggi nelle mani maggioritarie di una organizzazione politico-religiosa che si chiama Hamas, non si può tuttavia non vedere come il conflitto israelo-palestinese sia invece strettamente legato al furto ultradecennale delle terre che i colonizzatori israeliani hanno perseguito ai danni dei palestinesi. In un territorio dove la corrispondenza tra dominio territoriale ed economico è fondamentalmente assoluta.
In generale, che l’opera di colonizzazione portata avanti da Israele si ammanti di miti religiosi e che la Resistenza Palestinese trovi sostegno nella religione islamica rappresenta un caso di scuola su come le sovrastrutture culturali o religiose si innestano su quello che Marx chiama, nella citazione che abbiamo riportato per esteso, il mondo capovolto creato dalla società e dallo stato sionista.
Ma l’analisi che facciamo sulla situazione palestinese non è un caso particolare. È evidente infatti come il recente prosperare di estremismi religiosi come l’ISIS o al-Qaeda siano il frutto di situazioni capovolte che sono state create nel corso dei decenni. Attraverso l’opera di veri e propri stermini di popolazione, saccheggi di risorse, fallimenti politici e militari che l’imperialismo ha portato all’interno dei vari paesi nel corso della storia recente. Basti pensare alla guerra dell’Occidente in Iraq o alla fuga USA/NATO dall’Afghanistan, per concludere con lo sviluppo dell’estremismo islamico nelle zone del Sahel, simbolo del fallimento sociale e politico del neocolonialismo francese in Africa.
All’interno dell’errore teorico principale che considera la religione come la causa delle guerre, si innestano altre false coscienze che assumono però valori strettamente propagandistici, atti a giustificare l’esistenza e la persistenza del dominio di ristrette classi sociali ai danni delle masse popolari. Tra queste, la più comune è la voluta confusione tra organizzazioni come Hamas e come l’ISIS o al-Qaeda che serve solo a creare l’immagine di un nemico crudele, di un “male assoluto” da poter utilizzare come immagine del mostro contro il quale occorre combattere senza alcun riguardo.
L’Occidente capitalista, inteso non in senso geografico ma come blocco di potere economico del capitalismo mondiale e militare garantito dalla NATO, si trasforma quindi di fatto in un sistema in cui emerge una cultura definibile come suprematista e razzista. Creando e dipingendo uno scontro che non è di classe ma culturale. Le masse dei popoli oppressi sarebbero tali in quanto incapaci di comprendere la superiorità della cultura occidentale liberale, laica, attenta ai diritti civili, tecnologicamente avanzata.
In tutto questo non c’è nulla di nuovo: le disuguaglianze globali sono sempre state considerate dal pensiero capitalista come il risultato di un divario di sviluppo tra i paesi avanzati e i paesi del terzo mondo. Mentre noi siamo stati in grado di capire e applicare scoperte scientifiche e metodi di produzione efficaci, altri popoli sarebbero stati bloccati da ostacoli di natura culturale e religiosa. Il dominio occidentale sarebbe quindi necessario anche allo sviluppo dei popoli arretrati in quanto in grado di imporre con la forza il superamento di quegli ostacoli. Si tratta di quel “fardello dell’uomo bianco” descritto da Kipling nel 1899.
Negli anni centrali del secolo scorso, il processo di decolonizzazione di ampie parti del Pianeta, aveva scosso alcune di queste fondamenta ideologiche. Per i socialisti e i comunisti era evidente che le diseguaglianze globali erano necessarie al mantenimento e perpetuazione del potere dei capitalisti.
Non esisteva, quindi, alcun gap culturale e tecnologico, il divario sociale era l’autentico pilastro del mantenimento dell’ordine capitalista e in tal senso era evidente che la lotta dei popoli oppressi per la propria autodeterminazione era, di fatto, una lotta contro il dominio capitalista. Lo sviluppo di un pensiero laico, progressista e attento ai diritti civili era quindi necessario ma solo se in rapporto diretto con le lotte per l’indipendenza e per nuove condizioni sociali a vantaggio dei popoli oppressi.
Anche qui, a ben vedere, si nota il ribaltamento ideologico affermato dal pensiero dominante capitalista. La cultura di un popolo (di cui l’elemento religioso è parte integrante e fondamentale) non è un dato immutabile ma deriva da condizioni sociali precise. In termini marxisti non è mai la cultura o la coscienza a determinare l’essere sociale ma il suo contrario.
Vale la pena di sottolineare ancora che queste confusioni, che si affermano in ambiti molto ampi, non sono in realtà tali per le classi dominanti. L’orrore che i media occidentali dichiarano come caratteristica di pratiche e culture considerate inferiori, è pubblicizzato a fasi alterne, a seconda delle convenienze. Infatti, ciò che viene dipinto come “male assoluto” quando sfugge di mano agli apprendisti stregoni occidentali come nel caso di al-Qaeda (filiazione degli “insorti” afghani mobilitati dagli USA in funzione antisovietica nel decennio 1979 – 1989) diventa, invece, utilizzabile propagandisticamente quando impatta “nemici sistemici” come la Cina (si veda il caso delle presunte repressioni delle etnie islamiche nella regione dello Xinjang), la Russia o la Libia e la Siria
Qui il discorso si fa quindi più prosaico. La trasformazione di Hamas nel male assoluto da combattere, va data in pasto all’opinione pubblica occidentale dipingendola come estremismo religioso, ma è semplicemente necessaria per nascondere i massacri coloniali di Israele, il rappresentante generale degli interessi capitalistici nell’area strategica, economicamente e politicamente, del Medio Oriente.
In conclusione, come comunisti non possiamo non comprendere la contraddizione che sta dietro alla predominanza politica e militare di Hamas, in campo palestinese, nel conflitto con l’entità sionista. Ma in questo conflitto dobbiamo avere presente quale è la contraddizione principale e quali sono quelle secondarie.
Ciò non significa eludere i problemi che emergono. Per utilizzare, parafrasandolo, Antonio Gramsci, siamo in una situazione in cui il vecchio sta molto male (muore) e il nuovo fatica soggettivamente a nascere (non può nascere). In questo chiaroscuro emergono mostri, ma, semplicemente, non abbiamo nessuna possibilità di restare fuori da questa battaglia. Innanzitutto occorre analizzarla con la dovuta cura. Lavorando nel contesto dato e tralasciando immaginari mondi ideali per sviluppare gli embrioni obiettivi del mondo che verrà.
Ciò che vediamo oggi è, almeno in parte, il fallimento di una strategia politica, militare ma soprattutto economica. Che si tramuta sempre di più in sconfitta ideologica. La brutalità israeliana sembra scappare di mano anche agli alleati storici del colonialismo. Le reali ragioni dei conflitti in Ucraina, in Sahel, nel Medio Oriente faticano sempre di più a essere nascoste sotto le solite false motivazioni addotte dal sistema capitalista dominante. Il conflitto contro la Cina appare sempre più come probabile atto finale della lotta per un dominio che schiaccia i subalterni in ogni parte del pianeta.
Il genocidio e il massacro in atto a Gaza, messo in relazione con il racconto puntuale dei massacri ripetuti in decenni di apartheid e colonialismo nella terra palestinese, scuote le fondamenta della propaganda dominante. Le enormi manifestazioni di dissenso che si sviluppano anche in Occidente ci raccontano anche di questo.
La crisi del dominio capitalista è una possibilità che si dà qui e ora.
Con tutti i pericoli del caso, la situazione non è immutabile, la storia è in cammino. Lottare al fianco dei popoli oppressi senza farsi travisare da ideologie e false coscienze diventa fondamentale per tutti coloro che vogliono lavorare per un mondo senza più popoli oppressi, senza sfruttatori né sfruttati.
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