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19/01/2024

Valgono poco i discorsi su fantomatici “piani di pace” ucraini

Nella valutazione dei rischi globali per il 2024 emessa al forum di Davos, a proposito del conflitto in Ucraina è detto che se questo «si intensificherà, ciò avverrà probabilmente con l’impiego di armi tradizionali e non nucleari, ma che comunque esso può estendersi ai paesi vicini.

Quantunque sia difficile prevedere gli scenari post-conflittuali sia per l’Ucraina, che per la Russia, la guerra potrebbe “congelarsi” in un conflitto prolungato, che potrebbe protrarsi per anni o addirittura decenni».

Dal punto di vista economico, si prevede che la Russia, a dispetto delle sanzioni, continui a incamerare profitti dall’esportazione di risorse energetiche e materie prime e possa anche aumentarli, se il conflitto in Medio Oriente si estenderà.

Di contro, il sostegno a Kiev potrebbe calare, se nella UE si diffonderanno “umori filo-russi o neutrali”, mentre in USA ciò potrebbe avvenire a causa di pressioni interne, priorità internazionali diverse o cambio di amministrazione.

Così, se da una parte il consigliere presidenziale, Jack Sullivan assicura che la Casa Bianca farà il possibile perché il Congresso avalli ulteriori aiuti a Kiev, il coordinatore del Consiglio di sicurezza, John Kirby ha detto che gli aiuti dello scorso 27 dicembre sono stati gli ultimi (un solo esempio di cosa ciò significhi, citato dal politologo ucraino Andrej Zolotarëv: «dicono che la scorsa estate una divisione sparasse 500 proiettili da 155 mm a settimana; ora, 20») e lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson è intenzionato a dare un secco «assolutamente no» a nuovi aiuti.

Cosicché, al momento, tutto il peso del sostegno alla junta ucraina sembra dover ricadere sulla UE, pur con tutti i problemi che agitano – ad esempio Germania e Polonia – sia sul “fronte ucraino” sia su quello interno.

Secondo gli iniziali piani di Washington, un possibile compromesso coi repubblicani avrebbe consentito di continuare a rifornire Kiev almeno fino alla primavera, dandole respiro sul campo e, soprattutto, spronandola alla mobilitazione totale: il tutto, per arrivare in qualche modo a una stabilizzazione del fronte per la prossima estate e reggere l’urto russo fino a inizi 2025.

Ora, con il pressoché certo “no” repubblicano, è improbabile prevedere nuove forniture di armi yankee prima dell’estate e gli osservatori occidentali, CIA compresa, escludono che, in tali condizioni, Kiev possa reggere fino all’autunno.

È così che tornano in ballo i discorsi “pacifisti”, con Kiev che intenderebbe avanzare un proprio “piano di pace”: ovviamente senza la Russia.

Dunque, il gioco USA consiste nel proporre, soprattutto ai paesi più orientati verso Mosca e al cosiddetto “Sud globale”, la famigerata “formula di pace Zelenskij”.

A Davos, principale obiettivo yankee era quello di portare Pechino quantomeno ad ascoltare tali discorsi “di pace”, non contando su un’approvazione cinese. Ciò sarebbe bastato per dire poi al resto del “Sud”: ecco, nemmeno la Cina si oppone e alla fine dovrà acconsentire anche Mosca. Tutto, con l’unico obiettivo di guadagnare tempo in attesa di uno sblocco degli aiuti a Kiev.

Ma il gioco non è riuscito; Pechino ha tirato diritto, ignorando Kiev. Per ora, siamo a questa fase; ma è molto dubbio che il Dipartimento di Stato (ossia Blinken) si accontenti: la pressione che il conflitto in Ucraina esercita sull’economia russa – con Washington che conta sulla continuazione della guerra anche come mezzo per tentare di destabilizzare la società russa – è a tutt’oggi l’asse attorno cui ruota la politica USA.

Così, Zelenskij a Davos ha tentato l’unica carta che (forse) lo potrebbe salvare, in particolare dal “ghigliottinamento” da parte degli stessi ucraini: pensare a un “congelamento” del conflitto solo in cambio di investimenti occidentali. O meglio: gli investimenti occidentali non rimarrebbero che un miraggio in un paese le cui infrastrutture sono distrutte e che continua a guerreggiare, lontano da un accordo di pace col vicino orientale.

D’altronde lo stesso New York Times scrive che, a Davos, la guerra in Ucraina è stata notata, ma non è stata il tema dominante: tutti versano lacrime in pubblico per la crisi negli aiuti a Kiev, ma alla fine insistono per una conclusione diplomatica del conflitto.

Disgraziatamente per la junta nazigolpista, oggi Mosca potrebbe consentire a un accordo di pace solo alle proprie condizioni, irridendo a ogni “piano Zelenskij”. Ogni altro piano, ha dichiarato Vladimir Putin, non è che «un tentativo di convincerci a rinunciare alle conquiste conseguite nell’ultimo anno e mezzo e ciò è impossibile».

È per questo che, paradossalmente, per tutta la cerchia presidenziale ucraina, l’unica soluzione vantaggiosa sembra essere la completa disfatta sul campo; come dire ai padrini USA-NATO-UE: «vedete, ci siamo battuti fino all’ultimo, ma il nemico spietato è risultato più forte» e non c’è stato nulla da fare.

Tanto che a Davos, lo scorso 16 gennaio, Zelenskij ha confermato di non voler alcun colloquio con Mosca e tantomeno un accordo di pace.

Così che oggi, tra i più accaniti russofobi, quali sono da sempre i baltici, circola la minaccia, cara a Kiev: «Nella UE ci sono 800.000 vigliacchi che hanno lasciato illegalmente l’Ucraina: È necessario aiutare Kiev a farli tornare». Per continuare la guerra, infatti, data la forte carenza di armi occidentali, è indispensabile “carne fresca” da mandare al macello.

Tra sempre più frequenti diserzioni e passaggi al “nemico moskaly”, rifiuti di andare all’attacco o semplicemente di rimanere in trincea – nei giorni scorsi, circa 150 fanti di marina sono stati arrestati nella regione di Khersòn per essersi rifiutati di eseguire l’ordine, a loro giudizio suicida, di portarsi sulla riva sinistra del Dnepr, nell’area di Krynki, saldamente controllata dalle forze russe – l’imperativo è quello di mandare sotto le armi quanti più ucraini possibile.

E, quasi non bastasse la recente legge sulla mobilitazione, la Rada ha approvato tre giorni fa un nuovo disegno di legge, per l’istituzione di un “Registro elettronico delle persone in età di richiamo”, dai 17 ai 60 anni, in cui verrà raccolto ogni possibile dato su tali cittadini, senza bisogno del loro consenso, compresa la digitalizzazione dei volti, così da poter identificare chiunque attraverso le telecamere.

Ma, il paragrafo della norma che ha suscitato l’indignazione anche di molti deputati, è la possibilità di inserire i data-center del Ministero della difesa ucraino in quelli dei paesi NATO.

Tutto ciò, è il commento più diffuso, non è che la continuazione della strategia NATO di condurre “la guerra fino all’ultimo ucraino”; anche perché, di fatto, in Occidente nessuno pensa davvero al declamato “congelamento” del conflitto, ma solo a una ripetizione del gioco del Minsk-2, con cui si dette fiato al regime Porošenko, dopo la disfatta di Debaltsevo nel febbraio 2015.

In ogni caso, nota Aleksandr Sitnikov su Svobodnaja Pressa, il “congelamento” è come se l’allenatore di un pugile messo ko chiedesse all’arbitro di interrompere il conto alla rovescia, lasciando che quello si rialzi: e questo è anche più o meno il modo in cui la «formula Zelensky» viene valutata nei forum militari americani.

Grosso modo la stessa funzione giocata dalla sceneggiata del massacro di Bucha, una tragedia inscenata apposta per linciare mediaticamente i russi e mandare all’aria i colloqui in Turchia.

Insomma, ogni discorso su “piani di pace” – che venga da Kiev, Washington o Bruxelles – somiglia tanto a quel sistema escogitato dal Don Basilio rossiniano, che «le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar», ma che, alla fine, in questo caso si ritorce contro il suo ideatore, che «avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello per gran sorte va a crepar».

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