La rivolta popolare che nel 2019 ha rovesciato la dittatura reazionaria e islamista di Omar al-Bashir, al potere da ormai tre decenni, sembrava potesse portare il Sudan sulla strada della transizione verso la democrazia e lo sviluppo.
Dal golpe alla guerra civile
Ma il 25 ottobre 2021 il colpo di stato militare, diretto dal generale Abdel Fattah al-Burhan, ha posto fine ad ogni speranza di liberazione, nonostante il tentativo di resistenza di un vasto fronte di forze politiche, sociali e sindacali che hanno pagato con centinaia di morti le continue mobilitazioni contro il nuovo regime.
Il 15 aprile del 2022, poi, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemeti, ha lanciato le sue Forze di Supporto Rapido (la milizia nata dal movimento dei famigerati janjaweed) contro l’ex alleato al-Burhan, capo delle Forze Armate Sudanesi sostenuto dagli ambienti ancora fedeli al vecchio dittatore al-Bashir.
La vasta ribellione delle FSR ha scatenato una guerra civile che in nove mesi ha causato decine di migliaia di vittime, ridotto in macerie numerose città e portato il Sudan sull’orlo dell’implosione.
Una mediazione impossibile
Alcune settimane fa un accordo raggiunto grazie alla mediazione dell’Etiopia sembrava aprire uno spiraglio. Il 2 gennaio le Forze di Supporto Rapido hanno infatti firmato ad Addis Abeba, con il “Coordinamento delle forze civili democratiche” (Taqaddum, una piattaforma formata da decine di partiti politici, comitati popolari, sindacati, organizzazioni della società civile), una dichiarazione diretta a stabilire una tabella di marcia per porre fine ai combattimenti e aprire le trattative con al-Burhan. Subito dopo, però, molte realtà politiche interne ed esterne a Taqaddum hanno disconosciuto l’accordo firmato da Dagalo e dall’ex premier Abdallah Hamdok, denunciando quello che hanno definito un “tradimento”. D’altronde il rifiuto del presidente de facto di partecipare all’incontro organizzato da Hamdok in Etiopia aveva già reso inefficace il documento siglato.
Nei giorni scorsi poi, la scena si è ripetuta all’incontro organizzato dall’IGAD – Inter Governamental Agency for Development, l’organizzazione regionale del Corno d’Africa e dell’Africa Orientale alla quale l’Unione Africana ha delegato la ricerca di una soluzione delle diverse crisi in atto nel quadrante – il 18 gennaio a Entebbe, in Uganda. Alla riunione, alla quale erano presenti i rappresentanti dell’Onu, dell’Unione Europea, di vari paesi arabi e degli Stati Uniti, si sono infatti presentati sia l’ex primo ministro e coordinatore di Taqaddum Abdallah Hamdok, sia il capo delle Forze di Supporto Rapido, Dagalo. Il capo della giunta militare, al-Burhan, ha dato invece forfait accusando l’iniziativa di rappresentare una violazione della sovranità del Sudan. Non contento, al-Burhan ha sospeso l’adesione del Sudan all’IGAD e ha richiamato l’ambasciatore di Khartum in Kenya, accusando Nairobi di «ospitare la ribellione e (…) cospirare contro il Sudan». La mossa è stata decisa dopo che il 3 gennaio il presidente keniota William Ruto ha ricevuto Dagalo, che nelle ultime settimane ha intrapreso un tour che ha fatto tappa anche in Ruanda, Uganda, Etiopia e Gibuti nel tentativo di accreditarsi come rappresentante legittimo del suo paese.
Etiopia contro tutti
Ad aggravare il quadro, recentemente, la firma da parte dell’Etiopia di un accordo con la regione separatista somala del Somaliland per l’ottenimento di uno sbocco al mare, che ha causato la dura reazione di Mogadiscio ma anche dell’Eritrea, dell’Egitto e dello stesso governo golpista sudanese. L’esplosione di nuove tensioni regionali indebolisce ulteriormente i già infruttuosi tentativi dei paesi dell’area di costringere i contendenti sudanesi ad un accordo.
Le credibilità di molti degli attori regionali, del resto, è minata dal fatto che vari paesi sono direttamente o indirettamente coinvolti nella guerra civile, interessati ai proventi della vendita di armi o a conquistare un ruolo egemone in un Sudan ridotto in pezzi.
Lo zampino degli Emirati Arabi Uniti
La potenza regionale più attiva in Sudan sembra essere Abu Dhabi che, del resto, in passato ha già fornito varie flotte di droni da bombardamento all’esercito etiope, garantendogli una schiacciante superiorità aerea contro i ribelli del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, e ingenti carichi di armi all’uomo forte della Cirenaica, Khalifa Haftar, in guerra con il governo di Tripoli riconosciuto dalla cosiddetta comunità internazionale.
Ora da più parti si accusano gli Emirati Arabi Uniti di armare i miliziani delle Forze di Supporto Rapido che, durante la dittatura di Omar al-Bashir hanno combattuto per anni assieme alle forze di Abu Dhabi contro i ribelli houthi yemeniti.
Nonostante gli emiratini continuino a negare ogni coinvolgimento, numerosi media hanno documentato i carichi di armi inviati ai janjaweed da parte della piccola ma potente petromonarchia, a tal punto che a metà dicembre al-Burhan ha espulso 15 diplomatici di Abu Dhabi. In precedenza Yassir al-Atta, membro della giunta golpista, aveva esplicitamente accusato gli Emirati di rifornire i ribelli attraverso l’Uganda, la Repubblica Centrafricana e il Ciad. Recentemente, un documento diffuso dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, basato su fonti di intelligence e testimonianze di osservatori indipendenti, definisce “credibili” le ricostruzioni secondo cui gli Emirati hanno più volte fornito armi ai miliziani ribelli tramite la base aerea di Amdharass, nel nord del Ciad. I più di 100 voli registrati, secondo Adu Dhabi, trasportavano invece soltanto “aiuti umanitari” destinati ai profughi.
Ma i legami tra il leader delle RSF e la petromonarchia araba sono noti e consistenti. Il centro dell’impero economico di Dagalo – e del fratello – è a Dubai, mentre il generale è ritenuto molto vicino al vicepresidente degli Emirati Mansour bin Zayed ed ha fatto un lungo viaggio ad Abu Dhabi nella scorsa primavera, prima di ordinare la ribellione contro il suo ex alleato al-Burhan, che ora è sostenuto dall’Egitto di al Sisi e dall’Iran.
Il Sudan va in pezzi
Mentre la guerra civile ha messo il paese in ginocchio, in varie regioni il vuoto di potere ha portato alla formazione di milizie regionali più o meno indipendenti dai due contendenti, che dettano legge a livello locale utilizzando la violenza e minacciano la stessa integrità dello stato sudanese.
Di fatto il paese è spaccato a metà. I paramilitari di Dagalo controllano gran parte della capitale, le regioni occidentali, il Darfur e una parte della provincia del Kordofan. L’esercito “regolare”, fedele al regime, invece, occupa alcuni quartieri di Omdurman, la città gemella di Khartum, il nord del paese, le regioni orientali e la valle del Nilo.
Crimini di guerra e pulizia etnica
Recentemente i combattimenti tra le opposte fazioni si sono allargati a territori finora relativamente tranquille. Entrambe le fazioni si stanno rendendo responsabili di crimini di guerra e atrocità contro la popolazione, bombardando in maniera indiscriminata i centri abitati e sottoponendo gli oppositori a torture e detenzioni arbitrarie.
In particolare, l’avanzata delle Forze di Supporto Rapido di Dagalo nel Darfur Occidentale ha provocato nella sola capitale regionale Geneina tra i 10 e i 15 mila morti. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite i janjaweed hanno preso deliberatamente di mira i civili nelle strade, nelle case e nei campi profughi, colpendo anche le colonne di profughi in fuga verso il Ciad, con esecuzioni sommarie e stupri. Le RSF, i cui membri sono reclutati per la maggior parte tra le tribù arabe delle regioni occidentali, sono accusate di uccisioni di massa a sfondo etnico contro la popolazione nera africana, in particolare quella Masalit, maggioritaria nel Darfur Occidentale, oltre che di saccheggi e distruzioni punitive.
Mentre la capitale Khartum è sempre più una città fantasma, con interi quartieri ridotti in macerie e abbandonati dai loro abitanti, da dicembre gli scontri si sono estesi alle regioni orientali e meridionali, costringendo alla fuga centinaia di migliaia di persone. Particolarmente intensi sono stati gli scontri nello stato di Gezira, a sud di Khartum, una regione che viene abitualmente definita “il granaio del Sudan”.
Emergenza umanitaria e sanitaria
I profughi sarebbero in totale già 7,5 milioni; di questi, circa 1 milione e mezzo si sarebbero rifugiati in Ciad, Sud Sudan ed Egitto. Gli altri hanno cercato riparo nei territori scampati agli scontri fino al momento del loro arrivo, dovendo però poi spesso fuggire di nuovo a causa dello scoppio di ulteriori combattimenti e dovendo comunque confrontarsi con una grave penuria di cibo, acqua potabile e assistenza sanitaria.
Il paese, nonostante il sostanziale disinteresse dei circuiti mediatici principali, è investito da una crisi gravissima. Secondo l’Ufficio dell’ONU per il coordinamento umanitario (OCHA), circa 25 milioni di sudanesi hanno o avranno bisogno nei prossimi mesi di assistenza. Nel solo stato di Khartum, denuncia un dossier diffuso da Medici Senza Frontiere, almeno 3 milioni di persone non hanno alcun accesso all’assistenza medica.
Nelle zone interessate dalla guerra civile, afferma l’associazione Care International, l’80% degli ospedali e dei presidi sanitari ha dovuto chiudere a causa dell’inagibilità delle strutture e della mancanza di elettricità. La situazione, in mancanza di una svolta allo stato improbabile, può solo peggiorare.
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