L’antifascismo è in crisi, stretto tra le difficoltà complessive della democrazia italiana, la tendenza del sistema verso la personalizzazione autoritaria e – nell’attualità – tra l’ambigua sentenza della Cassazione sul saluto romano e la pubblicazione del calendario dell’Esercito (fortemente voluto dalla sottosegretaria Rauti) nella negazione dell’8 settembre come punto di rottura nella continuità dello Stato e – in sostanza – l’esaltazione della linea di “fedeltà alla Patria” mantenuta dai repubblichini di Salò.
Nel campo che si vorrebbe democratico rispuntano posizioni come quella fatidica sui “Ragazzi di Salò” del tipo “gesti da valutare, non fare la conta dei morti... logica regressiva che alimenta l’ininterrotta vendetta mentale e morale, ecc, ecc.”
Si possono comprendere le volontà di non inasprire tensioni ma la verità è che appare del tutto al di sotto del necessario la reazione antifascista a questo difficile stato di cose appena descritto.
Siamo di fronte a un problema di carattere culturale e ad una questione di natura più propriamente politica.
Innanzi tutto si ricorda troppo poco che l’Italia è stata una nazione sconfitta nella seconda guerra mondiale perché alleata del Paese che ha inventato e attuato la “Shoah” che adesso molti ricorderanno in pompa magna.
Abbiamo ceduto troppo spazio all’edulcorazione (quando va bene) del racconto della storia d’Italia nel XX secolo.
Ricordiamo troppo poco che a salvare la possibilità dell’Italia di rimanere Patria tra le Nazioni è stata la Resistenza Armata condotta dal CLN e dai partigiani: senza la Resistenza il nostro Paese sarebbe stato considerato semplicemente occupato dagli Alleati (semplifico, ma di questo si tratta anche se va considerata appieno il valore della formazione di un governo unitario nel Regno del Sud e la scelta della cobelligeranza).
Ricordiamo troppo poco che la Resistenza ebbe i suoi momenti più alti per l’operato del popolo e della classe operaia: dalle quattro giornate di Napoli fino agli scioperi delle grandi fabbriche del Nord, a novembre 1943 e a marzo 1944.
Si aggancia così nella nostra memoria il filo rosso tra Resistenza e Costituzione: ricordo non retorico e scontato ma da porre sempre in grande evidenza come fatto non di semplice rivisitazione di una storia ormai antica.
Siamo così giunti al fatto politico immediato: autonomia differenziata e premierato rappresentano l’ennesimo assalto alla democrazia repubblicana e all’unità del Paese (unità che andrebbe esaltata proprio nel momento in cui emergono priorità come quella della pace e dell’assetto complessivo dell’Unione Europea).
Non si può regalare la democrazia repubblicana ad un nazionalismo pericolosamente di ritorno che si prepara a fare il paio con l’obiettivo di far crescere disuguaglianze territoriali che si tradurranno in veri e propri abissi sociali.
Questo implica – da subito – una reazione tale da riuscire a sventare gli obiettivi di una destra che non è quella che si vorrebbe “normale” da bipolarismo temperato.
Si tratta di una destra feroce che azzanna i fondamenti della nostra convivenza civile, economica, sociale e così va considerata fino in fondo sul piano culturale e politico.
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