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30/11/2022

Gloria (1980) di John Cassavetes - Minirece

L’insopportabile pesantezza della disuguaglianza sociale

Il protagonismo della destra al governo si è subito manifestato attraverso la Manovra, dalla quale risulta la tendenza a insistere sulle disuguaglianze come fattore di divisione per reddito e quindi di conquista di consenso per fasce sociali.

Alla destra ha sempre dato fastidio l’idea stessa dell’uguaglianza, e di conseguenza della democrazia. Scrive Nadia Urbinati, citando Roberto Bobbio: “Più lo stato si ritirava dal compito di contenere le diseguaglianze, più la morsa del darwinismo sociale stringeva la società, agevolando l’ideologia della diseguaglianza.”

Prima della pandemia, l’ISTAT aveva prodotto una ricerca secondo la quale la suddivisione per censo e condizione economica era inquadrata in 9 categorie: i giovani “blue collar”, cioè la manodopera; le famiglie degli operai in pensione con reddito medio; le famiglie a reddito basso con stranieri; le famiglie a reddito basso di soli italiani; le famiglie tradizionali della provincia; il gruppo misto formato da anziane sole e da giovani disoccupati; le famiglie benestanti di impiegati; le famiglie con pensioni d’argento; e infine la classe dirigente.

Più recentemente, Enzo Risso, direttore scientifico di IPSOS, ha scritto: “L’Italia è sempre più una realtà polarizzata socialmente, con il rafforzamento dei ceti privilegiati della upper-class, lo sfarinamento del ceto medio e l’ingrossamento e l’impoverimento dei ceti medio-bassi e popolari.”

IPSOS suddivide la società italiana uscita dalla grande crisi provocata dalla pandemia in cinque categorie: “In vetta alla piramide sociale troviamo la upper class, le persone che si collocano tra i benestanti e il ceto alto e medio alto”, scrive Risso, che sottolinea come questa fascia sia cresciuta, passando dal 4% al 6-7%.

Nella fascia riconducibile al ceto medio, durante la pandemia, si sono sentite a tutti gli effetti appartenenti circa il 26% della popolazione. Con la ripresa del secondo semestre 2021 e l’inizio del 2022, questa componente sociale è arrivata al 40%. Poi però la guerra in Ucraina e l’innalzamento dell’inflazione hanno ridotto al 30% coloro che si considerano appartenenti al ceto medio.

Le difficoltà economiche complessivamente colpiscono tra il 58 e il 66% degli italiani, secondo IPSOS, con una tendenza alla caduta del reddito (tra il 35 e il 39%), che avvicina questa parte di ceto medio alla fragilità sociale dei ceti inferiori, calcolati intorno al 19%, quella di cui si parla quando ci si riferisce alla difficoltà di arrivare a fine mese.

Infine, tra il 6 e l’11 % – vale a dire tra i 4 e i 6 milioni di persone – hanno la diretta percezione della loro indigenza, perché inflazione e caro-bolletta, impattando con violenza su redditi bassi e precari, hanno un peso insostenibile. È qui che si tagliano le spese anche alimentari.

Dunque, la disuguaglianza si è moltiplicata in modo logaritmico, e viene usata come leva del comando, oltre che dello sfruttamento, attraverso la politica dei bonus o degli sgravi, per alcuni sostanziosi, per altri pure mancette elettoralistiche.

L’articolazione delle differenze di classe ha messo in crisi la sinistra nel mondo occidentale: non ci sono più le tre categorie – borghesi, ceto medio e proletariato – su cui l’idea del socialismo è nata, grazie al marxismo.

D’altro canto, la disuguaglianza sociale è un’emergenza sociale lancinante, tipica del neoliberismo, che se le politiche di centro-sinistra hanno sottovalutato, perdendo il voto dei ceti bassi ma anche di quelli medi, va ripresa invece in mano e trasformata in una nuova spinta al superamento dell’economia capitalistica, che basa la sua capacità di comando proprio sulla divisione in classi sempre più diversificata, secondo l’antico ingrediente del potere che i latini sintetizzavano nel dividi et impera.

Reddito, stato sociale, uguaglianza sono le parole d’ordine che possono rinvigorire l’opposizione non solo sociale ma soprattutto politica al governo delle destre, utile strumento della disuguaglianza e della messa in crisi della stessa democrazia.

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Corea del Sud - Precettati i camionisti dell’industria del cemento

Il governo della Corea del Sud ha ordinato a circa 2.500 camionisti dell’industria del cemento in sciopero di tornare al lavoro martedì, un provvedimento senza precedenti che invoca altre leggi severe contro gli scioperi, mentre in tutto il paese i cantieri sono a corto di materiali da costruzione.

Il secondo sciopero in meno di sei mesi per il pagamento del salario minimo sta causando perdite giornaliere stimate in 300 miliardi di won (224 milioni di dollari) e sta interrompendo l’attività industriale della quarta economia asiatica, che prevede un crollo della crescita nel prossimo anno.

“Vi prego di tornare alle vostre postazioni prima che sia troppo tardi“, ha detto il presidente Yoon Suk-yeol durante una riunione di gabinetto. “Durante il mio mandato stabilirò con fermezza lo stato di diritto tra lavoratori e dirigenti e non scenderò mai a compromessi con l’illegalità“.

Mentre lo sciopero entra nel suo sesto giorno, la posa del cemento si è fermata in 508 cantieri, ovvero circa la metà del totale, a causa della scarsità nei rifornimenti.

L’industria del cemento stima una perdita cumulativa di produzione di circa 64 miliardi di won (47,81 milioni di dollari) a partire da lunedì.

Circa 1.000 dei circa 2.500 rimorchi di cemento sfuso sono guidati da camionisti sindacalizzati, ma l’industria ha effettuato solo un decimo delle spedizioni giornaliere necessarie per l’alta stagione, da settembre all’inizio di dicembre. Anche alcuni camionisti non sindacalizzati hanno, infatti, interrotto i trasporti.

Anche migliaia di altri camionisti che non operano nel settore del cemento sono in sciopero.

In un’intervista esclusiva a Reuters, Yoon ha dichiarato che la dura risposta del suo governo agli scioperi di quest’anno sta iniziando a stabilire lo stato di diritto nelle relazioni industriali.

Questo aiuterà a eliminare il rischio di pratiche di lavoro sleali, ha detto all’amministratore delegato di Tesla Elon Musk in una videochiamata la scorsa settimana.

Legge marziale per i lavoratori del settore cargo

L’amministrazione Yoon è la prima nella storia del Paese a emettere un ordine che costringe i lavoratori dei trasporti in sciopero a tornare al loro posto di lavoro.

Il mancato rispetto dell’ordine può portare a punizioni come la cancellazione delle licenze e tre anni di carcere o una multa fino a 30 milioni di won (22.550 dollari).

L’organizzatore dello sciopero, Cargo Truckers Solidarity Union (CTSU), ha definito la precettazione “antidemocratica e violenta”, nonché prova della mancanza di volontà di dialogo da parte del governo. I funzionari del sindacato hanno anche messo in guardia da ulteriori interruzioni nelle forniture di carburante e generi alimentari.

“L’ordine di tornare al lavoro equivale alla legge marziale per i lavoratori del settore cargo. No, è un ordine di morte“, ha dichiarato il sindacato.

Martedì il sindacato ha tenuto 16 manifestazioni in tutto il Paese.

Durante una protesta per la rasatura della testa nell’hub dei trasporti di Uiwang, il leader del sindacato Lee Bong-ju ha detto a centinaia di scioperanti che avrebbero sfidato l’ordine di inizio lavoro e intrapreso un’azione legale con l’aiuto di avvocati del lavoro specializzati.

Lee Kwang-jae, capo della sezione metropolitana di Seoul del sindacato, ha dichiarato alla Reuters che circa 2.000 camionisti si sono uniti al sindacato dopo il precedente sciopero di giugno, quando hanno lottato per difendere il loro salario messo minacciato dal caro carburante.

Ha espresso frustrazione per l’inazione dei politici, compreso il principale partito di opposizione, che detiene la maggioranza parlamentare.

Circa 76 squadre di funzionari governativi hanno iniziato a condurre indagini sul posto insieme alla polizia per ordinare a 2.500 lavoratori del trasporto del cemento di tornare al lavoro.

Circa 9.600 persone hanno manifestato durante il primo giorno di sciopero e il sindacato ha dichiarato che si stima che circa 25.000 autisti stiano scioperando, compresi molti che non lavorano nell’industria del cemento.

Se i lavoratori del trasporto del cemento non si adeguano, il governo può sospendere le loro licenze di trasporto per 30 giorni.

Le licenze possono essere revocate e il governo può chiedere un’azione legale per il potenziale carcere o per le multe, ha dichiarato a Reuters un funzionario del ministero dei trasporti.

Il governo non è disposto a estendere il sistema di retribuzione minima per altri tre anni, mentre il sindacato sostiene che dovrebbe essere permanente e di portata più ampia. I negoziati riprenderanno mercoledì, ma i funzionari del sindacato affermano che il divario è ancora troppo ampio per raggiungere un compromesso.

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L’Italia ha già speso mezzo miliardo per inviare armi all’Ucraina

Ultim’ora: via libera dell’Aula della Camera alla mozione di maggioranza sulla guerra in Ucraina. Parti del documento, che contiene tra l’altro l’ok a proseguire l’invio delle armi a Kiev, sono state votate anche dall’opposizione. Passano, con un gioco di astensioni reciproche, anche le mozioni del PD e di Iv-Azione, su cui il governo si era rimesso all’Aula. Respinti i documenti presentati da M5S e Avs.

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I dati diffusi dall’Osservatorio Milex affermano che sono già 450 i milioni di euro spesi dall’Italia per l’invio di armi all’Ucraina.

La stima è stata diffusa in concomitanza del dibattito Parlamentare sull’invio di armi che aveva assunto un carattere truffaldino visto che la destra al governo avrebbe voluto infilare gli ulteriori stanziamenti per la guerra nelle pieghe del decreto sulla sanità in Calabria. L’imbroglio non è passato, ma solo in cambio della garanzia da parte del PD e di Calenda che l’opposizione non metterà i bastoni tra le ruote all’approvazione del decreto sulle armi all’Ucraina entro il 31 dicembre.

Ma la cifra secondo gli analisti dell’Osservatorio Milex supera abbondantemente i 450 milioni di euro di spesa dichiarati. Il costo reale per il nostro Paese deriva infatti dalla modalità “internazionale” di copertura che è stata decisa a livello di Consiglio Europeo (ossia il vertice dei capi di stato, in quanto i fondi militari sono esclusi dalle competenze specifiche dell’Unione) attraverso il ricorso allo strumento European Peace Facility (Epf).

Questo è uno strumento finanziario ‘fuori bilancio’ a supporto delle iniziative militari internazionali europee istituito il 22 marzo 2021 con una prospettiva settennale e con una dotazione previsionale di 5,692 miliardi di euro.

L’European Peace Facility è finanziato dai contributi annuali degli Stati membri dell’Ue stabiliti in base al Reddito nazionale lordo. Nel nostro caso la quota di contribuzione annuale dell’Italia è di circa il 12,5%. Le erogazioni successivamente decise nel corso dell’anno hanno superato di molto il budget annuale previsto e si attestano al momento ad un totale di 3,1 miliardi di euro confermati ad ottobre 2022. La modifica sostanziale, in aumento, delle cifre previsionali non ha però modificato la modalità di erogazione fondi a copertura degli invii delle armi, che rimane definita in base al controvalore degli armamenti secondo i meccanismi di funzionamento già stabiliti.

Questo significa che ciascun Paese può richiedere rimborsi Epf in base a quanto dichiara di aver inviato all’Ucraina: poiché, però, i controvalori dei materiali d’armamento spediti sono molto più alti del fondo comune già deciso, la copertura non potrà essere integrale.

Al momento, soprattutto a seguito delle forti pressioni della Polonia, la più oltranzista tra i bellicosi sostenitori militari dell’Ucraina, ci si sta orientando su una copertura pari a circa il 50%. Cosa significa questo per l’Italia, in termini reali e considerando che invece l’erogazione verso il fondo Epf è definita con quote già previste a priori?

Partendo dall’unica cifra diffusa, risponde Milex, il nostro Paese si dovrebbe vedere restituiti 75 dei 150 milioni spesi ma a fronte di una “quota Epf” di circa 387 milioni di euro. Cioè un totale complessivo per le casse pubbliche che supera abbondantemente i 450 milioni di spesa.

A oggi sono stati varati ben cinque decreti interministeriali, con dettagli secretati sugli armamenti individuati e inviati in Ucraina. Quattro dei quali emessi durante il governo Draghi e l’ultimo dal governo Meloni ai primi di ottobre.

L’Osservatorio Milex sottolinea che già lo scorso aprile aveva provato a definire una prima stima generica di costo per le casse pubbliche del sostegno militare all’Ucraina, a partire dall’unica cifra diffusa formalmente dall’allora ministro Guerini durante un’audizione parlamentare (e presa come riferimento base anche dalle analisi internazionali): 150 milioni.

Ma come abbiamo visto la spesa è assai più alta di quanto dichiarato. Insomma oltre alle sanzioni anche la guerra vera e propria comincia a costare alla casse del nostro paese.

Ieri l’ambasciata russa in Italia ha diffuso su Twitter la foto di un blindato italiano Lince colpito in Ucraina. “Made in Italy. L’auto blindata Lince Mlv consegnata all’esercito ucraino vicino ad Artiomovsk (Bakhmut). Tutti i contribuenti italiani sono felici di tale destinazione dei loro soldi?", scrive il post dell’ambasciata russa in Italia che accompagna la foto di un Lince tra le macerie in Ucraina.

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Cina - Dopo quelle operaie alla Foxconn di Zhengzhou, le proteste si estendono

L’incendio di Urumqi

Il 24 Novembre è scoppiato un incendio in un condominio di Urumqi, la capitale della provincia dello Xinjiang. 10 persone sono morte nell’incendio. Rapidamente, l’opinione pubblica ha messo sotto accusa i ritardi nei soccorsi che sarebbero stati causati dai tanti blocchi stradali ancora in corso dopo più di tre mesi di misure restrittive in città.

Per dare una misura di quanto la tremenda notizia sia diventata un caso nazionale, su Weibo l’hashtag “L’incendio nel condominio di Urumqi potrebbe essere stato causato da una ciabatta elettrica” ha ricevuto più di 200 milioni di visualizzazioni in due giorni, “10 morti in un incendio in un condominio in Xijiang” è arrivato a più di un miliardo di visualizzazioni.

In una conferenza stampa, le autorità locali di Urumqi hanno negato che i residenti del palazzo andato a fuoco fossero reclusi per quarantena, ma hanno anche sollevato una nuova onda di rabbia commentando che i residenti non hanno eseguito le giuste manovre d’emergenza.

I morti nell’incendio hanno scatenato proteste a Urumqi, sia nei quartieri a maggioranza uigura sia nei quartieri a maggioranza han. Le proteste si sono verificate anche di fronte ad alcuni palazzi governativi e hanno chiesto esplicitamente la fine del lockdown in città.

Il 26 novembre ha dichiarato che “Urumqi ha fondamentalmente cancellato i casi di COVID-19 a livello di comunità”, l’hashtag relativo ha raggiunto 1,7 miliardi di visualizzazioni. Negli ultimi giorni da Urumqi arrivano testimonianze di smobilitazione delle misure restrittive.

Le proteste a Shanghai e nelle università

Il 26 novembre si è radunata a Shanghai, in Urumqi Road, una veglia per le vittime dell’incendio. Alla veglia ha partecipato qualche centinaio di persone e sono stati lanciati slogan contro i lockdown e contro il Partito Comunista Cinese. Nel giro di 24 ore eventi simili hanno cominciato a svolgersi in molte province, in particolare se ne sono registrate in decine di università. Le immagini e le testimonianze parlano di eventi con qualche centinaio di studenti partecipanti ognuno.

Dopo qualche giorno, hanno cominciato a registrarsi delle contromanifestazioni di sostenitori della linea del PCC, come per esempio a Guangzhou dove i filo governativi sono stati maggioranza rispetto allo sparuto gruppo d’opposizione.

All’estero le proteste nelle grandi città della costa hanno acceso la fantasia sulla possibilità di un “nuovo 1989”, o quantomeno sulla più grande ondata di proteste dall’inizio delle riforme. Gruppi della destra americana e dei circuiti del Falun Gong e dell’Epoch Times montano la narrativa di un’imminente rivoluzione.

Sicuramente è un fatto notevole che si verifichino in decine di città proteste con temi anti governativi. Sicuramente la diffusione ormai universale dei telefoni e dei social network permette scenari inediti rispetto agli anni passati. Va però detto che le proteste anti governative sono, ad ora, fatte in ogni città da qualche centinaio di membri della classe media urbana. Tutt’altra portata rispetto alle migliaia di operai di Zhengzhou, tutt’altra intensità rispetto alle proteste a Urumqi.

Verso una svolta su Covid Zero?

Da mesi si susseguono voci e indiscrezioni su un possibile alleggerimento della “politica di azzeramento dinamico”, in particolare dal lockdown di Shanghai ad Aprile. La politica delle chiusure draconiane ha permesso fin ora di mantenere i numeri di contagi e morti risibili rispetto al resto del mondo e anche rispetto al resto dell’Asia orientale che pure ha gestito la situazione molto meglio rispetto all’occidente.

È innegabile che, da quando la variante Omicron ha reso il contagio molto più veloce, le continue chiusure hanno cominciato a pesare sull’economia cinese. La chiusura di porti come Shanghai e Guangzhou rappresenta ogni volta una strozzatura nei flussi mondiali delle merci.

È evidente che nella società esistono degli scontenti di questa politica, in particolare concentrati nelle grandi città e attorno alle attività economiche che dipendono di più dal rapporto con l’estero. Mentre i dati economici aggregati comunque segnano numeri positivi, la disoccupazione giovanile è ormai stabilmente attorno al 18%. Che questo sia causato dalle politiche governative o meno, non può che creare insoddisfazione.

L’11 novembre il Comitato Permanente del Politburo ha emesso i “20 punti per ottimizzare ulteriormente le misure di controllo e prevenzione dell’epidemia e per svolgere un lavoro scientifico e accurato”, il cambiamento di alcuni fraseggi aveva fatto sperare a molti degli scontenti che si fosse a una svolta, in particolare nell’applicazione a livello locale che ha a volte assunto caratteri caotici e di arbitrio degli ufficiali locali.

Le piccole e grandi assurdità dell’applicazione hanno riempito i giornali internazionali, non c’è bisogno di elencare episodi pittoreschi.

Il 29 novembre i dirigenti del Meccanismo di Prevenzione e Controllo del governo hanno tenuto una conferenza stampa con delle vere novità di linguaggio, e di fatti. Durante la conferenza stampa le proteste di questi giorni sono state chiamate “i problemi sollevati dalle masse” e si è parlato di “ragionevoli richieste delle masse”.

Ovviamente non si tratta di una ritrattazione completa della linea politica, tutto viene inquadrato nell’idea di proteste che chiedono una migliore attuazione delle politiche di prevenzione.

Ma è significativo il riconoscimento di richieste ragionevoli e la dichiarazione che sono stati inviati dei commissari su vari territori per il lavoro di rettifica. Abbiamo già testimonianze da Urumqi su questa rettifica, cosa questo vorrà dire nel resto della Cina lo vedremo nei prossimi tempi.

Chiaramente chi spera nella sparizione della politica di Covid Zero dall’oggi al domani non otterrà quello che vuole. Per il semplice motivo che il sistema sanitario cinese non è preparato per affrontare un’apertura secca. Tutte le simulazioni dicono che un’apertura come quella affrontata da altri paesi dell’est asiatico produrrebbe un picco di Omicron da centinaia di migliaia di morti.

Un articolo sul New York Times ha reso popolare l’idea che basterebbe che la Cina aprisse ai vaccini mRNA occidentali per poter gestire la riapertura. La realtà è un po’ più complessa.

È vero che Sinovac e altri vaccini cinesi hanno mostrato su due dosi una copertura decisamente inferiore rispetto ai vari Pfizer e Moderna. Con la terza dose di richiamo i numeri diventano però assolutamente comparabili. Tra i tanti problemi c’è anche che la popolazione anziana in Cina è relativamente poco vaccinata.

Due anni fa la scelta infatti è stata di vaccinare prioritariamente chi lavora, mentre le persone anziane dovevano essere protette dalla scarsissima circolazione del virus. E questo ha funzionato, fino a Omicron. Ogni tentativo di renderli obbligatori (direttamente o indirettamente) è stato respinto con decisione dalla società. Nella stessa conferenza stampa del 29 novembre si è tornati a sostenere la necessità di vaccinare tutti i soggetti vaccinabili.

Soprattutto fuori dalle grandi città, il sistema sanitario cinese non è attrezzato per un’ondata di Omicron. Si continuano a costruire grandi ospedali da campo per le quarantene, ma come ci ha insegnato il 2020 in Italia, non servono solo i letti, servono anche personale e attrezzature.

Infine, in questi mesi hanno avuto la voce più forte gli scontenti della politica di Covid Zero che vorrebbero accelerare i piccoli passi di apertura dell’ultimo anno.

È chiaro che, passo dopo passo, si andrà verso un momento di apertura e quindi di aumento drastico dei casi. In quel momento si dovrà vedere chi saranno, quanti saranno e quanto riusciranno a far sentire la loro voce gli scontenti dell’apertura.

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Il declino del colonialismo francese

Quale resistenza in Ucraina?

di Sandro Moiso

Alexander V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, pp. 232, euro17,00

Adesso, dopo che le truppe russe si sono ritirate e attestate sulla riva orientale del Dnepr, di fronte a Kherson, e che la guerra unisce i suoi effetti al freddo e alla fame per la popolazione civile, è giunto il momento di formulare un giudizio politico spassionato sulla realtà della “resistenza” ucraina, propagandisticamente e troppo spesso romanticamente sbandierata come eroica e popolare. Così, mettendo a disposizione dei lettori un possibile termina di paragone storico, può rivelarsi utile il volume appena ristampato da elèuthera (che lo aveva già proposto al pubblico italiano nel 2012) in cui Alexander Vladlenovich Shubin analizza e descrive nel dettaglio le vicende della machnovščina ucraina tra il 1917 e il 1921.

L’autore (n. 1965) insegna Storia in due università di Mosca: l’Accademia delle Scienze dove, dal 2003, dirige il Centro di studi storici, e, dal 2007, l’Università Statale per gli Studi Umanistici, dove ha condotto approfondite ricerche per riportare alla luce la storia dei movimenti di opposizione al bolscevismo, con particolare attenzione a quelli di matrice libertaria. In tale contesto di ricerca va dunque inquadrato questo testo dedito alla ricostruzione delle vicende legate alla figura di Nestor Machno e alle insurrezioni contadine che si svilupparono in Ucraina nel periodo compreso tra la Rivoluzione d’Ottobre e la fine della Guerra Civile. Come scrive lo stesso Shubin nella Premessa:

Il movimento machnovista ucraino, poco studiato dalla storiografia mondiale, è stato uno degli episodi più importanti della rivoluzione e della guerra civile esplosa nel 1917 nell’ex impero russo. Negli anni tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini, e cercando al contempo di non sottomettersi al nuovo potere comunista. Non sorprende che l’iniziale alleanza tattica con i comunisti si sia poi conclusa con uno scontro militare, durante il quale l’esercito insurrezionale machnovista si batté impugnando la bandiera nera dell’anarchia. Alla guida di questa armata contadina c’era Nestor Ivanovic Machno, uno stratega geniale che fino al 1918 non aveva preso parte ad alcuna guerra, ma che in seguito si ritrovò al posto giusto nel momento giusto. Nei brevi momenti di tregua, i machnovisti provarono a costruire una nuova società basata sull’autogestione, e nonostante questo movimento sia sopravvissuto soltanto fino al 1921, ha rappresentato comunque uno degli esempi più vividi del desiderio di liberazione sociale e politica che ha caratterizzato quell’epoca1.

Basterebbero le parole «tra il 1917 e il 1921, i contadini e gli operai che vivevano tra il Dnepr e il bacino del Don tentarono di costruire la propria vita a partire dai propri desideri, combattendo contro le forze controrivoluzionarie e i nazionalisti ucraini» a marcare già tutta la differenza tra quella espressione diretta della volontà di classe e popolare e l’attuale “resistenza”, ma occorre ancora procedere con ordine per verifica la validità di tale assunto.

L’area che vide protagonista il movimento machnovista è principalmente la regione compresa tra il Mar d’Azov a sud, la riva sinistra del Dnepr a ovest e il bacino carbonifero del Don a est. Ma i machnovisti agirono anche sulla riva destra del Dnepr, soprattutto nella regione di Ekaterinoslav (ora Dnepropetrovsk), e a nord in quelle di Poltava e Cernigov [in ucraino Cernihiv – N.d.T.]. Il cuore della rivolta era la cittadina di Guljaj Pole nella provincia di Aleksandrovsk (l’attuale Zaporozhye). La storia di questi luoghi è legata a quella dei cosacchi e alla loro cultura rurale e nomade, anche se ai primi del Novecento nella provincia di Aleksandrovsk i cosacchi erano ormai solo un ricordo. […] L’economia rurale in quelle zone era piuttosto rappresentata dai pomesiki, ovvero dai grandi proprietari terrieri, e quando la riforma agraria del governo di Pëtr Stolypin tentò di abolire le tradizionali terre comuni, la maggiore resistenza la incontrò proprio nel governatorato di Ekaterinoslav. Dal punto di vista agricolo e industriale, l’area di azione del futuro movimento machnovista era una delle regioni più sviluppate dell’impero russo, grazie alla vicinanza dei porti e a una rete ferroviaria che aveva favorito lo sviluppo del mercato del grano.
[…] Nelle province di Ekaterinoslav e della Tauride si produceva il 24,4% delle macchine agricole del paese (a Mosca solo il 10%). Una parte significativa dell’industria di Ekaterinoslav era dislocata su tutto il territorio: piccole città e villaggi di grandi dimensioni erano diventati dei veri e propri complessi agro-industriali. A Guljaj Pole, futura capitale del movimento machnovista, c’erano una fonderia e due mulini a vapore, e nel distretto c’erano dodici fabbriche di piastrelle e mattoni. Tutto ciò contribuiva non solo alla produzione ma anche al rafforzamento del legame tra contadini e operai. Molti contadini andavano a cercare lavoro nelle vicinanze dei grandi centri industriali, sicuri che in caso di crisi sarebbero potuti rientrare nei villaggi di origine, e nei villaggi non c’era carenza di prodotti industriali grazie alla vicinanza di numerose fabbriche. Erano le grandi città a essere percepite dai contadini come un mondo estraneo e distante di cui non avvertivano alcun bisogno. Quanto al nazionalismo, mentre nel nord dell’Ucraina era solidamente radicato nell’economia autocratica che caratterizzava quell’area, nella regione del Mar d’Azov stentava invece a trovare una sua base sociale. È in questo contesto che sarebbe nato uno dei più grandi movimenti contadini della storia europea, che tuttavia sarà strettamente legato al movimento operaio, tanto da avere nelle sue fila anche leader operai, tra i quali lo stesso Machno che in gioventù aveva lavorato in una fonderia di ghisa2.

La Russia era stata fin dal XVI-XVII secolo teatro di rivolte, contadine e cosacche, che si erano scagliate sia contro il governo degli czar sia nei confronti dei dominatori polacchi di una parte dell’attuale territorio ucraino. Rivolte rese celebri attraverso la letteratura russa dell’Ottocento sia dal racconto Taras Bul’ba scritto da Nikolaj Gogol’ nel 1834 che dal romanzo La figlia del capitano, pubblicato da Aleksandr Sergeevič Puškin nel 1836, oltre che dal poema Pugacev di Sergej Aleksandrovic Esenin scritto negli anni ’20 del Novecento, ma che ancor prima di ciò avevano lasciato un segno, seppur disordinato dal punto di vista dei contenuti, nella memoria collettiva3.

Invece come si sottolinea nel testo di Shubin quella capeggiata da Nestor Machno, nato a Guljaj Pole da una famiglia di ex-servi della gleba nel 1888 e morto in esilio a Parigi nel 1934, era riuscita a unificare sia i contadini poveri che gli operai delle regioni interessate, dimostrando nonostante fosse stata alla fine schiacciata dall’Armata Rossa che la rivoluzione russa avrebbe potuto prendere una ben diversa piega da quella sviluppatasi con l’industrializzazione forzata e la repressione delle istanze delle comunità di villaggio e dei consigli operai.

È qui che sta tutta la differenza tra una guerra condotta in nome degli interessi di classe e nel tentativo di realizzare una società più giusta e l’attuale guerra condotta da Zelensky in nome del nazionalismo oligarchico più bieco e degli interessi dell’imperialismo occidentale. Senza con ciò voler giustificare in alcun modo la propaganda russa sulla guerra in corso.

In fin dei conti anche la rivolta e la guerra machnovista era nata ed era guidata da un bandito che, prima di acquisire una più ampia coscienza di classe e del ruolo che le masse contadine e operaie potevano rivestire nell’ambito della Rivoluzione della guerra civile, aveva assaltato banche per finanziare un piccolo gruppo terroristico e aveva rischiato, proprio per questo motivo, di finire sulla forca. Ma i risvolti di quella lotta, durata alcuni anni, sia contro le armate bianche, in alleanza con quelle rosse nella prima fase, e poi in seguito solo contro le seconde, riguardavano solo e sempre una rivoluzione sociale e il tentativo di dar l'assalto al cielo. Proprio in quelle aree in cui oggi il cielo è solcato soltanto da droni, missili, aviogetti, proiettili di cannoni, tutti irrimediabilmente destinati a far trionfare una delle parti fortemente segnate dal nazionalismo e dagli interessi del capitale.

Ecco allora che leggere e studiare questo ennesimo bel libro pubblicato da elèuthera può dunque servire a spalancare gli occhi del lettore che fosse ancora distratto dalle chimere di una propaganda che, con la scusa della “resistenza”, ci invita soltanto ad appoggiare la guerra imperialista. E null’altro.

Note

  1. A. V. Shubin, Nestor Machno. Bandiera nera sull’Ucraina, elèuthera editrice, Milano, vuova edizione 2022, p. 7  

  2. Shubin, op. cit., pp. 13-15  

  3. Le principali guerre contadine in Russia si svolsero nel 1606-07, 1670-71 e 1774-75, guidate da Ivan Bolotnikov, da Stepan Razin, da Emel’jan Pugacev

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“L’Europa paga la codardia dei suoi leader”

Un’intervista piuttosto “pepata” allo storico esponente della sinistra tedesca, Oskar Lafontaine, fondatore della Linke e spesso molto critico con il suo stesso “partito-movimento”.

Deutsche Wirtschaftsnachrichten: Cosa succede ora che i gasdotti Nordstream 1 e Nordstream 2 sono stati fatti saltare?

L’esplosione dei due gasdotti è una dichiarazione di guerra alla Germania ed è patetico e vile che il governo tedesco voglia nascondere l’incidente sotto il tappeto. Dice di sapere qualcosa, ma non può dirlo per motivi di sicurezza nazionale. I passeri lo fischiano dai tetti da molto tempo: gli Stati Uniti hanno eseguito direttamente l’attacco o almeno hanno dato il via libera.

Senza la conoscenza e il consenso di Washington, non sarebbe stato possibile distruggere i gasdotti, che costituiscono un attacco al nostro Paese, colpiscono la nostra economia nel profondo e vanno contro i nostri interessi geostrategici.

È stato un atto ostile contro la Repubblica Federale – non solo contro di essa, ma anche – che chiarisce ancora una volta che dobbiamo liberarci dalla tutela degli americani.

Nel suo nuovo libro “Ami, è ora di andare!” lei chiede il ritiro delle truppe americane dalla Germania. Non è irrealistico?

Naturalmente non accadrà da un giorno all’altro, ma l’obiettivo deve essere chiaro: il ritiro di tutte le strutture militari e delle armi nucleari statunitensi dalla Germania e la chiusura della base aerea di Ramstein.

Dobbiamo lavorare con costanza verso questo obiettivo e allo stesso tempo costruire un’architettura di sicurezza europea, perché la NATO, guidata dagli Stati Uniti, è obsoleta, come ha riconosciuto nel frattempo anche il Presidente francese Emmanuel Macron.

Questo perché la NATO ha smesso da tempo di essere un’alleanza difensiva, ma piuttosto uno strumento per rafforzare la pretesa degli Stati Uniti di rimanere l’unica potenza mondiale. Ma dobbiamo formulare i nostri interessi e questi non sono affatto congruenti con quelli degli Stati Uniti.

Lei dice che gli americani sono responsabili dell’esplosione degli oleodotti. Credete davvero che rinuncerebbero alla Germania senza combattere?

No, sarà un po’ complicato, ma non vedo alternative. Se noi e gli altri Paesi europei resteremo sotto la tutela degli Stati Uniti, questi ci spingeranno verso il precipizio per proteggere i loro interessi. Dobbiamo quindi ampliare lentamente il nostro raggio d’azione, preferibilmente insieme alla Francia.

Come Peter Scholl-Latour, molti anni fa ho invocato un’alleanza franco-tedesca. A quel punto anche la difesa dei due Stati potrebbe essere integrata, come nucleo di un’Europa indipendente. Per usare un’espressione ormai trita e ritrita: stiamo vivendo le doglie della fase di transizione da un ordine mondiale unipolare a uno multipolare.

E qui si pone la questione se prenderemo un posto indipendente in questo nuovo ordine mondiale o se ci lasceremo trascinare nei conflitti di Washington con Mosca e Pechino come vassalli degli Stati Uniti. Possiamo solo perdere nel processo.

Dovremo indagare di nuovo su questo aspetto. L’influenza americana sulla politica e sui media tedeschi è infinitamente grande. Come pensate di guadagnare spazio di manovra?

Ha funzionato sotto cancellieri come Willy Brandt, Helmut Schmidt, Helmut Kohl e Gerhard Schröder. Almeno in alcuni conflitti avevano in mente gli interessi tedeschi e non li hanno gettati in mare per obbedienza anticipata. Quando si è a capo di un Paese, occorre avere anche una spina dorsale.

L’immagine del Cancelliere Scholz in piedi come uno scolaretto accanto al Presidente degli Stati Uniti Biden quando ha annunciato che il Nordstream 2 non sarebbe stato realizzato è stata un’umiliazione.

E a ciò si aggiungono il Ministro degli Esteri tedesco, che fa da pappagallo alla propaganda statunitense, e il Ministro dell’Economia, che vuole “servire da leader”. Non si può essere più ingraziati di così.

A che gioco stanno giocando Baerbock (la ministra degli esteri, ndr) e Habeck (all’economia, ndr)?

Per quanto riguarda la signora Baerbock, vorrei intervenire in sua difesa. Non sta giocando. Probabilmente è davvero così sempliciotta. E Habeck è completamente fuori posto in quel ruolo.

Nel suo libro lei cita Machiavelli: “Non è colui che per primo prende le armi ad essere l’istigatore del disastro, ma colui che lo costringe”. Si riferisce al conflitto in Ucraina?

Naturalmente, mi riferisco anche al conflitto ucraino, iniziato con il colpo di stato del Maidan di Kiev al più tardi nel 2014. Da allora, gli Stati Uniti e i loro vassalli occidentali armano l’Ucraina e la preparano sistematicamente alla guerra contro la Russia. In questo modo, l’Ucraina è diventata un membro de facto della NATO, anche se non de jure. Questa storia è stata studiatamente ignorata dai politici occidentali e dai media mainstream.

Tuttavia, l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo è stata una violazione imperdonabile del diritto internazionale. Le persone muoiono ogni giorno e tutti coloro che, a Mosca, a Kiev o a Washington, sono responsabili del fatto che non c’è ancora un cessate il fuoco, si stanno assumendo un pesante fardello di colpa.

Per oltre 100 anni, l’obiettivo dichiarato della politica statunitense è stato quello di impedire a tutti i costi che l’industria e la tecnologia tedesche si fondessero con le materie prime russe.

È assolutamente chiaro che abbiamo a che fare con una guerra per procura degli Stati Uniti contro la Russia, preparata da tempo. È imperdonabile che la SPD abbia tradito in questo modo l’eredità di Willy Brandt e la sua politica di distensione e non abbia nemmeno insistito seriamente sul rispetto degli accordi di Minsk.

E gli Stati Uniti hanno raggiunto i loro obiettivi di guerra?

Sì e no. In termini di limitazione delle relazioni tra la Federazione Russa e l’UE, hanno avuto un grande successo. Sono anche riusciti a mettere fuori gioco, per il momento, l’Unione Europea e la Germania come potenziali rivali geostrategici ed economici.

Ancora più di prima del conflitto in Ucraina, ora determinano le politiche degli Stati dell’UE, anche grazie ai politici compiacenti di Berlino e Bruxelles. Possono vendere il loro sporco gas da fracking e l’industria degli armamenti statunitense fa affari con le bombe.

D’altra parte, però, non sono riusciti a “rovinare la Russia“, come ha detto la signora Baerbock, un loro portavoce, rovesciando Putin e installando un governo fantoccio a Mosca per ottenere un migliore accesso alle materie prime russe come ai tempi di Eltsin.

E ho l’impressione che gli Stati Uniti si rendano conto che stanno mordendo il granito. Nonostante le massicce forniture di armi all’Ucraina e l’invio di numerosi “consiglieri militari”, la Russia, una potenza nucleare, non può essere sconfitta militarmente.

Inoltre, le sanzioni occidentali si stanno rivelando un boomerang: stanno danneggiando gli Stati occidentali più della Russia e porteranno alla deindustrializzazione, alla disoccupazione e alla povertà. La popolazione attiva in Europa sta pagando il prezzo delle ambizioni di potere mondiale di un’élite impazzita a Washington e della codardia dei leader europei.

Quindi da qui in poi va tutto verso il precipizio?

Dobbiamo urgentemente garantire la fine del conflitto in Ucraina. E questo sarà possibile solo se gli Stati Uniti abbandoneranno il loro piano di mettere in ginocchio la Russia, per poi affrontare la Cina. Per questo è necessaria un’iniziativa europea, che deve partire da Francia e Germania.

Se non lo faremo, e se non troveremo presto un accordo con la Russia sulle importazioni di materie prime ed energia, l’economia della Germania e dell’Europa andrà a rotoli e i partiti di destra diventeranno sempre più forti in Europa.

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29/11/2022

Quattro carogne a Malopasso (1989) di Vito Colomba - Minirece

I silenzi di Francoforte

di Guido Salerno Aletta

C'è una scelta politica ben precisa, dietro la strategia della BCE in materia di riduzione della liquidità: ha completamente rivisto la misura dei tassi sui depositi bancari ulteriori rispetto alla riserva obbligatoria e quelli delle operazioni di rifinanziamento, aprendo una finestra temporale ristretta per consentire il rimborso delle somme già erogate sulla base dei programmi T-LTRO.

In pratica, la BCE ha ritenuto che il sistema bancario abbia liquidità in eccesso rispetto al fabbisogno di credito erogabile alle nuove condizioni. Rendendo più costoso, o comunque meno conveniente tenerla inoperosa presso i conti intrattenuti dalle Banche stesse presso la BCE, ha creato condizioni solo indirette per una stretta monetaria. Alzando i tassi, infatti, si opera anche retroattivamente su prestiti e mutui contrattualizzati a condizioni variabili, appesantendo immediatamente l'onere per i debitori che sono già in condizioni di stress per l'aumento dei prezzi.

Agevolare il rimborso anticipato delle somme già erogate in precedenza a titoli di T-LTRO è una misura direttamente correlata alla prima: la liquidità giacente inoperosa presso la BCE è quella che era stata richiesta dalle banche per erogare altro credito, ma che non ha trovato uno sbocco.

C'è stata grande cautela nel rimborso anticipato dei T-LTRO: il sistema bancario, tranne alcune vistose eccezioni, ha preferito non privarsi della liquidità di cui dispone. Si intuisce da questo comportamento il timore che desta una situazione economica e geopolitica in cui non c'è nessuna visibilità, neppure sulle prospettive a brevissimo termine. Per la gran parte delle banche, dunque, il rischio di trovarsi per qualche motivo senza liquidità supera il minor vantaggio che deriva dalle nuove condizioni poste dalla BCE.

Diversamente dalla Federal Reserve, che ha già implementato misure di riduzione della liquidità vendendo sul mercato i titoli che detiene in portafoglio, Treasury e obbligazioni garantite, la BCE non ha ancora deciso di operare questo classico sistema di Quantitative Tightening.

Ci sono tre ragioni.

In primo luogo, l'aumento dei tassi di interesse deciso dalla Fed ha avuto come diretta conseguenza l'arrivo di capitali internazionali sul dollaro, per cui c'è una condizione di ulteriore liquidità del mercato statunitense. All'opposto, il mercato dell'euro ha subito la decisione americana, con un drenaggio di capitali che hanno inciso anche sul cambio, indebolendolo vistosamente.

In secondo luogo, la vendita di titoli di Stato da parte della BCE sarebbe una novità assoluta, dalle conseguenze oggi davvero imprevedibili: ogni cautela è stata posta, infatti, finora, per gestire la liquidità riveniente dalle scadenze dei titoli in portafoglio, per reinvestirla in modo da evitare un allargamento degli spread. Solo di recente, infatti, la BCE ha ritenuto che la piena operatività delle decisioni di politica monetaria sia assicurata da una adeguata convergenza dei tassi di interesse nei diversi Stati aderenti all'euro, ed in particolare dai tassi sui titoli di Stato.

C'è infine un terzo aspetto, che attiene alla credibilità della BCE: una operazione di vendita di titoli di Stato al fine di ridurre la liquidità, una volta annunciata, non sarebbe facilmente modificabile. Ed è già l'annuncio di questa misura che potrebbe scatenare la speculazione sui titoli dei Paesi più indebitati, come l'Italia.

È ancora aperta la ferita inferta dalla Exit Strategy adottata dalla BCE ancora in piena crisi, nel secondo e terzo trimestre del 2011, quando l'aumento dei tassi per fronteggiare l'inflazione che era stato deciso sotto la guida di Jean-Claude Trichet creò condizioni di enorme difficoltà di accesso ai mercati per le emissioni della Spagna. All'arrivo di Mario Draghi, a settembre, si dovettero azzerare i tassi e procedere a due operazioni di rifinanziamento senza limiti di importo tra la fine dell'anno e l'inizio del 2012.

Fare marcia indietro sarebbe devastante: se i mercati si rendessero conto che la BCE non ha più il controllo della situazione, l'euro potrebbe davvero collassare.

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L’Italia ancora in guerra. Oggi si votano le mozioni alla Camera

Le diverse mozioni sulla prosecuzione del coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina, approdano oggi nell’Aula della Camera.

Sia la destra al governo che gran parte dell’opposizione (PD, Calenda) sostengono la prosecuzione dell’invio delle armi a Kiev. C’è il serio rischio che questo impegno bellico venga mantenuto d’ufficio anche per tutto il 2023.

La bozza non definitiva della mozione cui lavorano i partiti della maggioranza impegna il Governo, tra le altre cose, “a sostenere le iniziative normative necessarie a prorogare fino al 31 dicembre 2023 l’autorizzazione, previo atto di indirizzo delle Camere, alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina nei termini e con le modalità stabilite dall’articolo 2-bis del decreto-legge 25 febbraio 2022, n. 14”, la cui validità scadrà il 31 dicembre prossimo.

Ma non è l’unica cosa grave presente nella mozione che la destra di governo presenterà in Parlamento. Infatti in un altro passaggio della mozione, i partiti della maggioranza intendono impegnare il Governo “ad assumere tutte le iniziative necessarie per conseguire l’obiettivo di una spesa per la Difesa pari al 2% del Pil, anche promuovendo, nel quadro della riforma del Patto di stabilità e crescita, l’esclusione delle spese per gli investimenti nel settore della difesa dal computo dei vincoli di bilancio”.

In pratica le spese militari non dovranno più essere sottoposte ai vincoli di bilancio come gli altri capitoli della spesa pubblica e sociale.

Ma se la destra è orientata in questo modo, nell’opposizione ci sono già tre distinti testi uno del PD, uno del Movimento 5 stelle, e quello dell’Alleanza Verdi-Sinistra.

Il M5S insiste sul coinvolgimento preventivo delle Camere prima di decidere qualsiasi mossa – anche sulle armi – da parte del governo, sulla scia delle richieste, più volte avanzate dai pentastellati, di comunicazioni nelle aule parlamentari, affinché si potesse procedere ad un voto.

Per il PD invece la mozione che verrà presentata esprime il pieno sostegno e solidarietà a Kiev, che ha diritto all’assistenza militare necessaria anche alla luce dell’articolo 51 della Carta delle nazioni Unite che stabilisce il diritto alla propria difesa, individuale e collettiva. Senza dimenticare di “confermare il ruolo dell’Italia nel quadro dell’Alleanza Atalantica; l’importanza di chiedere al governo l’impegno affinchè l’Italia sia protagonista nell’avvio del percorso di una conferenza di pace, la necessità di adoperarsi per il cessate il fuoco immediato e il ritiro delle forze russe che illegittimamente occupando il suolo ucraino”.

Non solo, il PD chiede che nella malaugurata ipotesi del protrarsi della guerra, allo scadere del decreto sull’emergenza Ucraina si provveda con un apposito provvedimento di legge.

La mozione dell’Alleanza Verdi-Sinistra intende invece impegnare il governo a cambiare strategia e approccio dando priorità alla costruzione di un processo di pace e all’attivazione di canali negoziali; a lavorare alla convocazione di una conferenza multilaterale per la pace e la sicurezza guidata dalle Nazioni Unite e a interrompere la fornitura di equipaggiamento militare, concentrando tali risorse sull’assistenza umanitaria e la ricostruzione. Così come a fornire al Parlamento ogni elemento utile circa la natura e la quantità di equipaggiamento militare fin qui fornito all’Ucraina.

Sull’esito delle votazioni alla Camera sul coinvolgimento dell’Italia nella guerra in Ucraina, viene da chiedersi quale saranno gli effetti della manifestazione nazionale per la pace dello scorso 5 novembre. Le troppe omissioni e ambiguità hanno indubbiamente depotenziato quel messaggio, consentendo a chi era in piazza – vedi Letta e i parlamentari del PD – di proseguire sulla propria linea bellicista senza doverne poi pagare il conto. E la gravità della guerra e la sua fuoriuscita dagli scenari del paese si è ridotta così a un dibattito di routine nelle aule parlamentari.

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Giappone - Il governo vuole raddoppiare le spese militari

L’input è arrivato direttamente dal primo ministro, Fumio Kishida, il quale ha dato ordine ai ministeri delle Finanze e della Difesa giapponesi di approntare i piani necessari per reperire i fondi e raddoppiare il bilancio della Difesa nazionale, portandolo al 2 per cento del prodotto interno lordo entro l’anno fiscale 2027. Il Giappone, prevedeva fino ad oggi spese militari pari all’un per cento del Pil, e tenendo conto del Pil giapponese la cifra era già ragguardevole: circa 5mila miliardi di yen (circa 36 miliardi di dollari).

Il ministero della Difesa ha stimato invece in 48mila miliardi di yen nell’arco dei prossimi cinque anni la cifra complessivamente necessaria a potenziare le capacità belliche del Paese per fronteggiare le nuove sfide regionali, prime fra tutte l’ascesa militare della Cina e i programmi balistico e nucleare della Corea del Nord.

Nel mese di aprile, il ministro degli Esteri Yoshimasa Hayashi è stato il primo alto diplomatico giapponese a partecipare a una riunione dei ministri degli esteri della NATO, mentre nel mese di maggio, il generale Koji Yamazaki, capo di stato maggiore della Difesa, ha rappresentato per la prima volta il Giappone alla riunione dei capi militari della difesa della NATO.

Il primo ministro Kishida ha dichiarato ripetutamente che “l’Ucraina di oggi potrebbe essere l’Asia orientale di domani”. Il capo del governo giapponese ha fissato il suo pensiero nel libro bianco. “Se l’aggressione della Russia è tollerata”, ha scritto, “potrebbe dare l’impressione sbagliata che cambiamenti unilaterali nello status quo siano consentiti in altre regioni, inclusa l’Asia. La comunità internazionale, compreso il Giappone, non deve tollerare una simile azione”.

Il quotidiano Nikkei ha preso visione della bozza di una proposta presentata da un gruppo di esperti governativi. Il primo ministro Fumio Kishida ha chiesto un aumento significativo del bilancio della Difesa, promosso negli ultimi anni anche dall’ex premier Shinzo Abe, che era favorevole a raddoppiare il bilancio portandolo al 2 per cento del Pil, in linea coi Paesi della Nato. Il problema però è sempre il dove reperire i fondi per raddoppiare le spese militari. Un gruppo di esperti guidato dall’ex diplomatico Kenichiro Sasae, ha approntato una proposta da presentare al governo: la bozza della proposta sollecita a tenere in considerazione le capacità finanziarie del Paese e la sua situazione economica, e avanza la proposta di interventi sulla tassazione che però non disincentivino gli investimenti delle aziende e l’aumento dei salari.

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Come la propaganda trasforma la Tragedia in Farsa

Il potere sulla politica

Diversi episodi tra cronaca e politica, in queste settimane, hanno reso urgente rispondere a una domanda: come viene selezionata la classe politica nel neoliberismo Occidentale di questo terzo millennio?

L’importanza è evidente: qualsiasi ipotesi di governo sociale – conservatrice, “riformista” o rivoluzionaria – non può prescindere dall’analisi dei meccanismi attraverso cui problemi e interessi sociali vengono “tradotti” oppure rifiutati in programmi, leadership, rappresentatività.

Tra i molti episodi ne abbiamo scelti due, che non a caso hanno ricevuto una copertura mediatica mainstream assai diversa. Il primo riguarda il presidente francese Emanuel Macron – ampiamente “minimizzato” per non sollevare troppe inquietudini – e l’altro, quasi ovviamente, Aboubakar Soumahoro, su cui invece si sono buttati tutti gli avvoltoi possibili.

Partiamo dal caso di “alto livello”. Al di là delle dietrologie e dei sempreverdi complottismi, l’inchiesta aperta dalla magistratura francese sui rapporti tra Emanuel Macron e la società americana McKinsey illumina meccanismi altrimenti sempre avvolti nella nebbia dell’ignoranza, tra onde di sospetto mai comprovabile.

Stavolta invece abbiamo a che fare con fatti concreti – un po’ come ai tempi di Tangentopoli in Italia – perché la Procura nazionale finanziaria (Pnf) francese da circa un mese sta lavorando su due inchieste. La prima sulle “condizioni di intervento delle società di consulenza nelle campagne elettorali del 2017 e del 2022”, la seconda sui presunti “favoritismi” di cui avrebbero beneficiato tali società successivamente alle due elezioni successive dello stesso Macron.

In pratica, queste società avrebbe finanziato e organizzato entrambe le campagne elettorali dell’attuale inquilino dell’Eliseo, ricevendo come compenso una serie di contratti di consulenza pagati dallo Stato. Pare senza gara di assegnazione e comunque per importi alquanto rilevanti: oltre 1 miliardo di euro.

Per la legislazione francese, comunque, Macron non rischia nulla fin quando resta presidente. Dunque sgomberiamo il campo dalle illusioni che queste inchieste aprano chissà quale nuova fase politica Oltralpe.

Però il “meccanismo” è molto interessante, perché appare comune a tutte le autodefinite “democrazie” occidentali.

Vediamo i dettagli.

McKinsey è una multinazionale statunitense specializzata in “consulenza manageriale all’alta direzione, che serve le maggiori aziende a livello mondiale”. In pratica una king maker che crea, istruisce e “piazza” amministratori delegati, presidenti, dirigenti di alto livello, in campo finanziario, industriale... e politico.

Organizzare una campagna elettorale per le presidenziali francesi è certamente costoso – da alcune decine a qualche centinaio di milioni di euro – ma altrettanto certamente remunerativo, se “il tuo candidato” raggiunge il risultato. Un gioco che vale assolutamente la candela...

Anche perché i contratti di consulenza spuntati successivamente sono solo una parte dei benefici che se ne possono trarre. Anzi, sono addirittura la parte meno importante. Basti pensare agli effetti delle scelte legislative in materia finanziaria, fiscale, ecc., che un presidente della Republique può mettere in moto.

Bisogna dire che la figura stessa di Emmanuel Macron sembra disegnata per corrispondere all’icona del “servo dei padroni”. Un giovane laureato all’Ena (la scuola di formazione degli “amministratori pubblici” in Francia, da cui passano quasi tutti i politici d’Oltralpe), poi funzionario della banca Rotschild, che viene chiamato da Francois Hollande a ricoprire prima la carica di vicesegretario dell’Eliseo e quindi quella di ministro dell’economia.

Una carriera fulminea che usa per demolire il Partito Socialista (cui era formalmente iscritto) e fondare la sua Republique en marche replicando – con maggior successo – lo schema di Matteo Renzi con il Pd.

Nel breve volgere di pochi mesi si guadagna la fama di presidente dei ricchi. E non è un’accusa campata in aria, ma comprovata dalla pubblicazione delle retribuzioni dei patron dei grandi gruppi francesi, che nel 2021 hanno registrato un record.

Con quei “consulenti” alle spalle, del resto, sarebbe stato difficile fare qualcosa di diverso...

Questo binomio tra gruppi multinazionali e politici di alto livello distrugge e bypassa il “corpo intermedio” che aveva fatto da pilastro per la politica nel Novecento: il partito politico (di qualsiasi tendenza), radicato nel territorio e nei principali settori sociali di riferimento.

Ma se questo binomio annienta la macchina che in precedenza costruiva il consenso verso determinate idee e programmi, allora necessita – per conquistare le menti e i cuori del cittadini-elettori, sia pur provvisoriamente – di un solido presidio nei principali media del paese, a loro volta sotto il pieno controllo proprietario di altri gruppi industriali o finanziari.

Che possono perciò o contrattare iniziative legislative in cambio del proprio appoggio, oppure aprire una “guerra” per favorire l’emersione di altri “personaggi politici” (inventati o meno) in grado di “competere” per le cariche più alte.

Niente di nuovo sotto il sole, potremmo dire.

Certo, ma che sia questa la situazione in cui avviene qualsiasi campagna elettorale, a qualsiasi livello, dovrebbe aiutare le forze della “sinistra radicale” a comprendere (e superare) la follia depressiva in cui sono cadute nell’ultimo ventennio.

Quello in cui hanno costantemente cercato, ad ogni scadenza, di individuare un “personaggio da cui ripartire”, una sorta di “salvatore della sinistra” in grado di produrre – con la sua sola presenza – risultati elettorali migliori di quanto la propria, scarsa, presenza sociale possa garantire. Per poi scoprire che non funziona, anzi...

E qui arriviamo al “caso Soumahoro”, al lato opposto della scala del potere, che illumina invece il miserrimo escamotage tipico nella “vecchia sinistra” e il consapevole distacco tra queste formazioni e “il popolo” (comprese le sue componenti di “recente immigrazione”).

Abou è stato candidato solo quando si era completata la sua trasformazione da sindacalista vero e semplice in “icona” mediatica simboleggiante il mondo dei braccianti, tramite il lungo e sapiente lavorio del duo Damilano-Zoro (ovvero del gruppo L’Espresso – ora passato in mano alla famiglia Agnelli-Elkann – del gruppo Cairo-Corriere della Sera).

Candidato insomma in quanto “personaggio noto”, “nome spendibile”, etichetta di richiamo su un prodotto vecchio e ammuffito (Sinistra Italiana più Angelo Bonelli & co.). In altre parole: candidato non perché era un sindacalista, ma perché aveva smesso di esserlo.

Cerchiamo di esser chiari. C’è un bisogno disperato, per le classi popolari, di una rappresentanza politica vera, in grado di far valere gli interessi degli sfruttati in qualsiasi sede, anche istituzionale, per moltiplicare le occasioni di generalizzazione del conflitto e la costruzione di un progetto di trasformazione radicale.

In questa chiave è ovvio che le “avanguardie delle lotte” costituiscono il meglio che si possa mettere in gioco anche in un processo elettorale. Con la ragionevole certezza – nulla di assoluto, ma con qualche probabilità in più – che “non tradiscano la fiducia degli elettori” alla prima occasione. Il loro legame con i rispettivi settori sociali è quello che li rende “rappresentativi” non di se stessi, individualmente, ma di figure sociali più o meno estese.

I “personaggi noti per la loro fama”, invece, galleggiano tra le onde di un sistema mediatico controllato da altri (come abbiamo visto nel caso Macron), che solleva o annega in un attimo chi torna utile e chi smette di esserlo.

A che pro tutto questo “ragionare”?

Ad eliminare, il prima possibile, quelle assurde illusioni che da venti anni, ormai, trascinano “la sinistra radicale” a ripetere sempre lo stesso schema suicida: un cartello elettorale abborracciato all’ultimo momento, slegato da qualsiasi conflittualità sociale reale, e appeso alle paturnie volatili del “personaggio famoso” (o almeno “conosciuto”) di turno.

C’è un “sistema” industriale, finanziario e mediatico che controlla i processi elettorali e ne determina largamente i risultati. Chi vuole cambiare davvero qualcosa, in questo mondo, deve costruire la forza sociale che permette di rompere questa gabbia. E non si fa con il solo marketing furbesco...

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Iran - La composizione sociale e le motivazioni delle proteste (terza parte)

L’estensione e la tenuta delle manifestazioni di protesta in Iran, assegnano a questo ciclo di mobilitazioni caratteristiche diverse da quelle avvenute nelle fasi precedenti.

Paola Rivetti ci ricorda che i lavoratori e le lavoratici, gli operai e le operaie iraniane si sono mobilitati ripetutamente negli ultimi due decenni, “protestando vigorosamente contro le politiche economiche dei governi riformisti di Mohammad Khatami (1997-2005), conservatori di Mahmoud Ahmadinejad (2005-2013) e moderati/riformisti di Hassan Rouhani (2013-2021) ugualmente, contro datori di lavoro che non rispettano contratti e scadenze salariali e creando anche, in alcuni casi, organizzazioni sindacali più o meno formali che sono sopravvissute a repressione ed arresti”.

Occhio a chiamarli riformisti

Inoltre, nei decenni scorsi c’erano state ondate di manifestazione più direttamente politiche lette in Occidente come sostegno ai candidati o ai presidenti ritenuti “riformisti” ma, come abbiamo visto nelle puntate precedenti, questa categoria che i mass media occidentale piegano alle proprie letture, appare del tutto fuorviante nello scontro politico in Iran.

Ad esempio l’obiettivo dell’ex presidente Rouhani sostituito nel 2021 dal più radicale Raisi, era quello di aprire e liberalizzare l’economia del paese, favorendo lo sviluppo del settore privato, abolendo i sussidi (eredità delle politiche sociali di Ahmadinejad rese possibili da anni di prezzi elevati del petrolio), spezzare i monopoli delle entità statali, incluse quelle di proprietà dei pasdaran.

È necessario sapere che il coinvolgimento dei pasdaran nell’economia iraniana, negli anni è andato aumentando, fino a conformare una gigantesca galassia di società controllate e che spaziano dal settore energetico a quello delle infrastrutture. Si stima che i pasdaran, tramite società proprie o affiliate, controllino circa un terzo dell’economia del paese.

Come già segnalato, i conservatori non radicali, sono infatti favorevoli all’iniziativa economica privata e più vicini invece alla classe dei bazaari, la vecchia classe mercantile, un settore che con le sanzioni ha cominciato a veder ridurre seriamente i propri introiti.

Le pesanti conseguenze economiche delle sanzioni occidentali, alle quali si sono aggiunte le conseguenze della pandemia da Covid-19 nel 2020, hanno inceppato la marcia liberista di Rouhani, bloccando appunto le cosiddette “riforme economiche” in senso neoliberale e contribuendo ad aumentare la rabbia sociale, esplosa sotto forma di proteste nel periodo tra il novembre 2019 e il luglio 2020.

In una intervista con Paola Rivetti, l’economista iraniano Mohammad Maljoo, che vive e lavora a Theheran, ha parlato di come l'economia del paese, dalla fine degli anni '80 in poi, sia stata interessata da interventi governativi volti a ridimensionare il settore pubblico e trasformare radicalmente il mercato del lavoro.

L’introduzione di agenzie interinali aveva lo scopo di tramutare la massa di impiegati pubblici (che godevano di buone condizioni di lavoro) in lavoratori del settore privato.

Questo è avvenuto anche adottando misure di austerity che hanno, per esempio, costretto settori del pubblico impiego a diventare economicamente auto-sostenibili, ovvero a sopravvivere senza il trasferimento di fondi da parte del governo tramite legge finanziaria, provocando, tra le altre cose, privatizzazioni, blocchi delle assunzioni e riduzione del personale.

Le disuguaglianze sociali in Iran

Le tensioni più forti si sono manifestate prima nei settori sociali più poveri che si sono visti privare dei sussidi statali aumentando le disuguaglianze interne, in particolare quelle tra le città (dove è più consistente la cosiddetta classe media) e le aree rurali e periferiche, incluse quelle “etniche” come le zone dove vivono i Baluci e i Curdi.

Agisce infatti una atavica differenza tra i popoli non farsi dell’Iran che vivono appunto nelle zone di confine: i Baluci con il Pakistan, i Curdi con l’Iraq, la Turchia e la Siria. Aree di confine dunque naturalmente più “porose” di quelle centrali o metropolitane e nelle quali le infiltrazioni di agenti esterni sono più semplici.

In pratica tutti gli elementi di disuguaglianza sociale e territoriale attutiti nella fase precedente da una maggiore presenza dello Stato nell’economia, hanno visto riaffacciarsi anche istanze di tipo etnico, mai sopite ma certo neanche dirompenti.

La classe media iraniana era cresciuta molto negli anni in cui la Repubblica Islamica, anche in cambio di una limitazione delle libertà politiche, aveva assicurato alla popolazione crescita economica e opportunità sociali. Un po’ come in Venezuela, una forte presenza dello Stato nell’economia e un’alta rendita petrolifera, avevano consentito significativi passi in avanti dell’Iran sul piano dello sviluppo interno.

La classe media iraniana aveva visto crescere il suo peso sociale a rappresentare quasi il 60% della popolazione. Ma, come rileva un rapporto dello statunitense Atlantic Council, da quando sono cominciate le sanzioni occidentali – e parliamo del 2011 – la classe media ha cominciato a regredire per almeno il 10% scendendo al 48,8% nel 2019. Al giorno d’oggi, prosegue l’Atlantic Council, può definirsi classe media in Iran solo il 35% della popolazione.

Oggi, in base ai dati forniti dal Ministero del Welfare dell’Iran, il 10% delle famiglie più ricche iraniane beneficia del 31% del reddito nazionale lordo, mentre il 10% delle famiglie più povere ne possiede solo il 2%.

Tra l’altro, va rilevato che l’economia iraniana registra un grado di diversificazione maggiore rispetto a quelle degli altri paesi produttori di petrolio del Medio Oriente.

Secondo una dettagliata analisi di Annalisa Pereghella (Ispi) “La dipendenza dalla rendita petrolifera è elevata ma non è assoluta. Infatti, nonostante le sanzioni occidentali sulle esportazioni del petrolio iraniano abbiano provocato sofferenze economiche e sociali al paese, queste non avevano portato l’economia al collasso. Ma un paese che sopravvive non può certo prosperare né utilizzare al meglio il potenziale tecnologico e produttivo raggiunto”.

La nuova ondata di proteste in Iran

Se a queste contraddizioni sociali – alcune delle quali anche conseguenza della ingerenza e delle sanzioni di Usa e Ue – aggiungiamo anche l'insopportabilità delle rigide regole pubbliche religiose, è inevitabile che prima o poi si innescasse il corto circuito che ha fatto esplodere l’ultima ondata di proteste che vedono convergere sia richieste politiche di maggiori libertà civili e fine dell’opprimente controllo religioso (soprattutto da parte della popolazione femminile), sia richieste economiche su salari migliori e sussidi contro la povertà.

Secondo una analisi di Med Or (Fondazione Leonardo) appare “sicuramente prematuro, se non del tutto azzardato, affermare che siamo davanti a un movimento rivoluzionario”, così come sembra imprudente asserire che queste proteste possano innescare radicali cambiamenti politici all’interno della Repubblica Islamica.

Per l’analista di Med Or Giorgio Perletta mancano infatti alcuni elementi essenziali affinché questo possa verificarsi, come l’adesione massiccia e trasversale dei commercianti (i cosiddetti bazaari) e dei lavoratori, sempre più precari e inabili nel creare una mobilitazione comune. Mancano infine le defezioni all’interno delle forze armate (decisive per la riuscita di un processo rivoluzionario, ndr) così come manca un gruppo politico che possa canalizzare le varie richieste e farsi promotore di una transizione politica.

Le ingerenze straniere

Che sull’Iran agiscano pesantemente ingerenze esterne, in particolare da Stati Uniti, Israele e Francia, è fin troppo evidente. Ma proprio tenendo conto della strutturazione politica e sociale della Repubblica Islamica, ci sembra che in Iran, più che i sostenitori di un difficile regime change, siano all’opera gli agenti della strategia del caos.

Ma questo fattore, che ci rimanda all’indubbio ruolo internazionale e regionale dell’Iran di aperto contrasto alle ingerenze di Usa e Israele nella regione, non può impedirci di vedere i movimenti sociali, le contraddizioni e le aspirazioni di cambiamento che agiscono dentro quella società, ricordandoci e ricordando a tutti che l’Iran non è affatto un paese arretrato e ad esso occorre guardare con il dovuto rispetto.

Vedi le puntate precedenti:

Iran. Cause e conseguenze dello scontro sociale in corso

Iran. Nello scontro tra conservatori e radicali, le proteste sono una variabile indipendente

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Richarlison, sulle orme di Socrates


Negli scorsi giorni, dopo la spettacolare doppietta alla Serbia, sono circolate alcune dichiarazioni molto belle dell’attaccante brasiliano Richarlison risalenti a un’intervista del 2020 a O Globo: “È un diritto fondamentale avere cibo in tavola, assistenza sanitaria, istruzione e alloggio. Sono favorevole a un minimo di dignità e uguaglianza per tutti i brasiliani che non hanno avuto la mia stessa fortuna“.

Non molti sanno, però, che la punta del Tottenham è una persona che si è spesso spesa su tematiche sociali, negli ultimi anni.

Nello stesso anno, aveva denunciato i problemi del razzismo in Brasile e delle violenze della polizia, paragonando il caso dell’omicidio del giovane João Pedro con quello di George Floyd. “Il razzismo è qualcosa a cui chi viene da una favela è abituato. Le persone che protestano nelle strade negli USA fanno bene a chiedere giustizia. Se fossi là, lo farei anch’io“.

E di nuovo di razzismo ha dovuto parlare un paio di mesi fa quando, durante un’amichevole contro la Tunisia a Parigi, qualcuno dagli spalti gli ha tirato una banana.

Durante i primi mesi della pandemia del Covid-19 si è fatto promotore della campagna di vaccinazioni, invitando a sostenere il lavoro di medici e ricercatori, e a non credere alle fake news e alle teorie del complotto.

Di nuovo, nel gennaio 2021 è intervenuto per sensibilizzare la popolazione brasiliana sul problema della città di Manaus, dov’era in corso una grave crisi sanitaria dovuta all’esaurimento delle scorte di ossigeno negli ospedali.

Nel 2020 si è schierato dalla parte della popolazione di Amapá, rimasta senza elettricità per oltre due settimane, e nello stesso anno prese posizione contro la violenza sulle donne, intervenendo a proposito di un caso che stava facendo molto discutere in Brasile: “La violenza sulle donne è abominevole. Non importa chi la commette o perché. Non c’è motivo al mondo che possa giustificarla“.

Richarlison ha poi dimostrato interesse anche per la causa ambientalista e animalista. Lo scorso giugno, è stato il primo calciatore a a chiedere pubblicamente verità e giustizia per Dom Phillips e Bruno Pereira, il giornalista e l’indigenista, entrambi attivisti ambientalisti, scomparsi e poi ritrovati assassinati in Amazzonia, dove stavano conducendo un’inchiesta.

Prima di partire per i Mondiali, l’attaccante ha anche adottato un giaguaro nel Parco Nazionale del Pantanal, nel Mato Grosso.

Nella stessa intervista da cui è partito questo post, Richarlison spiegava di sentire il bisogno di parlare di temi così importanti perché proviene da una zona in cui “la gente non ha voce“: “Ho letto in un articolo – aggiungeva – che il 75% della popolazione povera in Brasile è nera, e che anche il 76% delle persone uccise ogni anno sono nere. Coincidenza? Non devi essere un re della matematica per realizzare l’ovvietà“.

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28/11/2022

A sangue freddo (1967) di Richard Brooks - Minirece

La Bce viola il Trattato di Maastricht

Il “pilota automatico” si sta rivelando una iattura sia per l’economia europea sia per la stabilità finanziaria degli Stati, alle prese con le conseguenze di due anni di pandemia e quasi uno di guerra. In cui sono esplose le richieste di “ristori” per le imprese oltre che di sussidi per varie fasce di popolazione altrimenti alla fame.

La Bce, come tutte le altre istituzioni sovranazionali continentali, continuano a recitare la parte degli “austeri” e minacciano continuamente i singoli Stati “con alto debito pubblico” (l’Italia, in primo luogo) perché riprendano il cammino della riduzione del debito tramite tagli alla spesa sociale.

Ma sotto la retorica dei “falchi” si va facendo strada la dura necessità oggettiva, ovvero le dinamiche della crisi sistemica, che impongono scelte diverse, risposte ad hoc, variazioni di atteggiamento. Insomma che richiedono una politica (variabile, per definizione, e soprattutto risposte concrete a problemi imprevisti e imprevedibili).

Un primo “dirazzamento” venne proprio da uno dei più convinti cantori delle virtù del “pilota automatico”, Mario Draghi.

Il suo famoso whatever it takes del 2012 era stato giustamente interpretato dai “mercati” come un “stamperemo moneta in quantità illimitata pur di impedire che la speculazione sull’euro possa far fallire alcuni Stati dell’eurozona e con essi l’Unione Europea”.

Pochi allora – tranne i soliti borbottoni orange e teutonici, che però non tirarono troppo la corda per non provocare il disastro collettivo – fecero notare che questa “virata” nella politica monetaria era esattamente l’opposto di quanto previsto dal trattato istitutivo della stessa Bce.

Perché, detta in estrema sintesi, trasformava Francoforte in prestatore di ultima istanza degli Stati dell’eurozona. Ossia proprio quello che si era voluto eliminare fin dagli anni ‘80, attribuendo al “pubblico” tutte le colpe per il mancato funzionamento del sistema economico, l’aumento del debito pubblico, ecc.

Ciò non impedì a quello stesso Mario Draghi di affamare ferocemente la Grecia, nel 2015, in nome delle “regole”, per obbligarla ad accettare il “memorandum” della Troika, fino a bloccare i bancomat ellenici facendo mancare la liquidità necessaria. Ci sono regole che valgono e altre no, pare. O meglio: regole che valgono per chi è più debole, perché sono solo la volontà del più forte.

Passata la stagione del quantitative easing ci si preparava già al “ritorno alla normalità”, ossia all’austerità prevista dal “patto di stabilità” che impone la riduzione del debito pubblico (anche del 5% annuo) fino a riportarlo al 60% del Pil (per l’Italia è oltre il 150%, figurarsi se è un obiettivo realistico...).

Ma due anni di pandemia e quasi uno di guerra hanno “accollato” agli Stati una serie di richieste (“ristori”, sussidi, spesa sanitaria, investimenti, ecc.) che hanno ovviamente agito in senso contrario. E l’inflazione, infine, è arrivata a devastare il piatto panorama di tassi di interesse da anni a zero o negativi.

Ma anche in questo caso la nuova, presunta, padrona della politica monetaria europea, Christine Lagarde, ha evitato di seguire l’esempio del “collega” Powell, presidente della Federal Reserve, che ha sparato una raffica di aumenti dei tassi come se non sapesse che la causa di questa inflazione non è da “eccesso di domanda”.

Appoggiandoci sul sempre acuto Guido Salerno Aletta – che da ex vicedirettore di Palazzo Chigi molto sa sul “ruolo dello Stato in economia” – apprendiamo che questa scelta di Lagarde “viola il trattato di Maastricht”. Quel che è assolutamente vietato per qualsiasi Stato della UE, insomma, è prassi liberamente attuabile per la Bce, in “stato di necessità”.

È la prova che il “pilota automatico” era ed è soltanto uno strumento falsamente “scientifico”, in realtà brutalmente politico, per esautorare la “politica” (in realtà: la volontà popolare) sulle politiche di bilancio.

Ora ci ritroviamo nella situazione in cui le scelte che dovrebbero essere assunte in base a una valutazione politica sono invece in mano ad istituzione sedicenti “tecniche”. Le quali, navigando a vista in mari tempestosi, sono obbligate a smentire – violandole – quelle stesse “regole” che prescrivono come “scientifiche” o “neutre”. Per gli altri ovviamente.


Buona lettura.

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Così la Bce ha violato il Trattato di Maastricht e ha affossato l’euro

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza

Mille e una ragione militano a favore della straordinaria prudenza con cui la Bce sta affrontando la fiammata inflazionistica iniziata nel 2021, ben prima del 24 febbraio di quest’anno, quando ha avuto inizio l’operazione militare speciale con cui la Russia ha invaso l’Ucraina.

Solo a luglio di quest’anno, in coincidenza con il quarto aumento deciso dalla Federal Reserve, la Bce ha aumentato i tassi che erano fermi allo 0% dal marzo del 2016, portandoli allo 0,5%. Li ha alzati ancora dello 0,75% sia a settembre che a inizio novembre, arrivando così al 2%. La metà esatta rispetto al 4% della Fed.

In termini di riduzione della liquidità, già il 1° giugno scorso la Fed decise di procedere alla vendita di titoli in portafoglio, arrivati a oltre 9.000 miliardi di dollari: alle prime tre cessioni mensili da 47,5 miliardi ciascuna, di cui titoli del Tesoro per 30 miliardi e Mbs garantite dalle Agenzie federali per 17,5 miliardi, le successive aste sarebbero salite 95 miliardi di dollari, e rispettivamente a 60 e a 35 miliardi.

La Bce ha giocato di rincalzo, senza inseguire la Federal Reserve: lasciando aprire il differenziale dei tassi ha lasciato che i capitali investiti in euro si spostassero sugli impieghi in dollari, resi più convenienti.

Ha indirettamente provocato un forte scivolamento dell’euro, che si è svalutato del 20% sul dollaro, determinando un corrispondente aumento dei prezzi delle importazioni che sono prevalentemente quotate e pagate nella valuta statunitense.

Così facendo, la Bce ha conseguito due risultati: sul piano della liquidità, ha spalancato la strada all’uscita dei capitali eccedenti le necessità della economia reale; sul piano della compressione della domanda aggregata, la misura ritenuta comunque necessaria per ridurre l’inflazione, l’aumento del costo delle importazioni, magnificato dalla svalutazione dell’euro, ha avuto un impatto più ampio e generalizzato rispetto a quello che si sarebbe ottenuto aumentando maggiormente i soli tassi di interesse.

Vero è che la complessiva ricomposizione dei portafogli dei non residenti non ha affatto penalizzato l’Italia, infatti, tra il secondo trimestre del 2021 e il secondo trimestre di quest’anno le detenzioni straniere di titoli di Stato a medio e lungo termine sono diminuite di ben 171 miliardi di euro, scendendo da 703 a 532 miliardi, ma sono state più che ampiamente compensate dall’aumento degli impieghi in titoli a breve e da prestiti.

Nello stesso periodo, le attività in Italia dei non residenti sono infatti cresciute di ben 81 miliardi di euro, passando da 3.129 a 3.210 miliardi di euro. Di converso, sono aumentate ancora di più, per 110 miliardi di euro, le passività del resto mondo nei confronti dell’Italia, passando da 3.192 a 3.302 miliardi di euro.

Anche di recente, la tradizionale prudenza delle famiglie italiane non è venuta meno: nel secondo trimestre di quest’anno hanno acquistato attività finanziarie per 31 miliardi di euro, aumentando le passività di soli 25,4 miliardi, di cui 8,2 miliardi per prestiti bancari.

Le società non finanziarie italiane hanno acquistato attività finanziarie per 22,7 miliardi, di cui 11,7 miliardi per aumento di depositi bancari, mentre le loro passività sono cresciute di 28,6 miliardi, di cui 16,8 miliardi per prestiti bancari.

Un più vigoroso aumento dei tassi di interesse avrebbe influito negativamente sulle dinamiche delle famiglie e delle imprese italiane, alle prese con dinamiche complesse e imprevedibili.

C’è un motivo di fondo che ispira la particolare cautela della Bce: l’esperienza drammatica della exit strategy che fu decisa nei primi mesi del 2011, ritenendo che l’aumento dei tassi di interesse fosse giustificato dalla ripresa dell’inflazione dopo la recessione determinata dalla grande crisi finanziaria americana.

Scoppiarono invece, e tutte insieme, le contraddizioni sistemiche e gli squilibri strutturali che l’euro aveva coperto per un intero decennio: i default in Irlanda, Grecia e Spagna, segnarono l’inizio di una lunghissima stagione di politica monetaria eccezionalmente accomodante, vieppiù accentuata durante il biennio 2020-2021 di crisi sanitaria.

I debiti pubblici si sono ingigantiti, e solo gli acquisti massicci da parte delle banche centrali di ciascun Paese, nell’ambito dei Qe e dei Pepp, hanno consentito di assorbirne completamente le emissioni nette e di ridurne drasticamente l’onere per interessi.

Alla decisione di concludere queste operazioni di acquisti netti si è accompagnata quella di continuare a mantenere stabile il livello della detenzioni di titoli pubblici.

Anche il solo annuncio di una riduzione dei titoli di Stato in portafoglio avrebbe scatenato, e scatenerebbe ancora, una incontenibile reazione sui mercati, mentre gli ombrelli del Mes e del programma Omt sarebbero inefficaci per via delle severe condizionalità da imporre agli Stati, incompatibili con una situazione economica e geopolitica così complessa e imprevedibile come l’attuale.

Anche la revisione del Fiscal Compact procede d’altronde con analoga prudenza.

Alla fine, la Bce ha dovuto fare esattamente ciò che sin dal Trattato di Maastricht fu vietato alle banche centrali: essere prestatrici di ultima istanza degli Stati.

E la debolezza dell’euro, la moneta unica che avrebbe dovuto sottrarci alla duplice tirannia del dollaro e del marco tedesco, viene ancora una volta strumentalizzata, lasciandola svalutare per non inseguire la decisioni restrittive della Fed, così come per vent’anni ha consentito alla Germania di accumulare enormi saldi commerciali con l’estero.

La Bce se n’è fatta finalmente una ragione: con l’euro, la prudenza non è mai troppa.

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Corea del Sud - I camionisti sindacalizzati fermano il Paese

La Corea del Sud non è riuscita a raggiungere un accordo con il sindacato dei camionisti in sciopero nella prima sessione di colloqui di lunedì – al quinto giorno di sciopero a livello nazionale – mentre le difficoltà delle catene di approvvigionamento si aggravano e il cemento si esaurisce nei cantieri.

Il governo, che stima perdite giornaliere per circa 300 miliardi di won (224 milioni di dollari) a causa dell’esaurimento delle scorte di cemento e di carburante per le stazioni di servizio, ha innalzato al massimo livello l’allarme per l’interruzione del trasporto merci.

La mancanza di una risoluzione concordata per il secondo grande sciopero in meno di sei mesi di migliaia di camionisti, che chiedono migliori retribuzioni e condizioni di lavoro, rende più probabile che il governo precetti gli scioperanti per obbligarli a tornare al lavoro.

“La posizione del ministero dei Trasporti oggi è stata che ‘Non c’è nulla cui il ministero possa rispondere’“, ha dichiarato il Cargo Truckers Solidarity Union (CTSU) in un comunicato, aggiungendo che il prossimo round di colloqui è stato fissato per mercoledì.

Il sindacato ha detto di aver chiesto al governo di ritirare i passi verso l’emissione di un “ordine di ripresa del lavoro” “antidemocratico e anticostituzionale”.

La legge coreana consente la precettazione per affrontare una grave interruzione dei trasporti, e il mancato rispetto può portare a punizioni come la cancellazione delle licenze dei camionisti e tre anni di carcere, o una multa fino a 30 milioni di won (22.550 dollari).

Lo sciopero sta interrompendo l’attività industriale in un momento in cui la quarta economia asiatica, che dipende dalle esportazioni, si aspetta un crollo della crescita, con la banca centrale che ha abbassato le previsioni per il 2023 dal 2,1% all’1,7%.

Lunedì il presidente Yoon Suk-yeol Yoon ha dichiarato: “Dobbiamo ristabilire uno stato di diritto tra lavoratori e dirigenti“.

Yoon, che ha criticato lo sciopero per aver preso in “ostaggio” la logistica del Paese a fronte di una crisi economica, terrà una riunione di gabinetto martedì per prendere in considerazione un “ordine di ripresa del lavoro” per obbligare i camionisti a riprendere l’attività.

Una volta che il gabinetto deciderà sulla precettazione, “questa sarà eseguita senza indugio”, ha dichiarato il ministro dei Trasporti Won Hee-ryong.

Il sindacato dei camionisti ha criticato il governo per il rifiuto ad estendere il sistema di salario minimo per altri tre anni, invece di soddisfare le richieste sindacali di renderlo permanente e aumentarne l’importo, in modo da poter affrontare la riduzione di reddito causata dall’inflazione.

Traffico di container in calo

Il traffico di container nei porti è stato pari al 21% dei livelli normali alle 10.00 (0100 GMT) di lunedì contro il 49% di venerdì.

L’industria siderurgica, tra cui POSCO e Hyundai Steel, ha visto le spedizioni più che dimezzarsi (22.000 tonnellate), rispetto alla media abituale di 46.000 tonnellate.

Alcune stazioni di servizio potrebbero rimanere senza benzina e gasolio già questa settimana, soprattutto nelle grandi città, nonostante le forniture siano state assicurate fino a prima dello sciopero.

Questo perché circa il 70-80% dei camionisti delle principali raffinerie, come SK Innovation, SK Energy e S-Oil Corp, sono iscritti al sindacato in sciopero.

Dalla scorsa settimana, i lavori si sono fermati in più di 250 cantieri edili a causa della scarsità delle forniture di calcestruzzo, e si prevede che la maggior parte dei cantieri li esaurirà entro martedì.

L’industria del cemento ha stimato una perdita di produzione accumulata di circa 46,4 miliardi di won (35 milioni di dollari) entro sabato, con le spedizioni scese al 9% dei livelli abituali, ha dichiarato la Korea Cement Association.

“I proprietari di camion per il trasporto di cemento sfuso non sindacalizzati, che sono implicitamente solidali o temono reazioni violente del sindacato, stanno rinunciando al trasporto del cemento“.

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Il Fondo Monetario detta la linea, il governo Meloni esegue

La lettrice o il lettore in cerca di emozioni forti, che volesse però percorrere sentieri meno battuti rispetto ai classici della letteratura gotica o horror, può finalmente volgere lo sguardo in una nuova direzione.

Il Fondo Monetario Internazionale, già protagonista diverse volte su queste pagine, ha recentemente pubblicato un lavoro indirizzato ai paesi del G-20, dal rassicurante titolo “Rapporto su una crescita forte, sostenibile, bilanciata e inclusiva”. Il rapporto prende il via dalla constatazione che praticamente tutte le economie avanzate si trovano nel mezzo di un periodo particolarmente complicato e turbolento, tra crisi energetica, tensioni internazionali dovute alla guerra, inflazione galoppante e segni sempre più preoccupanti di una recessione che si preannuncia non breve. Il quadro tratteggiato è, naturalmente, molto fosco. L’esplosione dei prezzi dell’energia e, a cascata, degli alimenti (p. 6) è identificata come il motore primo della spirale inflattiva, in un contesto in cui “i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione” (p. 6). Le conseguenze sono facilmente immaginabili e hanno preso la forma di una “crisi del costo della vita” (p. 8, ma il concetto è ripetuto in più circostanze), su cui a più riprese ci siamo soffermati.

Non finisce qui, purtroppo, perché il Fondo Monetario riconosce che le avversità economiche di questi mesi avranno ripercussioni e conseguenze permanenti, in barba alle centinaia di migliaia di pagine con cui la teoria economica dominante ha provato, per decenni, a convincerci che il mercato avrebbe, se lasciato funzionare liberamente, riassorbito ogni scostamento di breve periodo da un sentiero di crescita ottimale e di piena occupazione. Tutte stupidaggini, vediamo riconosciuto finalmente anche da una delle più autorevoli istituzioni internazionali (sezione B.10 a p. 10) che una crisi che riduce i livelli di attività economica e fa aumentare la disoccupazione – come è successo tra pandemia e conseguenze della guerra negli ultimi tre anni – causerà una perdita permanente di produzione e reddito, da cui le economie coinvolte non si riprenderanno da sé.

Come se quanto appena menzionato non fosse sufficiente, il Fondo Monetario procede a una serie di raccomandazioni sul da farsi, un’autentica galleria degli orrori che condensa in poche pagine un distillato di austerità e odio di classe in purezza, mettendo un punto definitivo all’ipocrisia in cui le comunicazioni di questa ed altre istituzioni internazionali erano state avvolte nei mesi più caldi della pandemia.

È vero, si può leggere nel rapporto, che i salari non hanno tenuto il passo dell’inflazione, e che quindi il potere d’acquisto della stragrande maggioranza delle famiglie si è eroso negli ultimi mesi. Ma non è ancora sufficiente, ci dice l’FMI (p. 7). Per colpa di mercati del lavoro troppo “rigidi” i salari non sono crollati a sufficienza e la disoccupazione non è aumentata in misura sufficiente a porre un freno all’inflazione.

Ecco, quindi, che l’agenda è facilmente delineata: nonostante le ragioni dell’accelerazione nella dinamica dei prezzi siano ascrivibili in prima battuta ad un aumento del prezzo delle materie prime e alle tensioni internazionali nelle forniture di energia, il costo di raffreddare l’inflazione va fatto pagare tutto a lavoratrici e lavoratori, convincendoli a colpi di recessione e disoccupazione ad accettare tagli ulteriori ai propri salari. È tutto scritto nero su bianco, è la sostanza cui allude vagamente e con discrezione il Fondo Monetario quando parla delle necessarie “politiche dolorose” che i Paesi del G-20 devono applicare. In una non singolare concordanza con la recente dichiarazione di guerra della BCE, leggiamo quindi nel rapporto che la politica monetaria deve provvedere ad ulteriori aumenti dei tassi di interesse, che ricadranno sulle spalle di chi prende a prestito o chiede un mutuo in banca e che comporteranno un aggravio anche per le finanze pubbliche, con tassi più alti per i governi da pagare sul debito pubblico.

Il rapporto, però, non si ferma qui e delinea un caso di scuola su come creare un problema e poi, dopo averlo presentato come fenomeno naturale, usarlo per un ulteriore giro di vite. Per evitare che gli effetti recessivi delle politiche monetarie restrittive (gli aumenti dei tassi) siano vanificati – ecco il problema creato deliberatamente – è necessario che anche la politica fiscale si comporti di conseguenza (p. 14). Tradotto in parole povere, è il momento di procedere a tagli della spesa pubblica e ripristinare l’austerità a pieno regime, affinché la disoccupazione possa colpire con una violenza sufficiente a disciplinare il mondo del lavoro e convincerlo ad accettare la miseria come situazione di nuova normalità (è scritto esplicitamente a p. 14, per quanto assurdo possa sembrare). In maniera non sorprendente l’Italia è, da questo punto di vista, oggetto di attenzioni particolari e ci vengono richieste “riduzioni del deficit maggiori di quelle previste” (p. 16), a causa degli elevati livelli di debito pubblico che caratterizzano il nostro Paese e che rappresentano il grimaldello attraverso cui pretendere altri tagli a pensioni, sanità, istruzione e via fino a quando anche l’ultimo brandello di sistema di protezione sociale pubblico sarà in ginocchio. Anche questo si inserisce nella serie “creare un problema e chiedere sacrifici per risolverlo”. Già, perché il rialzo dei tassi operato dalla BCE rende ovviamente più oneroso il servizio del debito: tassi d’interesse più alti comportano infatti ovviamente che l’emissione di nuovo debito pubblico sia a tassi maggiori, con un esborso finale in spesa per interessi maggiore (tendenzialmente verso le banche che detengono la maggior parte del debito pubblico).

Ovviamente anche il Fondo Monetario è consapevole che le fasce più fragili della popolazione soffrono in maniera sproporzionata gli effetti della crisi e che le misure di austerità che richiede peggioreranno la situazione. Il rapporto però è chiaro anche su questo: il supporto a chi soffre di più deve essere finanziato tagliando risorse da altre parti (p. 3), in ossequio al mito della scarsità delle risorse. Queste misure, volte ad evitare che milioni di persone soffrano letteralmente la fame, devono però essere assolutamente “temporanee”. Soprattutto, e qui il testo assume sfumature da romanzo ottocentesco di Charles Dickens, non devono essere troppo generose e devono comunque contribuire a “incoraggiare la riduzione nel consumo di energia da parte degli utenti finali” (p. 16), per fare fronte all’inflazione e ai problemi di fornitura di energia.

Per concludere, non poteva mancare un forte incoraggiamento a portare a termine le cosiddette “riforme strutturali”, per contribuire a “rafforzare la fiducia e stimolare gli investimenti” (p. 19), cioè per assicurare che i profitti continuino ad affluire copiosi nelle tasche di pochi privilegiati. I temi sono i soliti: riduzione del ruolo delle imprese pubbliche nell’economia, aumento della precarietà e riduzione delle tutele nel mercato del lavoro e poi, con un occhio speciale all’Italia, riduzione del cuneo fiscale e riforma della tassazione, in direzione verosimilmente regressiva e orientata a un aumento delle imposte indirette. Tutto questo mentre i riferimenti alla tassazione internazionale delle multinazionali del digitale diventano sempre più vaghi e differiti nel tempo.

La ricetta che il nemico di classe propone è semplice e banale: combattere l’inflazione spezzando le reni a lavoratori e pensionati, difendendo a tutti i costi i profitti. Cosa che il governo di destra della Meloni sta già applicando senza problemi con la legge di bilancio.

Il rapporto del FMI però un grande pregio lo contiene: ci suggerisce in modo chiaro e senza fronzoli la retta via. Rivoltando le prescrizioni di 180 gradi, infatti, ne esce fuori un vero vademecum esauriente di quello che oggi è giusto fare per riscattare le condizioni delle classi subalterne e uscire dalla crisi risolvendo precarietà, disoccupazione e povertà.

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