La miniserie televisiva su sequestro e uccisione di Moro trasmessa dalla Rai e disponibile su Raiplay si presenta con una certa monumentalità: 330 minuti, lontana dalle dimensioni del documentario la Notte della Repubblica di Zavoli, ma comunque prodotto videonarrativo quantitativamente più corposo dedicato a quella vicenda.
Come molti prodotti che assumono dimensioni monumentali l’attesa che genera è quella di un’opera che potrebbe dire qualcosa di nuovo e definitivo sulla storia narrata, una delle più controverse della storia della Repubblica. L’effetto è quello di una miniserie che non sposta niente delle posizioni storiografiche consolidate – istituzionali e non – che ha una sua forza estetica, della quale è giusto parlare, e che si risolve in un disordine narrativo finendo per disgregare dall’interno la monumentalità con la quale l’opera si presenta.
Fa bene qui ricordare gli ultimi minuti della serie: si riporta, con fotogrammi da documentario, che il funerale di Moro, nel maggio 1978, si svolse in forma privata e che il funerale di Stato, per onorare lo statista democristiano, si svolse senza il feretro di Moro, senza i suoi familiari e nel pieno della sconfessione, da parte della famiglia del presidente ucciso, del comportamento tenuto dalle istituzioni durante i 55 giorni di prigionia dell’esponente democristiano.
Questo fatto, certo non secondario, è stato sepolto nei decenni, cominciando dalle riprese tv dei funerali di Stato arrivando a costruire cattedrali fatte di articoli di giornali, testi storiografici, memorie giudiziarie utili in questa opera di seppellimento – tentando di occultare la realtà del compimento di una distanza incolmabile tra il martire e lo Stato. Quello di cui, invece, le istituzioni – scosse da una sequestro che per certi versi le fece oscillare come se si trattasse di un 8 settembre – avevano bisogno era la rappresentazione della piena sintonia nel dolore e nel martirio tra il presidente della DC, il governo e i due principali partiti dell’epoca. Se la realtà di questa sintonia non c’era allora doveva essere creata e, per questo, media, narrazione e storiografia ufficiale da decenni continuano a lavorare.
La serie di Bellocchio sembra proprio un’occasione perduta perché non è riuscita a dare coerenza e potenza narrativa alla necessaria demolizione di quella altissima coltre istituzionale e paraistituzionale fatta di mezze verità, depistaggi, complottismi e fantasie costruite sul caso Moro con l’effetto di legittimare delle istituzioni che avevano compiuto disastri e che, grazie a quella legittimazione, ne fecero di nuovi preparando le condizioni per la società che stiamo vivendo.
Secondo Bellocchio tutto si delinea nella narrazione del percorso di introspezione del papa, di Francesco Cossiga e Andreotti. La compartecipazione istituzionale della condanna a morte di Moro si spiegherebbe così nell’incrocio tra questi percorsi. Incrocio che, secondo Le Monde, è shakesperiano ma in realtà neanche fa capire in che modo, descrivendo gli incontri tra i personaggi, la condanna arriva da parte delle istituzioni e dei due principali partiti dell’epoca. Il ruolo ancillare del PCI in tutta la vicenda, specie nel percorso politico della “fermezza”, per quanto sia sostanzialmente vero è poi rappresentato in modo generico non solo nella ricostruzione dei personaggi ma anche nel contesto politico e diplomatico. Invece, lavorare sul fatto che tra due beati e santi della Repubblica, Berlinguer e Moro, il primo ha serie responsabilità politiche sulla morte del secondo avrebbe avuto potenzialità narrative, e di ricostruzione storica, enormi. E se Cossiga, come ricorda Bellocchio, è diventato presidente della repubblica grazie anche al ruolo assunto nella vicenda Moro va anche ricordato che Giorgio Napolitano, personaggio luciferino durante i 55 giorni del rapimento, non ha fatto un percorso diverso. Ma, va detto, di carriere grandi e piccole sulla vicenda Moro se ne sono costruite tante e molte cose sono state occultate in modo così pesante da rendere spesso il falso come l’unica verità accettabile.
Insomma, chi ha meno di 40 anni, e conosce in modo generico la vicenda Moro dalla serie tv finirà per capirci poco e chi ne ha di più finirà per consolidare le proprie certezze qualunque esse siano. Responsabilità di una struttura narrativa disorganica, ci sono personaggi importanti che appaiono e scompaiono (uno su tutti l’esperto americano di rapimenti), e frasi e riferimenti buttati lì (il confronto tra il “movimento” e le BR per evitare la condanna capitale di Moro). E poi va anche detto, nonostante Bellocchio provenga dalla sinistra extraparlamentare cade nel solito errore di rappresentare il linguaggio BR, e comunque quello usato a sinistra del PCI, in modo rigido e schematico. Malattia tipica del cinema italiano ma cosa grave per un autore che nel 1972 ha girato Sbatti il mostro in prima pagina, dove tra l’altro compare un giovane e fascistissimo La Russa, nel quale si distruggono i pregiudizi del mainstream giornalistico nei confronti dell’allora sinistra rivoluzionaria.
Nonostante questo, e i personaggi principali, a parte Moro, pessimamente truccati ci sono elementi per i quali la serie di Bellocchio merita la visione completa: la rappresentazione degli interni, ma anche degli esterni, degli anni ‘70 è curata e crea un profondo effetto immersivo. La citazione dei radiotelefoni è uno degli interessanti espedienti narrativi per paragonare ieri e oggi, l’emergere di Bruno Vespa rimanda, in modo plastico, alle continuità rimaste tra il nostro mondo e quello di allora. E, a causa del linguaggio di YouTube e TikTok, la scena delle BR che cantano l’Internazionale al processo di Torino di quel periodo si candida a essere ritagliata per i post di chi, su quel periodo, ha simpatie per i rapitori.
La vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro ha rappresentato, per anni, una tappa obbligata per spiegare le trasformazioni della politica italiana, quelle che hanno contribuito a creare la società di oggi, e anche un anno limite, il 1978, per definire il decennio rosso che ha attraversato il nostro paese. Oggi, con il naturale corso degli anni, quel periodo può essere rappresentato, in modo molto profondo, grazie al corso storico delle mutazioni sociali, comunicative, economiche e tecnologiche che sono intervenute in questo lasso di tempo. Insomma, il caso Moro è passato dall’essere una tappa obbligata a essere una linea Maginot, una fortificazione ben presidiata dai detentori di una legittimità istituzionale che si vuole calorosa e quasi magica, che può essere benissimo aggirata con gli strumenti della ricostruzione storiografica odierna. Per questo Bellocchio più che condannato, con una qualche recensione genere irrimediabile affossamento, va, per usare un linguaggio BR, disarticolato per riportare gli elementi di interesse del suo lavoro in un nuovo linguaggio, in una nuova visione della lettura storica. Il canovaccio narrativo del martire, del martirio psicologico dei personaggi non serviva neanche allora per spiegare la complessità di quello che stava accadendo in Italia, figuriamoci oggi.
Restano da spendere due parole più politiche. Quello delle BR è stato un tentativo, tragicamente fallimentare, di applicare, assieme, tre modelli di insurrezione: quello mutuato dalla resistenza partigiana, quello guevarista (i clandestini che si moltiplicano fino a diventare esercito di popolo) quello più mitologico del rapimento del tiranno per la salvezza e il risveglio del popolo. Se si vogliono usare i materiali come quello di Bellocchio in senso più teorico politico allora questi servono per una rilettura del percorso di due mondi che, con la vicenda Moro, andarono poi velocemente declinando: quello dei partiti di massa e quello dell’insurrezione di popolo. È con altro genere di rappresentazioni che si può entrare in questo ordine di problemi.
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