di Guglielmo Forges Davanzati
Il Governo ha terminato il lavoro di preparazione e stesura della sua prima Legge di Stabilità ed è ora possibile commentare il risultato raggiunto. La professoressa Chiara Saraceno, una delle massime esperte in Italia di politiche pubbliche per il contrasto alla povertà, nonché coordinatrice del comitato scientifico di studio del reddito di cittadinanza per il Ministero del Lavoro, la ha definita “una manovra confusa tecnicamente”, espressione della “aporafobia” della Destra, ovvero della paura e del disprezzo per i poveri.
L’agenda del Governo ha solo due interventi nuovi, per il resto è una prosecuzione della cosiddetta “agenda Draghi”: la revisione del reddito di cittadinanza e l’autonomia differenziata.
Peraltro, la legge di stabilità del governo Meloni è quella, nella storia recente italiana, consegnata più tardi al Parlamento e, dunque, con minore tempo per la sua discussione (le leggi di stabilità devono essere approvate entro il 31 dicembre di ogni anno).
La revisione del reddito di cittadinanza comporta un risparmio irrisorio: solo 1,6 miliardi su un totale di oltre mille miliardi di spesa pubblica nel bilancio dello Stato italiano. È pochissimo, se solo si considera il tempo e le energie spese per persuadere gli elettori della necessità dell’attacco ai cosiddetti “divanisti” e l’impatto divisivo della linea politica assunta.
Chi conosce i dati e la realtà di molti piccoli paesini del Mezzogiorno, peraltro, sa che quasi tutti i veri poveri “il divano” non lo hanno, perché il divano sta nei salotti buoni.
Di nuovo e rilevante nell’agenda del Governo Meloni c’è anche la “bozza Calderoli”, che accelera il disegno dell’autonomia differenziata.
Si tratta della proposta di realizzare il regionalismo anche in assenza di un provvedimento sui livelli essenziali delle prestazioni (LeP), ovvero di determinazione – a Roma – di indicatori che garantiscano uniformità di trattamento per i servizi fondamentali dello Stato centrale su tutto il territorio nazionale (sanità, trasporti etc.).
È abbastanza incredibile che il Paese sia bloccato da anni sulla costruzione dei LeP, la cui realizzazione era prevista, con urgenza, fin dalla legge di stabilità del lontano 2013.
È da notare che la costruzione di questi indicatori, che viene considerata “oggettiva”, è intrinsecamente arbitraria, avvalorando il motto per il quale “si usa la statistica come l’ubriaco utilizza il lampione stradale: per appoggiarsi, non per essere illuminati”.
Va precisato che la questione, prima ancora di essere di ordine giuridico, è di massima rilevanza economica e riguarda anche gli interessi e i profitti delle imprese del Nord. Si può dimostrare, infatti, che il Nord perde economicamente dal regionalismo, che cioè non conviene e che viene fatto solo per ragioni identitarie e per miopia.
Ci si riferisce a una questione molto tecnica e tuttavia dirimente, che riguarda il calcolo dei moltiplicatori fiscali cumulati interregionali: l’effetto sul Pil della macroregione meridionale derivante da un euro di spesa al Nord e viceversa.
Le ultime stime di Banca d’Italia e quelle realizzate da alcuni Dipartimenti universitari in tempi recenti indicano elevati effetti moltiplicativi a dieci anni della spesa pubblica nel Mezzogiorno.
Questo significa che il Mezzogiorno continua a essere un’area importante per lo sbocco delle merci prodotte a nord di Roma. Il miracolo economico italiano degli anni Sessanta si è retto su questa dinamica.
Da allora è cambiata solo la circostanza che il Mezzogiorno si è molto impoverito e, dunque, anche per effetto della “globalizzazione”, i meridionali acquistano meno merci dal Nord. Ma ne acquistano così tante che alla gran parte degli imprenditori del Nord continua a convenire vendere beni ai meridionali e continua a essere conveniente che lo Stato centrale spenda nel Sud del Paese.
È una manovra di complessivi 32 miliardi di euro – non molto – fortemente sbilanciata sui trasferimenti monetari alle famiglie, in termini di erogazione di bonus per le bollette e di pensioni.
Manca del tutto un intervento per irrobustire il nostro settore industriale, di per sé molto fragile, soprattutto al Sud, e anche provato dalla crisi sanitaria. Si continuano a finanziare le imprese, concedendo ulteriori agevolazioni fiscali che si sommano ai 20 miliardi annui che lo Stato italiano dà al settore privato: molto spesso senza risultati produttivi e senza alcun controllo sulla loro destinazione e sul loro utilizzo.
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