Christine Lagarde, presidente della
Banca centrale europea (BCE), ossia l’istituzione continentale responsabile
della politica monetaria dell’area euro, ha recentemente rilasciato una
dichiarazione che potrebbe apparire paradossale. Le sue parole sono
state: “Potrebbe accadere, anche se non è ancora nel nostro
scenario base, che tra la fine del 2022 e l’inizio del 2023 ci sia una
leggera recessione, ma non crediamo che sarebbe sufficiente a domare
l’inflazione e quindi non possiamo semplicemente lasciare che le cose si
sistemino da sole. Dobbiamo trovare il tasso di interesse che
ci aiuti a raggiungere il nostro target e lo faremo, usando tutti gli
strumenti disponibili nella nostra cassetta degli attrezzi e abbiamo dimostrato di poter essere creativi”.
Sono dichiarazioni che potrebbero
sembrare frutto di un errore di traduzione: il capo della BCE che sembra
augurarsi una recessione più profonda di quella già attualmente
prevista? Non sono sufficienti i licenziamenti e l’aumento del ricorso
alla cassa integrazione a causa dei costi energetici e le bollette
impazzite che distruggono il potere d’acquisto delle famiglie? La caduta verticale dei salari reali di questi ultimi due anni non è sufficiente? Per i lavoratori la recessione è arrivata da un pezzo.
Eppure, non c’è niente di strano o di
sorprendente. La dichiarazione di Lagarde è perfettamente coerente, da
un lato, con i compiti che sono assegnati alla BCE dai trattati europei,
dall’altro, con la teoria economica che informa le scelte della BCE e
delle altre istituzioni dell’Unione e impregna i trattati europei. In
altre parole, Lagarde ci sta apertamente dicendo che la BCE è determinata a causare la pesante recessione ritenuta necessaria, utilizzando i cosiddetti canali di trasmissione della politica monetaria.
Ma proviamo ad andare nel dettaglio.
Per capire quanto detto da Lagarde, occorre in primo luogo analizzare
questi “canali di trasmissione”. La Banca centrale, attraverso gli
strumenti di politica monetaria che ha a disposizione, può influire sui
tassi di interesse. Questi, a loro volta, hanno effetti su consumi e
investimenti. Tassi di interesse più elevati tendono a scoraggiare chi
prende in prestito denaro, sia a scopo di consumo sia a scopo di
investimento. Ciò avviene perché il tasso di interesse costituisce il
prezzo che chi prende denaro in prestito deve pagare al prestatore. Se i
tassi di interesse aumentano, prendere in prestito denaro diventa più
costoso. Ciò comporta che consumi e investimenti, almeno in parte,
tenderanno a essere rinviati, nella speranza di condizioni creditizie
più favorevoli.
Di conseguenza, quando una banca
centrale aumenta i tassi d’interesse, influenza negativamente la domanda
aggregata. Ed è qui che entra in gioco la “recessione insufficiente a
domare l’inflazione”. La teoria economica che soggiace all’architettura
istituzionale della BCE e, più in generale, dell’Unione Europea, si basa
sull’ipotesi che ciascun Paese, in virtù delle sue caratteristiche
intrinseche – funzionamento del mercato del lavoro, concorrenza sul
mercato dei beni – sarà caratterizzato da un particolare tasso di
disoccupazione, il cosiddetto Non Accelerating Inflation Rate of Unemployment (NAIRU), ossia quel tasso di disoccupazione che nelle favole mainstream garantisce l’assenza di spinte inflazionistiche,
ovvero di pressioni all’aumento dei prezzi. Se il tasso di
disoccupazione effettivo scende al di sotto di tale livello, ci sarà un
aumento dell'inflazione. Al contrario, un tasso di
disoccupazione più elevato farà ridurre l’inflazione.
Per queste ragioni, una banca centrale
interessata a ridurre l’inflazione dovrà aumentare i tassi di
interesse, generando una riduzione della domanda aggregata,
dell’attività economica e dell’occupazione. In questo modo potrà tenere
sotto controllo i prezzi, tramite l’azione disciplinante svolta dalla
disoccupazione nei confronti dei lavoratori e dei sindacati.
Attenzione però, questo approccio non è
dettato da una necessità tecnica, bensì è il frutto dei rapporti di
forza contingenti e della specifica teoria economica ad essi legata, che
è strutturata proprio per tutelare i profitti e scaricare il costo
dell’inflazione esclusivamente sui lavoratori, nascondendo al contempo
la battaglia distributiva che si cela dietro queste scelte. Ne è riprova
il fatto che esistono misure molto più efficienti al fine di
contenere l’inflazione, come il controllo pubblico dei prezzi.
L’obiettivo della BCE in termini
d’inflazione è pari al 2%, sulla base dei trattati istitutivi dell’UE.
Considerando che attualmente il tasso di inflazione nella zona euro si
aggira intorno al 10%, ecco che si spiega in maniera lampante il
significato dell’apparente boutade di Lagarde: la recessione prevista
non è sufficiente a mazzolare i lavoratori riducendoli a miti consigli.
Occorrerà una recessione più profonda e, pur di ottenerla, la BCE, per
bocca di Lagarde, è più che disposta a ricorrere a tutti gli strumenti a
sua disposizione, inclusi quelli più “creativi”.
E non stentiamo a crederle, ripensando
a ciò che fu in grado di fare la BCE in Grecia in seguito alla crisi
dei debiti sovrani, innescando prima una crisi del debito pubblico – con
tassi alle stelle per lo Stato, trasmessi al settore privato – e poi
arrivando persino a chiudere il rubinetto della liquidità (ELA). Questo
provocò inevitabilmente la limitazione dei prelievi dai Bancomat,
contribuendo a terrorizzare i greci in vista del referendum sul
memorandum. Tutto questo per ricordarci che le minacce di “creatività” della BCE devono essere prese estremamente sul serio.
La dichiarazione di Lagarde appare
come una doppia dichiarazione di guerra ai lavoratori. Questi ultimi
vedono già il loro potere d’acquisto eroso da un’inflazione dovuta a
cause sostanzialmente estranee al funzionamento del mercato del lavoro.
Non sono infatti i salari e la domanda i fattori alla base
dell’inflazione, poiché l’aumento vertiginoso dei prezzi è dovuto da un
lato agli shock nel mercato dell’energia e delle materie prime,
aggravati dalla guerra tra Russia e Ucraina, dall’altro alla
speculazione che ne è scaturita, con grandi aziende che hanno
approfittato del conflitto per incrementare i propri margini di
profitto, come riconosciuto persino dal Financial Times.
Per giunta, sui lavoratori si
abbatterà l’ulteriore scure della recessione indotta per perseguire il
target della BCE. Occorre evidenziare che questa ricostruzione non è
figlia del complottismo di veterocomunisti e pericolosi rivoluzionari. A
dirsi preoccupato è anche l’economista David Card, insignito del Nobel
per l’economia nel 2021. Un economista perfettamente inserito nel
mainstream, al di sopra di ogni sospetto di essere un trinariciuto
anticapitalista. In una recente intervista,
ha dichiarato che recessione e perdita del potere d’acquisto sono gli
unici strumenti attraverso i quali le banche centrali possono portare
l’inflazione sotto controllo.
Come abbiamo detto in altre occasioni,
l’architettura istituzionale e finanziaria dell’UE e della zona euro
non è casuale. Obiettivo di una Banca centrale così attenta
all’inflazione e così poco interessata all’occupazione, così come dei
bilanci pubblici “in ordine” (si legga: ispirati alla più cieca
austerità), è uno solo: tenere i lavoratori sotto il ricatto della
disoccupazione, in modo tale da renderli più malleabili nella
contrattazione dei salari e delle condizioni di lavoro. Davanti a questi
continui attacchi istituzionalizzati alle condizioni di vita dei
lavoratori, è utile saper riconoscere le azioni concrete che si
nascondono dietro dichiarazioni più o meno oscure e le conseguenze di
tali azioni sulle nostre vite quotidiane.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento