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28/11/2022

La Bce viola il Trattato di Maastricht

Il “pilota automatico” si sta rivelando una iattura sia per l’economia europea sia per la stabilità finanziaria degli Stati, alle prese con le conseguenze di due anni di pandemia e quasi uno di guerra. In cui sono esplose le richieste di “ristori” per le imprese oltre che di sussidi per varie fasce di popolazione altrimenti alla fame.

La Bce, come tutte le altre istituzioni sovranazionali continentali, continuano a recitare la parte degli “austeri” e minacciano continuamente i singoli Stati “con alto debito pubblico” (l’Italia, in primo luogo) perché riprendano il cammino della riduzione del debito tramite tagli alla spesa sociale.

Ma sotto la retorica dei “falchi” si va facendo strada la dura necessità oggettiva, ovvero le dinamiche della crisi sistemica, che impongono scelte diverse, risposte ad hoc, variazioni di atteggiamento. Insomma che richiedono una politica (variabile, per definizione, e soprattutto risposte concrete a problemi imprevisti e imprevedibili).

Un primo “dirazzamento” venne proprio da uno dei più convinti cantori delle virtù del “pilota automatico”, Mario Draghi.

Il suo famoso whatever it takes del 2012 era stato giustamente interpretato dai “mercati” come un “stamperemo moneta in quantità illimitata pur di impedire che la speculazione sull’euro possa far fallire alcuni Stati dell’eurozona e con essi l’Unione Europea”.

Pochi allora – tranne i soliti borbottoni orange e teutonici, che però non tirarono troppo la corda per non provocare il disastro collettivo – fecero notare che questa “virata” nella politica monetaria era esattamente l’opposto di quanto previsto dal trattato istitutivo della stessa Bce.

Perché, detta in estrema sintesi, trasformava Francoforte in prestatore di ultima istanza degli Stati dell’eurozona. Ossia proprio quello che si era voluto eliminare fin dagli anni ‘80, attribuendo al “pubblico” tutte le colpe per il mancato funzionamento del sistema economico, l’aumento del debito pubblico, ecc.

Ciò non impedì a quello stesso Mario Draghi di affamare ferocemente la Grecia, nel 2015, in nome delle “regole”, per obbligarla ad accettare il “memorandum” della Troika, fino a bloccare i bancomat ellenici facendo mancare la liquidità necessaria. Ci sono regole che valgono e altre no, pare. O meglio: regole che valgono per chi è più debole, perché sono solo la volontà del più forte.

Passata la stagione del quantitative easing ci si preparava già al “ritorno alla normalità”, ossia all’austerità prevista dal “patto di stabilità” che impone la riduzione del debito pubblico (anche del 5% annuo) fino a riportarlo al 60% del Pil (per l’Italia è oltre il 150%, figurarsi se è un obiettivo realistico...).

Ma due anni di pandemia e quasi uno di guerra hanno “accollato” agli Stati una serie di richieste (“ristori”, sussidi, spesa sanitaria, investimenti, ecc.) che hanno ovviamente agito in senso contrario. E l’inflazione, infine, è arrivata a devastare il piatto panorama di tassi di interesse da anni a zero o negativi.

Ma anche in questo caso la nuova, presunta, padrona della politica monetaria europea, Christine Lagarde, ha evitato di seguire l’esempio del “collega” Powell, presidente della Federal Reserve, che ha sparato una raffica di aumenti dei tassi come se non sapesse che la causa di questa inflazione non è da “eccesso di domanda”.

Appoggiandoci sul sempre acuto Guido Salerno Aletta – che da ex vicedirettore di Palazzo Chigi molto sa sul “ruolo dello Stato in economia” – apprendiamo che questa scelta di Lagarde “viola il trattato di Maastricht”. Quel che è assolutamente vietato per qualsiasi Stato della UE, insomma, è prassi liberamente attuabile per la Bce, in “stato di necessità”.

È la prova che il “pilota automatico” era ed è soltanto uno strumento falsamente “scientifico”, in realtà brutalmente politico, per esautorare la “politica” (in realtà: la volontà popolare) sulle politiche di bilancio.

Ora ci ritroviamo nella situazione in cui le scelte che dovrebbero essere assunte in base a una valutazione politica sono invece in mano ad istituzione sedicenti “tecniche”. Le quali, navigando a vista in mari tempestosi, sono obbligate a smentire – violandole – quelle stesse “regole” che prescrivono come “scientifiche” o “neutre”. Per gli altri ovviamente.


Buona lettura.

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Così la Bce ha violato il Trattato di Maastricht e ha affossato l’euro

Guido Salerno Aletta – MilanoFinanza

Mille e una ragione militano a favore della straordinaria prudenza con cui la Bce sta affrontando la fiammata inflazionistica iniziata nel 2021, ben prima del 24 febbraio di quest’anno, quando ha avuto inizio l’operazione militare speciale con cui la Russia ha invaso l’Ucraina.

Solo a luglio di quest’anno, in coincidenza con il quarto aumento deciso dalla Federal Reserve, la Bce ha aumentato i tassi che erano fermi allo 0% dal marzo del 2016, portandoli allo 0,5%. Li ha alzati ancora dello 0,75% sia a settembre che a inizio novembre, arrivando così al 2%. La metà esatta rispetto al 4% della Fed.

In termini di riduzione della liquidità, già il 1° giugno scorso la Fed decise di procedere alla vendita di titoli in portafoglio, arrivati a oltre 9.000 miliardi di dollari: alle prime tre cessioni mensili da 47,5 miliardi ciascuna, di cui titoli del Tesoro per 30 miliardi e Mbs garantite dalle Agenzie federali per 17,5 miliardi, le successive aste sarebbero salite 95 miliardi di dollari, e rispettivamente a 60 e a 35 miliardi.

La Bce ha giocato di rincalzo, senza inseguire la Federal Reserve: lasciando aprire il differenziale dei tassi ha lasciato che i capitali investiti in euro si spostassero sugli impieghi in dollari, resi più convenienti.

Ha indirettamente provocato un forte scivolamento dell’euro, che si è svalutato del 20% sul dollaro, determinando un corrispondente aumento dei prezzi delle importazioni che sono prevalentemente quotate e pagate nella valuta statunitense.

Così facendo, la Bce ha conseguito due risultati: sul piano della liquidità, ha spalancato la strada all’uscita dei capitali eccedenti le necessità della economia reale; sul piano della compressione della domanda aggregata, la misura ritenuta comunque necessaria per ridurre l’inflazione, l’aumento del costo delle importazioni, magnificato dalla svalutazione dell’euro, ha avuto un impatto più ampio e generalizzato rispetto a quello che si sarebbe ottenuto aumentando maggiormente i soli tassi di interesse.

Vero è che la complessiva ricomposizione dei portafogli dei non residenti non ha affatto penalizzato l’Italia, infatti, tra il secondo trimestre del 2021 e il secondo trimestre di quest’anno le detenzioni straniere di titoli di Stato a medio e lungo termine sono diminuite di ben 171 miliardi di euro, scendendo da 703 a 532 miliardi, ma sono state più che ampiamente compensate dall’aumento degli impieghi in titoli a breve e da prestiti.

Nello stesso periodo, le attività in Italia dei non residenti sono infatti cresciute di ben 81 miliardi di euro, passando da 3.129 a 3.210 miliardi di euro. Di converso, sono aumentate ancora di più, per 110 miliardi di euro, le passività del resto mondo nei confronti dell’Italia, passando da 3.192 a 3.302 miliardi di euro.

Anche di recente, la tradizionale prudenza delle famiglie italiane non è venuta meno: nel secondo trimestre di quest’anno hanno acquistato attività finanziarie per 31 miliardi di euro, aumentando le passività di soli 25,4 miliardi, di cui 8,2 miliardi per prestiti bancari.

Le società non finanziarie italiane hanno acquistato attività finanziarie per 22,7 miliardi, di cui 11,7 miliardi per aumento di depositi bancari, mentre le loro passività sono cresciute di 28,6 miliardi, di cui 16,8 miliardi per prestiti bancari.

Un più vigoroso aumento dei tassi di interesse avrebbe influito negativamente sulle dinamiche delle famiglie e delle imprese italiane, alle prese con dinamiche complesse e imprevedibili.

C’è un motivo di fondo che ispira la particolare cautela della Bce: l’esperienza drammatica della exit strategy che fu decisa nei primi mesi del 2011, ritenendo che l’aumento dei tassi di interesse fosse giustificato dalla ripresa dell’inflazione dopo la recessione determinata dalla grande crisi finanziaria americana.

Scoppiarono invece, e tutte insieme, le contraddizioni sistemiche e gli squilibri strutturali che l’euro aveva coperto per un intero decennio: i default in Irlanda, Grecia e Spagna, segnarono l’inizio di una lunghissima stagione di politica monetaria eccezionalmente accomodante, vieppiù accentuata durante il biennio 2020-2021 di crisi sanitaria.

I debiti pubblici si sono ingigantiti, e solo gli acquisti massicci da parte delle banche centrali di ciascun Paese, nell’ambito dei Qe e dei Pepp, hanno consentito di assorbirne completamente le emissioni nette e di ridurne drasticamente l’onere per interessi.

Alla decisione di concludere queste operazioni di acquisti netti si è accompagnata quella di continuare a mantenere stabile il livello della detenzioni di titoli pubblici.

Anche il solo annuncio di una riduzione dei titoli di Stato in portafoglio avrebbe scatenato, e scatenerebbe ancora, una incontenibile reazione sui mercati, mentre gli ombrelli del Mes e del programma Omt sarebbero inefficaci per via delle severe condizionalità da imporre agli Stati, incompatibili con una situazione economica e geopolitica così complessa e imprevedibile come l’attuale.

Anche la revisione del Fiscal Compact procede d’altronde con analoga prudenza.

Alla fine, la Bce ha dovuto fare esattamente ciò che sin dal Trattato di Maastricht fu vietato alle banche centrali: essere prestatrici di ultima istanza degli Stati.

E la debolezza dell’euro, la moneta unica che avrebbe dovuto sottrarci alla duplice tirannia del dollaro e del marco tedesco, viene ancora una volta strumentalizzata, lasciandola svalutare per non inseguire la decisioni restrittive della Fed, così come per vent’anni ha consentito alla Germania di accumulare enormi saldi commerciali con l’estero.

La Bce se n’è fatta finalmente una ragione: con l’euro, la prudenza non è mai troppa.

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