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17/11/2022

Il missile di Pandora

Quando si parla di eventi che comportano il rischio di una guerra nucleare bisogna essere assolutamente seri. E ragionare con molta freddezza.

Bisogna insomma sapere quali sono i fatti, illustrare “il contesto” in cui quei fatti avvengono e infine unire i puntini per provare ad azzardare una ipotesi di lettura. Che resta tale e va sottoposta ad ulteriori verifiche.

Il missile caduto in territorio polacco, uccidendo due persone in una fattoria, ha portato per alcune ore la guerra nucleare sul tavolo delle possibilità concrete, perché Varsavia è membro della Nato e poteva invocare l’articolo 5 del Trattato, che obbliga tutti i paesi dell’alleanza ad appoggiare anche militarmente il “paese aggredito”.

Inutile ricordare che Russia e Nato dispongono di arsenali nucleari in grado di cancellare più volte ogni traccia di umanità sul pianeta, e dunque ogni confronto militare tra loro può essere anche l’ultimo per tutti noi.

Partiamo perciò dai fatti.

Di chi è il missile caduto a Przewodow, a 10 chilometri dal confine ucraino?

Gli esperti occidentali di armamenti – ufficiali inglesi, statunitensi, tedeschi, ecc. – parlano di “detriti compatibili il sistema S300, utilizzato da entrambi gli schieramenti”.

Si tratta di una famiglia di sistemi missilistici antiaerei in produzione fin dal 1978, quando entrambi i paesi erano membri dell’Unione Sovietica, e dunque rimasti negli arsenali all’interno dei rispettivi confini.

Due osservazioni tecniche decisive. a) Essendo un missile antiaereo, non viene sparato contro obiettivi terrestri (la carica esplosiva trasportata è piuttosto piccola; sufficiente per abbattere un aereo o un altro missile, ma poco impattante contro edifici, ecc). b) La distanza tra il villaggio di Przewodow e le più vicine batterie russe è molto superiore alla gittata degli S300. Insomma, se anche i russi avessero deciso di tirarne uno non sarebbe mai arrivato a quella destinazione.

Dunque quel missile è stato sparato dalle forze armate ucraine.

Questa conclusione, dopo le prime ore in cui diversi leader mondiali (tra cui lo stesso Biden) avevano parlato di “missile russo”, è stata assunta come pacifica da tutti quelli che hanno ancora la testa sulle spalle. E, soprattutto, dispongono delle informazioni raccolte dai satelliti spia che monitorano ogni lancio e ogni volo sopra il teatro del conflitto.

Resta da capire se quel missile ucraino sia caduto in territorio polacco per un “incidente tecnico” (dopo aver mancato un bersaglio aereo russo, e senza fare troppe illazioni sul fatto che la traiettoria fosse diretta ad ovest invece che, come militarmente logico, ad est) oppure intenzionalmente.

Nel primo caso si tratterebbe di un errore facilmente scusabile e senza conseguenze politiche internazionali (a parte le ovvie scuse e i risarcimenti per le vittime innocenti). Nel secondo, invece, si aprirebbe un problema enorme sul prosieguo del conflitto in Ucraina e sulle sue conseguenze per tutto il mondo.

Stabilito “il fatto”, insomma, bisogna occuparsi ora del “contesto”.

In queste stesse ore in cui Biden, Scholz, Erdogan, Macron, ecc., dichiarano unanimemente come quanto meno “improbabile” che il missile sia russo, Volodymir Zelenskij, invece, parla ancora di “missili russi sulla Polonia”, un “attacco alla sicurezza collettiva“, un’”escalation significativa“.

Il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, nel solito messaggio twitter, sostiene che “La Russia ora promuove una teoria del complotto secondo cui sarebbe stato un missile della difesa aerea ucraina a cadere in territorio polacco. Questo non è vero. Nessuno dovrebbe seguire la propaganda russa o amplificarne i messaggi“.

Il consigliere presidenziale, Mykhailo Podolyak, li considera non “un incidente, ma un ‘ciao’ deliberatamente pianificato dalla Russia, mascherato da ‘errore’. Ciò accade quando il male rimane impunito e i politici si impegnano nella ‘pacificazione’ dell’aggressore“.

Ricordiamo che lo stesso Zelenskij, soltanto un mese fa, chiedeva “attacchi preventivi” della Nato contro la Russia.

Questo non solo non è avvenuto (e non poteva avvenire, a meno di non volere scatenare la guerra nucleare), ma ha preso forma la trattativa ufficiale tra Russia e Stati Uniti per arrivare intanto ad un cessate il fuoco, tramite i rispettivi capi dei servizi segreti inviati in Turchia per un primo incontro ufficiale e debitamente pubblicizzato.

Non basta. Il capo dello stato maggiore congiunto delle forze militari americane, il generale Mark Milley, ha parlato del ritiro russo da Kherson come una “finestra aperta per il dialogo”. E “Quando si crea un’opportunità di negoziare, quando è possibile conseguire la pace, l’opportunità va colta”.

Anche perché – e questo deve essere suonato come un tradimento inaccettabile negli ambienti ultranazionalisti ucraini – “una vittoria militare completa di una delle due parti appare sempre più improbabile”.

Le strade della guerra ad oltranza “fino alla vittoria” e quella della “pace possibile” da questo momento in poi divergono insomma nettamente. E si vede.

Mettiamo però a punto qualche altro “fatto” avvenuto in queste ultime ore, che può aiutare a delineare meglio “il contesto”.

Nelle stesse ore in cui il missile cadeva sulla Polonia, veniva interrotto il flusso di petrolio attraverso la pipeline Druzhba, che collega Russia, Ungheria e Slovacchia attraversando il territorio ucraino.

Kiev ha spiegato che l’interruzione era dovuta al blackout dopo un attacco russo a una centrale elettrica, ma evidentemente la scusa non è sembrata persuasiva a Viktor Orban, che ha convocato una riunione del Consiglio di Difesa.

E l’Ungheria, pur guidata da un governo orrendo quanto quello polacco, è pur sempre un membro della UE e della Nato, anche se dipende energeticamente in modo assoluto da Mosca.

In poche ore, insomma, due membri dell’alleanza sono stati messi di fronte ad un pericolo molto serio.

Potremmo fermarci qui e sarebbe già sufficiente.

Ma è necessario aprire gli occhi anche su “fatti” apparentemente minori (anzi: certamente minori, rispetto a quel che sta avvenendo sul campo internazionale) per capire quali sommovimenti siano in corso anche in casa nostra come conseguenza della guerra e dello sdoganamento nei nazisti ucraini come “combattenti per la libertà” (una formula sciaguratamente già usata per gli uomini di Osama Bin Laden fin quando combattevano contro l’esercito sovietico in Afghanistan).

L'indagine che in Campania ha portato ad alcuni arresti di neonazisti italiani ha individuato anche un addestratore militare ucraino legato al battaglione Azov (quelli che per alcuni gazzettieri mainstream si addormenterebbero “leggendo Kant”).

Rapporti che sarebbero stati pericolosi anche senza dover immaginare – come dalle intercettazione è venuto fuori – attentati da realizzare nel nostro paese. E facciamo notare come i due obiettivi di cui si parla nell’inchiesta (una caserma dei carabinieri “di paese” e un centro commerciale) siano “da manuale” per molte operazioni false flag (con depistaggio incorporato, insomma).

Conclusioni provvisorie.

Oltre alle vicende del campo di battaglia e di ordine “geopolitico”, bisogna tener conto di molti altri fattori.

Il “partito della guerra” ha non solo sdoganato i nazifascisti, ma li ha anche armati. Una quantità incalcolabile di armi è già sparita nelle catene logistiche ucraine, così come era avvenuto per la guerra della Nato contro l’ex Jugoslavia.

Armi e combattenti “esperti” che – anche a guerra eventualmente finita e conclusa con un realistico trattato di pace – saranno comunque in circolazione per tutta Europa. Trovando simpatizzanti a metà strada, come sempre, tra la coglionaggine e l’esaltazione suprematista. Ma in entrambi i casi molto pericolosi.

Chi ha aperto il vaso di Pandora – l’ottusità euro-atlantica – ha ora il problema di richiuderlo. Ma non sarà indolore né semplice.

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