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21/11/2022

Ucraina, dollari e yuan

di Guido Ortona

Guerra ed economia.

I commentatori italiani, e non solo, hanno perlopiù ignorato i dati macroeconomici di fondo che stanno alla base della guerra d’Ucraina. Eppure non dovrebbero essere trascurati, perché senza prenderli in considerazione non è possibile capire perché sia la Russia che gli USA abbiano preferito la guerra a un’intesa diplomatica. Come è (o dovrebbe essere) noto, la causa prossima della guerra è stata il patto americano-ucraino del novembre 2021 (il testo è facilmente reperibile su internet), che sanciva l’impegno USA ad aiutare l’Ucraina nella riconquista di Crimea e Donbass e il rapido ingresso dell’Ucraina nella NATO (patto a cui la Russia rispose con un documento inviato agli USA in dicembre, in cui si chiedeva la neutralità dell’Ucraina e la sua esclusione dalla NATO e che non venne preso in considerazione).

La Russia preferiva, e ha preferito, la guerra e l’intervento della NATO piuttosto che consentire che ciò avvenisse; e gli USA hanno preferito la guerra piuttosto che rinunciare a tale ingresso. Fin qui i fatti. Fare una guerra contro un nemico forte non è un’impresa da poco, occorre chiedersi perché entrambi i contendenti abbiano scelto di farla, o almeno di correre molto seriamente il rischio che scoppiasse.

Non ho elementi per valutare appieno le ragioni della Russia, per capire cioè se accettare la massiccia subordinazione dell’Ucraina da parte degli USA prevista dal trattato non potesse andare a vantaggio anche del popolo russo; e se avesse a disposizione alternative meno sanguinarie o strategie geopolitiche più collaborative per impedirlo. In questo articolo mi occuperò solo delle ragioni degli USA.

Economia e Stati Uniti.

Si pone quindi questa domanda: perché gli USA sono intervenuti così massicciamente nella guerra d’Ucraina, sia finanziariamente (a oggi, circa 54 miliardi di dollari, cui vanno aggiunti altri 29 miliardi forniti dai paesi satelliti: dati dell’Institute for the world Economy, Kiel) che politicamente? Escludiamo ovviamente che l’abbiano fatto per motivi ideali (ma su ciò tornerò: il fatto che sia così facile crederlo è importante). Negli USA le scelte politiche importanti non si fanno se chi comanda nel paese reale è contrario.

Quindi questa guerra conviene agli USA, intendendo con ciò il suo governo e chi lo controlla. Perché? Cominciamo dalla bilancia dei pagamenti. Nei primi sette mesi del 2022 gli USA hanno esportato beni e servizi per un valore di 1199 miliardi di dollari; e hanno importato beni e servizi per 1937 (più o meno il 10% del PIL), con un disavanzo di ben 738 miliardi.

In teoria uno stato manda la sua valuta all’estero in pagamento delle importazioni, e questa ritorna per pagare le esportazioni. Cosa se ne fanno i possessori di quei 738 miliardi, visto che non comprano esportazioni USA? Due cose. In primo luogo, li usano per comprare prodotti di altri paesi, dato che il dollaro ha valore ovunque; e comprano titoli, privati e pubblici, emessi dagli USA. Le statistiche ufficiali ci dicono che l’afflusso netto di capitali negli USA ha superato, nei primi sette mesi del 2022, i 900 miliardi di dollari. Inoltre, fra le esportazioni degli USA è rilevante il peso dei prodotti energetici (circa 120 miliardi) e delle armi (50 miliardi).

Questi 170 miliardi traggono notevoli vantaggi dalla guerra, per non parlare dei guadagni della cosiddetta (da Eisenhower) “lobby militare-industriale” (LMI). Per fare un esempio, un’azione della Lockheed-Martin (il principale produttore mondiale di armi) aveva toccato un minimo di 331 dollari il 2 dicembre 2021 per poi risalire a 450 il 2 marzo, calare molto lentamente fino a 389 il 14 ottobre e raggiungere 465 oggi, 24 ottobre (cosa che non fa presagire niente di buono).

Lo scoppio della pace sarebbe evidentemente un guaio per i suoi padroni. Abbiamo qui già individuato tre motivi per i quali agli USA non dispiace che a livello mondiale ci siano delle tensioni: propiziare la vendita di armi (e di altri servizi militari, come addestramento e approvvigionamenti), tenere alto il prezzo dei prodotti energetici, favorire la potentissima LMI. C’è anche un quarto motivo, e cioè che la guerra favorisce di per sé il circuito che abbiamo visto sopra, per il quale gli USA possono mantenere una bilancia commerciale in eccesso grazie a un continuo afflusso di capitali.

La politica “populista” con cui il governo americano ha affrontato il Covid, vale a dire l’emissione di enormi quantità di dollari, ha seriamente danneggiato il circuito “importazione di beni tramite importazioni di capitali”. L’altissima inflazione che si è prodotta (oltre l’8%) rende più economiche le importazioni, e più care le esportazioni. Occorre aumentare l’afflusso di dollari per compensare il maggior deficit. Ora, quando nel mondo ci sono serie turbolenze, i flussi di capitale si spostano verso gli impieghi più sicuri, e normalmente i titoli denominati in dollari sono i più sicuri.

Chi può, preferisce spostare i capitali dall’Europa, minacciata dalla recessione, dai conflitti interni, dalla rottura del mercato russo e (forse) dalle bombe verso i più sicuri impieghi americani. E infatti l’afflusso netto di capitali verso gli USA è in continua crescita. Borse, la grande fuga dei capitali dall’Europa è un titolo de La Stampa del 17 settembre. Non c’è da stupirsi; da sempre, tanto più un paese è forte tanto più è in grado di far pagare ad altri il costo dei suoi problemi interni. L’impero romano ha disboscato a mani basse l’Europa mediterranea per far fronte alla carenza di legname; gli imperi europei hanno reagito alla long depression iniziata nel 1873 con l’imperialismo.

Economia, Cina e Stati Uniti.

Però credo che ci sia un motivo ancora più importante che spiega perché, dal punto di vista americano, la guerra fosse inevitabile. Per capirlo bisogna guardare un po’ più lontano, vale a dire al conflitto USA-Cina. Che gli USA stiano soffiando su due fuochi (Ucraina e Taiwan) è fuor di dubbio.

Indipendentemente da due dicotomie ben poco esplicative nel campo dell’economia internazionale, e cioè chi sia buono e chi cattivo (ma su ciò tornerò) e chi abbia torto e chi ragione, e indipendentemente da chi abbia cominciato (la Russia in Ucraina, difficile dirlo a Taiwan), è evidente come gli USA non stiano perseguendo politiche di appeasement, bensì il contrario. Tra l’altro, stanno impegnando la NATO ben al di là del suo statuto, il che implica una forzatura politica non banale. Perché?

Di nuovo, bisogna guardare ai dati economici fondamentali.

Supponiamo che nel mondo si instauri un libero mercato capitalista globale, non vincolato da sanzioni e embarghi.

L’economia europea si integrerebbe sempre più con quella cinese (e indiana), coinvolgendo ovviamente anche la Russia. Il mondo cesserebbe di essere unipolare e diverrebbe almeno bipolare.

Bene, questa tendenza sarebbe catastrofica per gli Stati Uniti; e credo che sia questo il motivo principale per il quale gli Stati Uniti sono obbligati a fare di tutto per impedirlo. Questa integrazione porterebbe, progressivamente ma inevitabilmente, a una riduzione del potere di ricatto degli USA sull’economia mondiale, oggi gestito soprattutto tramite un sistema di sanzioni (come vedremo), e anche (forse soprattutto) a una riduzione del ruolo del dollaro come moneta privilegiata per gli scambi internazionali.

In effetti la Cina ha già intrapreso notevoli iniziative che propiziano questi esiti. La prima è la cosiddetta Belt and Road Initiativ (BRI), un insieme di accordi politici e acquisto e/o costruzione di infrastrutture rivolte a propiziare il commercio estero cinese. Basta leggere la relativa voce su Wikipedia per rendersi conto della portata storica del progetto. Cito: «Secondo alcuni studi, [la BRI] coinvolgerebbe fino a 68 nazioni: più della metà della popolazione mondiale, tre quarti delle riserve energetiche e un terzo del prodotto interno lordo globale, e rappresenterebbe il più grande progetto di investimento mai compiuto prima, superando, al netto dell’inflazione odierna, di almeno 12 volte l’European Recovery Program, ovvero il celebre Piano Marshall».

L’espansione del mercato cinese deve passare necessariamente attraverso la Russia, che ne trarrebbe enormi vantaggi, per arrivare all’Europa, la quale a sua volta ne sarebbe enormemente avvantaggiata.

Ma questi sviluppi comporterebbero ovviamente la perdita dello status di unico impero mondiale attualmente goduto dagli USA. Sarebbe veramente ingenuo pensare che gli USA possano stare tranquillamente a guardare. Ma c’è di più – come dicevamo – e cioè il serio pericolo che il dollaro perda il suo status di moneta principe nelle riserve valutarie mondiali e negli scambi commerciali mondiali.

Questo sarebbe catastrofico per l’impero americano. Ecco una citazione presa poco più che a caso fra le molte possibili: «Degli economisti, fra cui Barry Eichengreen dell’Università della California a Berkeley e Camille Macaire della Banca Centrale Francese hanno pubblicato un articolo che analizza le potenzialità dello yuan come valuta di riserva.

I ricercatori ritengono che rimpiazzare il dollaro non sarà né facile né rapido. Tuttavia hanno verificato che le riserve in yuan stanno stabilmente crescendo nei paesi che hanno strette relazioni commerciali con la Cina. Questa crescente influenza potrebbe fare sì che lo yuan diventi un’alternativa al dollaro in un mondo “multipolare”.

In altre parole, la Cina potrebbe via via scalfire l’influenza del dollaro. Gli autori dello studio osservano che l’attuale posizione della moneta cinese ricorda quella del dollaro negli anni ’50. Sulla base di ciò, potrebbero bastare pochi decenni perché lo yuan raggiunga il dollaro»
(V. Raisinghani, su Yahoo-Finance, 29 agosto 2022, traduzione mia).

Come possono reagire gli USA?

Il declino del dollaro renderebbe impossibile mantenere il tradizionale deficit della bilancia dei pagamenti, e la riduzione della centralità degli USA renderebbe i suoi titoli meno appetibili.

Se gli USA tornassero a essere un paese normale anziché imperiale dovrebbero puntare sulle esportazioni per pagare le importazioni, e il loro settore industriale, il cui peso già adesso sta riducendosi progressivamente (attualmente costituisce circa il 10% del PIL, nel 2000 era il 16%, in Italia è circa il 20%), dovrebbe competere con quelli della Cina, dell’India (e dell’Europa), e attrezzarsi per questo sarebbe nel migliore dei casi un processo lungo e difficile. La storia e il buon senso ci insegnano che quando un impero si sente minacciato adotta tutte le misure necessarie per difendere il suo potere, senza tenere molto conto degli interessi dei popoli soggetti all’impero.

È successo, per esempio, coll’impero romano e con quello inglese. E, infatti, contro il pericolo della fine del mondo unipolare gli USA stanno combattendo duramente. L’arma principale (fino ad oggi) sono state le sanzioni (su internet è facile trovare i dati: ci sono 38 programmi di sanzioni in vigore da Afghanistan-related a Zimbabwe-related, i cui contenuti vengono costantemente aggiornati. Guardate i siti dell’OFAC, Office of Foreign Assets Control). Nel 2021, gli enti e gli individui negli elenchi delle sanzioni statunitensi erano più di 9.421, il 933% in più rispetto all’anno fiscale 2004. In teoria esse sono legate esclusivamente al mancato rispetto dei diritti umani o a un presunto o reale sostegno a gruppi terroristi, ma in realtà sono un potente strumento di intervento a correzione del funzionamento dei mercati.

È di questi giorni, per esempio, la notizia che gli USA stanno applicando nuove sanzioni alla Cina con particolare riferimento alle tecnologie di calcolo elettronico. Cito un articolo apparso su una rivista non sospettabile: «In teoria, le superpotenze dovrebbero possedere tutto un insieme di strumenti politici: potenza militare, predominio culturale, persuasione diplomatica, capacità tecnologiche, aiuti economici, eccetera. Ma a tutti coloro che hanno esaminato attentamente la politica estera americana dell’ultimo decennio è risultato ovvio che gli Stati Uniti hanno fatto ricorso soprattutto a uno strumento: le sanzioni» (D. W. Drezner, The United States of Sanctions, “Foreign Affairs”, settembre-ottobre 2021, traduzione mia).

Le sanzioni sono talmente complicate e mutevoli che un apposito sito, aperto al pubblico e facilmente raggiungibile, consente agli operatori di valutare se una transazione di loro interesse è lecita o meno. Le sanzioni non riguardano solo i rapporti fra soggetti americani e soggetti di paesi sanzionati ma anche, e forse soprattutto, le imprese straniere che intrattengono relazioni con quei paesi.

Non ho trovato stime degli effetti delle sanzioni sull’economia globale e su quella dei paesi (e delle imprese) che possono fare concorrenza agli USA e alle loro imprese; ma questi effetti sono sicuramente colossali. E hanno certamente avuto effetti deleteri anche sui paesi satelliti.

Per esempio, l’Italia godeva di un “permesso temporaneo di acquisto” di petrolio dall’Iran, che è stato revocato nel 2019, senza che si potesse protestare. Come scrive (in inglese, traduzione mia) Adriana Castagnoli «la visita del segretario di Stato Mike Pompeo a Roma in ottobre [2019] fu il segnale di una più stretta alleanza fra USA e Italia.
L’Italia avrebbe sviluppato le sue relazioni bilaterali con la Cina solo in questa cornice multipolare. Draghi riposizionò apertamente la collocazione internazionale dell’Italia in linea con Washington e Bruxelles»
(The US–Italy Economic Relations, in a Divided World, Istituto Affari Internazionali, 2022). Se le sanzioni (e le pressioni dirette) non bastano, e quanto sta succedendo indica che non stanno bastando, non resta che ricorrere all’intervento militare.

La guerra in Ucraina rafforza il dollaro, blocca la via della seta e obbliga i paesi europei a rinunciare alle risorse energetiche russe e a sottoporsi alle decisioni americane sul piano militare. Così come la Russia ha ritenuto preferibile la guerra all’ingresso dell’Ucraina nella NATO, gli USA (che, non dimentichiamolo, avrebbero potuto impedire la guerra) hanno preferito la guerra al rischio che attraverso la Russia l’integrazione fra l’Europa e la Cina, e quindi la nascita di un impero cinese in concorrenza con quello americano, diventassero inevitabili.

In questa guerra fra giganti, fredda nelle metropoli e calda ai confini, così come è stato per la precedente guerra fredda, l’Ucraina è sacrificabile e sacrificata; l’Unione Europea è per ora solo piuttosto parzialmente sacrificata, ma è sicuramente sacrificabile in caso di necessità.

E noi? Cosa può fare l’Europa, e in essa l’Italia?

La linea ufficiale del governo, stabilita dal primo ministro Gentiloni nel 2017 e mai smentita, sarebbe la partecipazione entusiasta alla BRI, dato che essa avrebbe ricadute economiche estremamente positive; in effetti l’idea era che l’Italia fosse il principale hub dell’iniziativa, data la centralità del suo sistema portuale una volta che i trasporti transatlantici fossero diventati meno rilevanti.

Anche il resto dell’Europa, comunque, manifestava una grande disponibilità. Chi non vorrebbe che l’Europa si aprisse maggiormente al commercio con la seconda economia mondiale che si avvia a diventare la prima?

Questa politica è oggi improponibile. La scelta per l’Europa e per l’Italia è fra puntare ancora sulla BRI, affrontando l’opposizione degli Stati Uniti, o cedere alle loro pressioni, alle loro minacce e alle loro sanzioni, come stiamo facendo.

In entrambi i casi si tratta di una scommessa: continuare nella politica BRI vuol dire scommettere che dopo le inevitabili turbolenze politiche ed economiche propiziate da questa scelta si tornerà a un mercato mondiale “normale”, con la Cina (e l’India, e la Russia) sempre più integrate. Scommettere sulla seconda vuol dire invece ritenere che i danni che gli USA possono infliggere all’Europa in caso di “tradimento” sarebbero troppo gravi per potere essere sopportati; e che nonostante tutto si possa restare nel “primo cerchio”, sperando che l’evoluzione della guerra non comporti troppi sacrifici.

I fatti purtroppo dimostrano che chi ha fatto questa scelta ha avuto probabilmente ragione. Esiste una terza via? Certamente la serietà del contenzioso fra USA e Cina rende molto difficile percorrerla. Se entrambi i contendenti preferiscono la guerra a un compromesso la guerra è inevitabile. Ma paradossalmente è proprio questa inevitabilità che rende necessario trovarne uno. Nemmeno Molinari o Di Maio possono preferire un bombardamento atomico sull’Italia a un compromesso.

Il soggetto più indicato a cercare questo compromesso è l’Unione Europea. È possibile che qualcuno stia lavorando sotto traccia a ciò. Ma molti di noi avevano sperato che che l’Unione intervenisse con più decisione.

Guerra e ideologia.

Il conflitto fra USA e Cina è un “normale” conflitto fra un impero nascente e uno in declino, paragonabile a quello fra Inghilterra e Germania nel 1914 o a quello fra Roma e Cartagine nel secondo e terzo secolo avanti Cristo.

E come anche in quei casi l’opinione pubblica dei paesi “buoni” è stata facilmente convinta che si trattava in realtà di una lotta di civiltà, di una battaglia fra il progresso e la barbarie. In tutti e tre i casi c’erano validi motivi per cui questa interpretazione prendesse piede, ma soprattutto in quello odierno.

L’Europa occidentale è certamente più ricca della Russia; l’Ucraina è stata aggredita quando ha cercato di sottrarsi all’orbita russa per entrare in quella occidentale; i confini sono sacri (tranne quelli della Serbia), altrimenti si autorizza l’anarchia nelle relazioni internazionali; soprattutto, è vero che i paesi occidentali godono di libertà di parola, di pensiero e di protezione dall’arbitrio molto più della Russia (forse questo non vale per gli USA: è difficile considerare “libero” un paese che ospita il 4,2% circa della popolazione mondiale e il 25% circa della popolazione carceraria mondiale), e questo propizia la lettura del conflitto “lotta fra la libertà e l’autocrazia”.

Chi leggesse i giornali inglesi del 1914 troverà argomenti molto simili; ma oggi come allora avevano un solido fondamento (non a caso Putin non ha potuto invocare ideali simili, ed ha dovuto per così dire ripiegare sul nazionalismo e la lotta al nazismo).

Chi sia stato indotto a ritenere (in contrasto con Gentiloni) che il nuovo mondo multipolare implicherebbe necessariamente il passaggio dalla subordinazione agli USA alla subordinazione alla Cina (o alla Russia) riterrà ragionevolmente che sia meglio la prima.

Che i governi propizino questa interpretazione può essere giustificabile; una volta scelto di essere fedeli agli USA diventa politicamente sensato questo imbonimento.

Non è agevole dire al proprio popolo che si è obbligati a servire gli interessi di un paese straniero a spese di quelli del proprio. In effetti non è agevole dirlo nemmeno a sé stessi; nell’isteria bellicista di un Letta è agevole vedere il tipico atteggiamento di chi ricorre all’ira per evitare di dovere ragionare. Assai meno giustificabile è che lo facciano i giornalisti. Non so se la verità sia rivoluzionaria, come si diceva una volta; penso però che sia molto pericoloso per una democrazia che la verità venga sistematicamente nascosta. E ancora meno lo è che lo facciano alcuni, in effetti troppi, intellettuali e commentatori di centro-sinistra.

Per chi aspira a essere un maître à penser ignorare volutamente i dati che ho qui riportato e le conseguenze che bisogna trarne, rinunciare a riflettere sui costi umani e sulle conseguenze del prolungamento della guerra, lanciare in sostanza il messaggio che “siccome la guerra a fianco dell’Ucraina è giusta bisogna combattere fino alla vittoria e tutto il resto non conta, nemmeno cercare di capirne le cause” è un atteggiamento scorretto, direi una mancanza di dignità professionale. Ignorare i dati e le conseguenze non volutamente, per semplice ignoranza, lo è ancora di più. Ma questo è un altro discorso.

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