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31/10/2017

Puigdemont parla da Bruxelles. Podem si ribella a Podemos

Il leader catalano Carles Puigdemont, da Bruxelles, accusa Madrid di aver chiuso al dialogo con la Catalogna. “Venerdì pomeriggio – ha detto – ero alla Generalitat dopo la dichiarazione di indipendenza del parlamento e con una serie di dati che indicavano che il governo spagnolo stava preparando un’offensiva senza precedenti e anche una denuncia del procuratore che prevedeva pene che potevano arrivare a molti anni di detenzione. Abbiamo sempre voluto la strada del dialogo, ma in queste condizioni questa via non era percorribile. Il governo spagnolo rispetterà i risultati, qualunque siano, delle elezioni del 21 dicembre? Dobbiamo saperlo, non devono esserci diseguaglianze, elettori di seria A e elettori di serie B. Io – assicura il President appena destituito – non sono qui per chiedere asilo politico ma per lavorare in libertà e sicurezza. Se mi fosse garantito un processo giusto, allora tornerei subito in Catalogna per continuare a lavorare”.

Le parole del dirigente del PDeCat sono sibilline, non si capisce se rimarrà o meno in Belgio, se chiederà o meno asilo a Bruxelles. E, come ipotizzano alcuni, se gli andasse male in Belgio, proverà con la Russia o addirittura con Israele pur di sfuggire alla condanna dai 15 ai 30 anni che comportano le accuse contro di lui formulate dalla Procura Generale di Madrid. E anche se non mancano nei suoi confronti le critiche, sia dei sostenitori sia degli avversari, per aver abbandonato il campo ed essere fuggito all’estero per scampare alle conseguenze delle sue azioni, la mossa di Puigdemont ha ottenuto un risultato importante e oggettivo: internazionalizzare una crisi che fino a ieri mattina l’Unione Europea e tutti i principali governi continentali affermavano di considerare un “affare interno alla Spagna”.

“Abbiamo voluto garantire che non ci saranno scontri nè violenza – ha detto ancora Puigdemont da una piccola sala stampa di Bruxelles stipata di giornalisti (pare che il governo Michel gli abbia impedito di usare una sala più grande e prestigiosa) – Se lo stato spagnolo vuole portare avanti il suo progetto con la violenza sarà una decisione sua. La denuncia del procuratore spagnolo persegue idee e persone e non un reato. Questa denuncia dimostra le intenzioni bellicose del governo di Madrid. Noi non abbiamo mai abbandonato il governo, noi continueremo a lavorare. Non sfuggiremo alla giustizia ma ci confronteremo con la giustizia in modo politico. Alla comunità internazionale, all’Europa chiedo che reagisca, l’Europa deve reagire, il caso e la causa catalana mettono in questione i valori su cui si basa l’Europa”.

Assieme a Carles Puigdemont, presidente di una Repubblica annunciata ma stroncata sul nascere dalla repressione e dai mancati passi di un Govern che si è lasciato sciogliere senza colpo ferire, ci sono anche sette dei suoi ministri (del PDeCat e di ERC), cinque dei quali lo hanno accompagnato ieri nel viaggio via Marsiglia e altri due che lo hanno raggiunto oggi.

L’avvocato fiammingo di Puigdemont, noto per aver difeso in passato alcuni cittadini baschi accusati di far parte dell’Eta e di cui Madrid chiedeva l’estradizione, ha detto che per il momento l’ex President non ha intenzione di chiedere l’asilo in Belgio: “Teniamo aperte tutte le opzioni e studiamo tutte le possibilità. Abbiamo tempo”. Bekaert ha riconosciuto che sarà difficile per Puigdemont ottenere la protezione del Belgio, che pure è uno dei paesi più garantisti di tutto il continente. “L’asilo può essere chiesto, ma ottenerlo è un’altra cosa”, ha detto il legale, secondo il quale è ancora troppo presto per parlare di incidente diplomatico con la Spagna. “Per il momento non si tratta che di un cittadino europeo venuto a Bruxelles”, ha affermato l’avvocato, sul quale non pendono provvedimenti giudiziari ma solo un’inchiesta. Certo “La Spagna è molto suscettibile sulla questione, posso testimoniarlo”, ha aggiunto l’avvocato.

Intanto, il ministro degli esteri spagnolo Alfonso Dastis ha detto che “sarebbe sorprendente” se Puigdemont ottenesse l’asilo politico in Belgio. Fra paesi Ue “non sarebbe una situazione di normalità”, ha aggiunto. La decisione ha però ammesso non sarebbe presa dal governo ma dalla giustizia belga. Dastis ha detto anche di avere scambiato messaggi con il collega belga Didier Reynders evidentemente per tentare di bloccare ogni possibile iniziativa dell’esecutivo Michel che comunque ha preso le distanze dalle dichiarazioni possibiliste del ministro dell’Immigrazione Theo Francken, come d’altronde il suo stesso partito, la formazione di centro-destra Nuova Alleanza Fiamminga, che chiede l’indipendenza delle Fiandre ma fa parte della compagine governativa.

Per le ore 18, il premier spagnolo Mariano Rajoy ha convocato una riunione straordinaria del consiglio dei ministri sulla crisi catalana. La riunione dovrebbe preparare in particolare le elezioni convocate per il 21 dicembre e alla quale sembra che i partiti indipendentisti catalani, pur definendole illegittime e condizionate, sembrano proprio intenzionate a partecipare.

Intanto stamattina la Guardia Civil spagnola realizzate ben sei blitz in altrettanti commissariati dei Mossos d’Esquadra in diverse città della Catalogna con l’obiettivo di sequestrare le registrazioni delle comunicazioni interne al corpo di sicurezza durante il referendum del 1 ottobre. Gli agenti spagnoli hanno perquisito il centro di telecomunicazioni di Sabadell e i commissariati centrali di Barcellona, Girona, Manresa, Tortosa e Sant Felu de Llobregat alla ricerca di prove della ‘disobbedienza’ da parte degli agenti della polizia autonoma all’ordine impartito di impedire, lo scorso 1 ottobre, il voto di due milioni e mezzo di cittadini, anche con la forza.

Sul fronte politico, dentro Podemos si sta consumando definitivamente lo strappo tra la direzione statale e la diramazione catalana. Oggi Albano Dante Fachin, segretario di generale Podem esautorato domenica dalla direzione federale di Podemos, ha respinto il commissariamento ed ha accusato Pablo Iglesias di comportarsi come Rajoy, sottomettendo il suo partito ad un “commissariamento inaccettabile”.

“La giustificazione di Pablo Iglesias per commissariare Podem è uguale a quella di Mariano Rajoy per commissariare la Catalogna: così come Rajoy ha detto che occorre sciogliere un governo democraticamente eletto per dare voce alla gente, Iglesias dice che bisogna rimuovere una direzione democraticamente eletta per dar voce agli iscritti. Questo è lontano dalle pratiche democratiche che abbiamo sempre difeso” ha detto Dante Fachin nel corso di una conferenza stampa.

Il leader di Podem ha sfidato Iglesias a dimostrare che tre dei quattro deputati del movimento non abbiano votato contro una delle due risoluzioni indipendentiste approvate venerdì dal Parlament di Barcellona. I tre parlamentari, ha detto, si sono attenuti alle indicazioni del movimento, votando ‘no’, ma non hanno mostrato il voto scritto sulla scheda in segno di solidarietà con i deputati indipendentisti che a causa della loro scelta potrebbero andare in galera. Inoltre, ha denunciato Dante Fachin, mentre Iglesias imponeva a Podem una consultazione tra gli iscritti di Podem sulla coalizione con cui andare al voto nelle elezioni del 21 dicembre imposte da Rajoy, la direzione di Podemos aveva già deciso di presentarsi attraverso la coalizione Catalunya en Comù.

Al contrario la direzione di Podem, ha spiegato il suo segretario, ha deciso di iniziare un giro di consultazioni con tutte le forze indipendentiste e di sinistra per accordare una reazione comune alle elezioni ‘straordinarie’ di fine dicembre. “Indipendentisti e non indipendentisti dobbiamo lavorare insieme in queste elezioni che non sono normali” ha chiarito.

Invitato a farsi da parte e a lasciare il movimento da Pablo Iglesias e da altri big del partito statale, Dante Fachin ha affermato che metterà a disposizione il suo incarico nel corso della prossima riunione di direzione di Podem, all’interno della quale può godere di un ampio sostegno da parte dei suoi e anche della corrente Anticapitalistes. Dante Fachin ha anche criticato l’accordo di governo a Barcellona tra Ada Colau e i socialisti “che sostengono la repressione”.

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La Valsusa brucia


Ci sarà tempo per approfondire le diverse cause che hanno provocato gli immensi incendi in Valsusa. Ora c’è solo da sostenere le comunità abituate a difendere in modo straordinario quel territorio. Una cosa però sanno bene in Valle: “quelli che sono in alto” hanno bucato per decenni le montagne della Valsusa – con la prima centrale in caverna a Venaus da parte di Enel e dei francesi di Edf, che qui alcuni chiamano la Nonna delle Grandi opere, e più recentemente con i lavori per l’alta velocità – massacrando quei recipienti millenari di acqua che ora avrebbero difeso case e boschi. E ora istituzioni e grandi media si disperano mentre i canadair arrivano fino in Croazia... Perfino studi commissionati per la Torino-Lione mostrano l’evidente relazione tra il disseccamento delle montagne e il progredire dello scavo delle Grandi opere. Il fumo delle fiamme alte più di cinquanta metri che hanno devastano Mompantero puzza di ipocrisia e di profitto.

Borgone Susa, domenica 29 ottobre. Ottava giornata di fuoco e fumo. Altri ettari di boschi resi estremamente infiammabili da oltre novanta giorni di siccità stanno bruciando inesorabilmente nonostante la lotta commovente che sfinisce pompieri, Aib (Antincendi boschivi) e volontari che non contano le ore, i pasti saltati e i veleni respirati.

Loris Mazzetti – scrittore, giornalista e dirigente Rai che era venuto a trovarci giovedì per presentare il suo ultimo lavoro, La profezia del Don dedicato a un prete che non prometteva miracoli, (li faceva) – ha voluto trattenersi per altri due giorni per vedere di persona quel che stava succedendo nella Valle dei No Tav... Ecco cosa ha scritto sulla piazza virtuale facebook, la più frequentata al mondo:

“Sono stato in Valsusa a presentare il libro La Profezia del Don. La valle è devastata da incendi dolosi, non si vede il sole per colpa del fumo, si respira a fatica, la solidarietà non basta, occorre la presenza dell’esercito, ci vogliono leggi adeguate contro chi provoca gli incendi. L’informazione nazionale deve fare di più, non è un problema che riguarda solo il Piemonte è l’Italia che è stata colpita. In alcune zone le fiamme sono a ridosso delle case, un giovane di ventisei anni mentre tentava di spegnere le fiamme è morto d’infarto, vigili del fuoco salvati per miracolo, animali morti. No, no la solidarietà non basta. Basta con i soldi sperperati dalla politica per inutili referendum, basta con treni che vanno su e giù per il Paese per campagne elettorali che durano mesi e mesi. I cittadini della Valsusa hanno bisogno di risposte immediate. Portiamo le telecamere nella valle”.

Di telecamere siamo invasi ma per inquadrare noi, la nostra ribellione contro chi – prima che qualcuno desse fuoco ai boschi – ha bucato per decenni le nostre montagne, i recipienti millenari di acqua potabile e di quella (comunque di buona qualità) di fossi e torrenti che oggi sarebbe stata preziosa per difendere le case, oltre le piante.

Milioni di metri cubi persi per sempre con la realizzazione – oltre mezzo secolo fa – della prima centrale in caverna a Venaus da parte dell’Enel e dei francesi di Edf che, non appena appropriatisi del Moncenisio nel 1947 – come ritorsione per la guerra persa dall’Italia del duce – vi hanno costruito una della più imponenti dighe d’alta quota d’Europa, decapitando – allo scopo – una montagna trasformata in cava di inerti (la Carrier du Paradis che forse dovrebbe essere rinominata “dell’inferno”).


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L’occupazione è di nuovo ferma al palo

Una sobria ridimensionata alle dichiarazioni mestamente ottimistiche del governo: l’occupazione non cresce più, neanche con tutta la precarietà permessa dal Jobs Act. E nonostante che il tasso ufficiale di crescita sia in moderato aumento dopo anni di segni negativi (pesa la congiuntura globale favorevole, non certo le “virtù” del nostro sistema nazionale, basato sulla deflazione salariale).

A settembre 2017 – certifica l’Istat nella rilevazione mensile pubblicata stamattina – la stima degli occupati è sostanzialmente stabile rispetto ad agosto, il che mette fine alla crescita osservata negli ultimi mesi. Il tasso di occupazione dei 15-64enni si attesta comunque al 58,1% (-0,1 punti percentuali).

Come ogni dato statistico, però, bisogna guardare a cosa c’è sotto la “media”. La stabilità dell'indice occupazionale nell’ultimo mese è infatti frutto di un aumento tra gli uomini e gli over 35 e di un equivalente calo tra le donne e i 15-34enni. Risultano in aumento gli indipendenti, stabili i dipendenti a termine, in calo i permanenti.

Nel trimestre luglio-settembre, per effetto dei dati relativi ai due mesi precedenti, si registra una crescita degli occupati rispetto al trimestre precedente (+0,5%, +120 mila) che interessa entrambe le componenti di genere e tutte le classi di età ad eccezione dei 35-49enni. Ma anche qui il diavolo si nasconde nei dettagli: l’aumento si concentra quasi esclusivamente nell’occupazione a termine. Si allarga insomma l’area della precarietà, non la “buona occupazione”. Segno che il processo di contrazione salariale – che discende immediatamente dalla precarietà occupazionale – sta per un verso sostituendo l’occupazione stabile, senza peraltro trasformarsi più in maggiore occupazione.

A conferma arriva il dato relativo al tasso di disoccupazione, che resta stabile all’11,1%, invariato rispetto ad agosto, ma anche qui al prezzo dell’aumento della disoccupazione giovanile, che sale al 35,7% (+0,6 punti). Tradotto in processi reali: chi assume lo fa soltanto con contratti a termine o comunque precari, ma preferisce prendere lavoratori con esperienza, non ragazzi alle prime prove (a meno che non siano “gratis”, come nell’alternanza scuola-lavoro).

Ma tornano a crescere anche gli inattivi, dopo mesi di calo. A settembre la stima degli inattivi tra i 15 e i 64 anni cresce dello 0,2% (+25 mila). Il tasso di inattività sale al 34,4% (+0,1 punti). Va sempre ricordato che questa percentuale – ai fini della comprensione degli equilibri sociali effettivi – va sommata al tasso di disoccupazione. I senza lavoro reali, insomma, sono più del 40%, come peraltro afferma correttamente il tasso di occupazione fermo al 58%.

Dichiararsi soddisfatti di questa situazione è da criminali...

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Dentro la Ue, siamo tutti come i catalani

Difficile non capire che con quanto sta accadendo sia completamente cambiato il gioco. Se un governo pressoché al completo – liberamente eletto e confermato da un referendum popolare – è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Unione Europea, vuol dire che nulla sarà come prima.

Quello che sta avvenendo in questi giorni intorno alla Catalogna e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico e dei relativi equilibri sociali.

E’ la prima volta infatti che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale. Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei nemici. Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugoslavia. Ma se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”. Dunque si conferma anche empiricamente che la Ue è un sistema sovranazionale creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici.

E’ dunque la prima volta che l’indipendenza viene proclamata comunque all’interno di un’area rilevante del continente europeo senza essere riconosciuta da nessun altro Stato. Indipendenza formale, non effettiva, perché ovviamente la Catalogna non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status: ossia “piccoli dettagli” come frontiere protette, un esercito o un popolo in armi, una moneta autonoma, controllo sui movimenti di capitale e delle imprese, ecc. In altri termini, per una questione di puri rapporti di forza, che notoriamente prevalgono sulle questioni ideologiche e sulle pure posizioni politiche.

Se saranno confermate le voci, sarà infine la prima volta che dirigenti politici democratici (addirittura del “Partito Democratico”!) chiederanno ufficialmente asilo politico. Per la sottile ironia della Storia, proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”.

Non è invece la prima volta che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione di diritti, salari, welfare.

Abbiamo scritto più volte che l’Unione Europea – un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico – genera il mostro che dice di voler combattere (razzismo, fascismo, ecc.) moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società.

Abbiamo scritto più volte che questa gabbia non può essere “riformata” dall’interno e che dunque l’unica soluzione realistica, per quanto difficile possa sembrare ora, è quella della rottura.

L’evoluzione rapidissima della vicenda catalana ci ha mostrato dal vivo come ciò sia vero anche nella realtà politica concreta. Certamente la parte maggioritaria e moderata del movimento indipendentista, rappresentata istituzionalmente da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione o un equivoco “riformista”. Quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite. Mantenendo insomma trattati, contratti, moneta, ecc, senza alcun trauma; anzi con la benevolenza della Ue.

E’ assolutamente chiaro che il Governo di Barcellona, dopo aver celebrato il referendum, puntava a un compromesso con il governo centrale spagnolo guidato dall’ex franchista Mariano Rajoy, anche a costo di non tradurre in atti istituzionali formali il mandato popolare (proclamare l’indipendenza).

Ed è dunque altrettanto chiaro che Puigdemont e gli altri dirigenti del PdeCat si sono trovati davanti ad un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile. Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro, nessun mutamento delle scelte strategiche decise ai vertici europei (di cui Rajoy è membro di rilievo).

Proprio questo muro ha costretto il Governo catalano a portare fino in fondo – nelle condizioni date, obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione di indipendenza. Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee. Di sicuro la fuga non è un “atto eroico”, anzi, ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente, come un Noske del nuovo millennio.

E’ un fatto. E’ avvenuto. Ed è un fatto storico da ascrivere alla continua, potente, incessante mobilitazione di massa del popolo catalano e delle formazioni della sinistra più conseguenti. Che non dubitiamo sapranno trovare le giuste soluzioni contrarie alla reazione autoritaria del governo Rajoy, proseguendo – in condizioni molto mutate – nel processo che dovrà portare all’indipendenza della Catalogna.

Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione oggettiva. E richiede un corrispondente mutamento nella soggettività che punta alla trasformazione sociale radicale. Per noi, che siamo a un livello di conflittualità politica e sociale assai meno sviluppato, si tratta di trarre lezioni, non di dare “consigli” non richiesti.

Per noi, dunque, si tratta di prendere atto che fino a ieri – l’intero mese di ottobre, dal referendum a oggi – si trattava di chiarire che la “riforma” non è possibile, e che solo la “rottura” rappresenta una prospettiva realistica. Era una battaglia sostanzialmente nel cielo delle idee politiche, ma con scarsi effetti storico-pratici.

Da oggi in poi – dato che la realtà si è incaricata di far vedere plasticamente quanto ciò sia vero – si tratta invece di iniziare a ragionare sul come fare per arrivare alla rottura; ossia delineare i primi obiettivi strategici e tattici, facendo i conti ad ogni passo con i concreti rapporti di forza, di un percorso che viaggia nel concreto del conflitto politico.

A cominciare dal più importante: qual’è il nemico principale, quello con cui tutti – la classe, le sue (scarse) forze organizzate, i collettivi e i singoli compagni – ci troviamo ad avere a che fare. Magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani.

Va da sé che a questo punto il dibattito e la mobilitazione “contro” l’Unione Europea non sarà più un dettaglio.

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“Di Hartz si muore”. Lavoro coatto come soluzione alla povertà?

I sistemi di welfare per poveri e disoccupati sono diventati una diabolica porta girevole senza uscita, anzi l’unica porta possibile sembra essere diventata quella con su scritto “Arbeit macht frei” e la prospettiva del lavoro “coatto”.

Mentre gli autori espongono il loro libro, ti scorrono davanti le immagini di “Io Daniel Blake” di Ken Loach e ti sembra di seguire la presentazione di un libro “distopico”, cioè quelli che ti anticipano scenari futuri da incubo. Eppure le argomentazioni di Giuliana Commisso e Giordano Sivini (docenti dell’Università di Calabria e autori di “Reddito di cittadinanza. Emancipazione del lavoro o lavoro coatto?” Edizioni Asterios) sono purtroppo veritiere e pertinenti.

E’ una analisi impietosa dei meccanismi perversi sui quali hanno modellato i sistemi di welfare nell’Unione Europea sia nella versione neoliberista (anglosassone) che ordoliberista (tedesca). Nel primo caso il film di Ken Loach è illuminante di quell’apparato messo in piedi per favorire formalmente “l’inclusione sociale” e che invece tende a rendere permanente la condizione di esclusione. Nel secondo agisce l’inganno retorico partorito a Bruxelles della “flexsecurity”, costruito per passare dall’obiettivo di creare occupazione a quello di stabilizzare “l’occupabilità” delle persone. E’ il modello tedesco prodotto dal commissario Hartz, quello delle riforme e dei mini-job ma anche degli “One euro jobs”, dove i poveri e i disoccupati vengono ormai concepiti come malati bisognosi di cure ma, come ha sintetizzato Giuliana Commisso, “di Hartz si muore”.

Gli elementi in comune tra i due modelli sono la filosofia coercitiva che tende a penalizzare i poveri e i disoccupati – sancendo il problema come dovuto ad un deficit personale (lo scarso impegno nella ricerca di un lavoro qualsiasi) e non al sistema – e l’orizzonte del “lavoro coatto”, obbligato, un lavoro magari a 1 euro l’ora, con la minaccia di togliere parzialmente o totalmente gli eventuali sussidi. Insomma una aperta lotta contro i poveri piuttosto che contro la povertà.

Un lavoro dunque di enorme interesse quello di Commisso e Sivini, che preferiscono parlare di reddito di esistenza invece che minimo o di cittadinanza, andrebbe conosciuto, discusso e socializzato in ogni fronte delle lotte sociali e sindacali.

Ma i due autori mostrano una grande dose di coraggio anche quando affrontano la situazione italiana, prendendo di petto frontalmente e decostruendo le direttive di due “divinità”: l’Alleanza contro la povertà messa in piedi dalle organizzazioni cattoliche che imperano nel terzo settore insieme a Cgil, Cisl, Uil e la proposta del “Reddito di Cittadinanza” del M5S. Insomma due mostri sacri della pubblica benevolenza e che in realtà quando mettono mano al tema della lotta alla povertà e del reddito per i settori sociali più deboli, partoriscono diavolerie che hanno poco da invidiare al modello neoliberista o a quello ordoliberista.

Giordano Sivini, confessa di aver guardato con simpatia al M5S... fino a quando è andato a leggersi nei dettagli la proposta sul reddito di cittadinanza. A suo avviso questa proposta riflette in pieno il modello Hartz 4 tedesco. Attiene solo a chi è al di sotto della soglia di povertà relativa (800 euro) con una integrazione per raggiungere la soglia necessaria a superarla. La critica si concentra sull’art.11 della proposta dei M5S che subordina il beneficio ai centri per l’impiego, dove il beneficiario deve certificare di essersi impegnato “almeno due ore” alla ricerca di un lavoro attraverso un diario, ricevute, scontrini, copia delle domande presentate e delle eventuali risposte ottenute, altrimenti viene sottoposto a sanzioni con vari step che sono il richiamo, la riduzione ed infine la perdita del sussidio. Ci sono poi i commi 2 e 7 dell’art.12 dove il beneficiario – che avrebbe diritto ad un “lavoro congruo” – può rifiutarlo tre volte ma poi deve accettare qualsiasi lavoro, anche non congruo. Inoltre, segnala Sivini, tra le fonti di finanziamento del Reddito di Cittadinanza originariamente venivano indicati il taglio delle spese militari, che però nella versione più recente sono scomparsi.

Nessuna indulgenza neanche verso l’Alleanza contro la povertà, vera e propria “Armada” messa in campo da 30 organizzazioni cattoliche nel terzo settore con Cgil Cisl Uil. Questa montagna ha fatto partorire al governo un topolino (il Ris diventato Rie) di 475 euro al mese a famiglia poverissima per 18 mesi e tramite una carta acquisti, ma il progetto scade ogni sei mesi e la domanda va rinnovata. Tutti i maggiorenni delle famiglie beneficiate devono andare ai centri per l’impiego e siglare un “patto di servizio”. Insieme ad una commissione (di funzionari pubblici e del privato sociale) viene fatta una analisi dei bisogni “oggettivi” della famiglia esaminata ed a questi, tutti i membri della famiglia devono attenersi. Se anche uno solo dei membri “sgarra” tutta la famiglia perde i benefici con una sorta di punizione collettiva. Si ritorna così a quel modello coercitivo contro i poveri che non solo ne lede la dignità ma li colpevolizza e li punisce.

Dopo l’esposizione del libro è seguito un dibattito interessante con gli attivisti sociali e sindacali presenti. La questione del reddito (declinato in modo diversi dalle diverse esperienze) in questi anni non è riuscita ancora a diventare una proposta di sintesi e di conflitto sociale unitario, mentre anche i sindacati si devono misurare con la difficoltà di un mondo del lavoro dove ormai dilagano i working poors, lavoratori individualizzati, figure sociali frammentate difficili da ricomporre. “Questa ricomposizione è la sfida della Federazione del Sociale della Usb” dicono Guido Lutrario e Viviana Ruggieri che hanno organizzato l’incontro proprio nella sede del sindacato.

Infine, ma non per importanza, il titolo del libro “Reddito di Cittadinanza” – forse perché l’editore ha voluto titolarlo con un tema ampiamente veicolato dai media e dai social media – non rende giustizia alla complessità e alla ricchezza del volume dei due autori. Dentro c’è descritto con dovizia di particolare quel micidiale modello che in nome della lotta alla povertà ha costruito invece delle porte girevoli dai quali i poveri, pur dandosi da fare, non riusciranno mai ad uscire. Anche perché povertà, occupabilità, formazione continua, flexsecurity sono diventate un mercato redditizio per le organizzazioni del terzo settore e i sindacati tradizionali che su questo fanno rubamazzo con i loro centri e le loro strutture. Per questo nel paese diventa urgente una “operazione verità”

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La dittatura in un click

Confesso di essermi documentato poco sui referendum autonomisti del Lombardo-Veneto. Perché, lo confesso, non mi interessavano. Confesso anzi che fino a ieri li reputavo irrilevanti, nel bene e nel male, salvo chiedermi come avrebbe reagito l'elettorato cispadano e quanto l'iniziativa avrebbe danneggiato – e quanto giustificatamente – la credibilità delle aspirazioni nazionali dei suoi promotori. Fino a ieri, appunto. Poi ho ascoltato il commento di Roberto Maroni alla giornata elettorale e mi si è accesa una lampadina, anzi una sirena antiaerea:
... è un sistema perfetto. Quindi è il futuro. Abbiamo sperimentato il futuro per l'Italia, per il sistema di voto che potrà essere utilizzato in qualunque elezione e io chiederò, ho già annunciato e preannunciato al ministro Minniti, che già le prossime elezioni in regione Lombardia possano utilizzare questa procedura. Abbiamo garantito oggi che funziona in tanti seggi diversi e in tante modalità operative diverse e abbiamo dimostrato che è sicuro.
E ancora:
Abbiamo sperimentato un sistema di voto elettronico che potrà essere il futuro del sistema di voto in Italia. Ho sentito questa sera poco fa il ministro Minniti per dirgli di questo risultato a urne... no, a voting machine chiuse, preparerò per lui una relazione dettagliata che gli invierò nei prossimi giorni e gli chiederò che il nostro sistema sia utilizzato in futuro, magari già alle prossime elezioni politiche.
Il governatore parlava ovviamente del sistema di voto elettronico utilizzato nella consultazione lombarda. Confesso che anche di questo, come di tutto il resto, mi ero disinteressato. E ne ho colpa. Perché erano anni che aspettavo e temevo di ascoltare queste parole, immensamente più rilevanti e più gravi del piccolo episodio referendario che ne ha fornito l'occasione.

Per i suoi effetti sulle libertà fondamentali, l'imposizione del voto elettronico fa il paio con quella della moneta elettronica di cui abbiamo già parlato in questo blog. In entrambi i casi si tratta della centralizzazione di un potere diffuso – economico attraverso la moneta, politico attraverso il voto – che non a caso include i due poteri su cui si fonda la libertà civile dei singoli: di disporre dei propri patrimoni e di partecipare alle decisioni collettive opponendo la propria autonomia all'arbitrio di chi governa. La diffusione di questi poteri, cioè la misura in cui i cittadini possono rivendicarne liberamente l'esercizio e la titolarità, coincide con la sostanza stessa della democrazia.

Vi sembra che si stia esagerando? Vediamo.

Nel recente caso lombardo l'opzione del voto elettronico è stata proposta con una modifica alla Legge 34 dai soliti cinquestelle, quelli che già votano tra di loro su un portale online privato, a codice chiuso e senza obbligo di rendicontazione, e approvata con il voto dei consiglieri di centrodestra. Secondo il capogruppo PD Enrico Brambilla si sarebbe trattato «con tutta evidenza» di una «merce di scambio tra i grillini e la maggioranza» per appoggiare il referendum dei colleghi leghisti. Data la sproporzione delle poste in gioco, è difficile per chi scrive non sospettare che l'obiettivo di alcuni possa essere stato quello – cioè esclusivamente quello – di sdoganare il nuovo sistema di voto, quale ne fosse il pretesto.

L'appalto lombardo per la fornitura e gestione dell'infrastruttura di voto era affidato alla multinazionale Smartmatic. Come funzionano i software di acquisizione, registrazione e trasmissione dei dati della Smartmatic? Attraverso quali algoritmi elaborano le preferenze dei votanti? Non si sa né si può sapere, perché il codice è chiuso e protetto da segreto industriale. Come possono i presidenti di seggio verificare che i risultati del report finale corrispondano ai voti espressi? Non possono, per lo stesso motivo. Esiste la possibilità di convalida a valle da parte di un pubblico ufficiale? No. Tutto ciò che accade all'interno delle macchine Smartmatic dipende solo da Smartmatic ed è verificabile solo da Smartmatic. Sicché il risultato elettorale è nelle mani di Smartmatic. Il governo popolare di milioni di elettori passa così nella camera blindata di un unico soggetto privato prima di essere riconsegnato al popolo. Se ciò non avvera necessariamente un sogno di onnipotenza e di controllo globale, ne soddisfa senz'altro tutte le condizioni. Non ci resta quindi che fidarci e chiederci, perlomeno, di chi ci stiamo fidando.

Partendo dalla segnalazione di un lettore apprendo che l'attuale presidente di Smartmatic, Mark Malloch Brown, figura oggi nel board della fondazione Open Society di George Soros avendo ricoperto in passato i ruoli di vice direttore dell'Open Society Institute e del fondo Quantum dello stesso Soros, nonché di vice presidente del Soros Fund Management e, nei primi anni '90, di consigliere nel Soros Advisory Committee in Bosnia durante gli anni in servizio presso la ONG Refugees International. Nel 1995 fonda la ONG International Crisis Group grazie alle ingenti donazioni dell'Open Society Institute e dello stesso Soros.

Nella sua lunga carriera istituzionale Malloch Brown ha lavorato per l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), la Banca Mondiale e il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (UNDP), di cui era amministratore quando, nel 2004, il neopresidente georgiano Mikheil Saakašvili vi attinse un fondo cofinanziato da UNDP e da Open Society Institute per «sostenere le riforme» del governo scaturito dalla rivoluzione delle Rose in cui lo stesso Soros avrebbe investito non meno di 40 milioni di dollari. Per avvicinarsi alla sede di lavoro, un anno prima Brown si era trasferito con la famiglia in una villa di proprietà di George Soros a Katonah, nella contea di Westchester, diventando così anche vicino di casa del miliardario ungherese. All'apice del suo percorso politico, nel 2006 ha servito come segretario generale aggiunto alle Nazioni Unite sotto il mandato di Kofi Annan e, dal 2007 al 2009, come ministro degli Esteri nel governo inglese di Gordon Brown.

Giornalista di formazione, ha scritto per l'Economist e attraverso lo studio Sawyer-Miller di cui è socio è stato consulente di immagine nella campagna elettorale di Gonzalo Sánchez de Lozada in Bolivia, Mario Vargas Llosa in Perù e Corazón Aquino nelle Filippine. Nel 2012 dà alle stampe un libro che si racconta già nel titolo, The Unfinished Global Revolution: The Limits of Nations and The Pursuit of a New Politics, nella cui quarta di copertina leggiamo che
i governi nazionali non sono più attrezzati per affrontare problemi complessi come il cambiamento climatico e la povertà. Sempre più spesso, sopperiscono le ONG, la società civile e il settore privato.
Nel 2014 si scopre anche capitano d'industria. Conosce Antonio Mugica, giovane ingegnere venezuelano convinto che la e-democracy e «il voto online esploderanno nei prossimi anni» e fondatore negli anni '90 della Smartmatic, azienda di servizi informatici alle pubbliche amministrazioni dagli assetti proprietari e finanziari quantomeno opachi, stando a quanto ricostruito in un cablogramma del 2004 pubblicato da Wikileaks. Brown ne diventa presidente.

Di fronte a tanto curriculum, è davvero singolare l'entusiasmo con cui un governatore del partito più sovranista d'Italia affida le sorti elettorali della sua regione, e chiede di affidare quelle della Nazione tutta, ai sistemi informatici dell'uomo forse più globalista del globo. E il Matteo Salvini che definisce l'infrastruttura di voto fornita dal vice e dirimpettaio di George Soros una «opportunità» che il Ministero dell'Interno dovrebbe offrire «anche per le elezioni della prossima primavera», è lo stesso Matteo Salvini che metterebbe «fuorilegge tutte le istituzioni finanziate anche con un solo euro da gente come Soros»?

Intendiamoci, Smartmatic non è finanziata da George Soros. E Malloch Brown vi si è insediato solo tre anni fa. Ma se si ignorano le liasons politiche più recenti dell'azienda, prima di entusiasmarsi se ne dovrebbero almeno considerare i precedenti, ad esempio che è poco gradita negli Stati Uniti già dal 2006 quando, dopo avere quasi mandato all'aria le elezioni amministrative di Chicago, è finita sotto i riflettori del Committee on Foreign Investment per i suoi legami poco chiari con il governo venezuelano e la difficoltà di stabilirne le quote di proprietà, disperse in una «elaborata rete di aziende offshore e trust stranieri». Nelle ultime presidenziali è bastata la notizia – falsa – che la società dell'ing. Mugica avrebbe fornito i suoi sistemi ad alcuni Stati per gettare nel panico l'opinione pubblica americana. Più recentemente è stata messa sotto inchiesta nelle Filippine per essere intervenuta senza autorizzazione sui voti già acquisiti. Ma è di questa estate il caso forse più grave di tutti, proprio sotto la presidenza di Brown e proprio in Venezuela, quando Mugica ritirò i suoi tecnici dal paese per poi annunciare alla stampa che i dati sull'affluenza alle elezioni della nuova assemblea costituente venezuelana di cui era appaltatore sarebbero stati manipolati. Con quella mossa, inspiegabile secondo logiche commerciali, tirava la volata ai nemici politici di Nicolás Maduro (qui Repubblica) che poterono così disconoscere i risultati della consultazione adducendo l'«autorità» dei tecnici.

***

Checché si pensi della società Smartmatic e dei suoi vertici, è francamente inaudito che i processi elettorali di uno Stato sovrano siano affidati a un soggetto privato, straniero e per di più dall'azionariato poco o punto identificabile. Se le democrazie si governano attraverso le elezioni, la privatizzazione delle urne è una privatizzazione del governo. Come minimo, i software utilizzati dovrebbero essere di proprietà pubblica e a codice aperto, e i tecnici che li installano e ne verificano il buon funzionamento ufficiali pubblici o forze di polizia. Ma, anche così, la maggiore sicurezza del voto elettronico sarebbe garantita?

No, assolutamente no.

Perché il problema è di natura fisica, non tecnologica. I dati acquisiti da un dispositivo elettronico non sono visibili e la loro manipolazione non lascia traccia. Non c'è modo di sottoporre al vaglio empirico di un essere umano la corrispondenza tra l'input (il dito che tocca lo schermo di un tablet, o che preme un tasto) e l'output (il risultato restituito dalla macchina). A prescindere dalla tecnologia e dalla baroccaggine delle procedure di sicurezza adottate. L'unico sistema sicuro – cioè sicuro almeno tanto quanto i metodi tradizionali – sarebbe quello di stampare una ricevuta che i votanti verificano e depositano anonimamente in un'urna per il conteggio in contraddittorio degli scrutatori e il riconteggio in caso di contestazioni. Ma allora si ritornerebbe al vecchio sistema, sostituendosi semplicemente la stampante alla matita con qualche milionata di costi in più.

Il fatto è che nelle elezioni si è sempre brogliato, con qualsiasi sistema. Non potendosi garantire la fedeltà assoluta, l'obiettivo deve essere quello di rendere i brogli più difficili e dispendiosi. È qui che il voto elettronico fallisce miseramente e si trasforma in una minaccia per la democrazia. Perché da un lato accentra il controllo sui voti nelle mani dei pochi o dei singoli che programmano i dispositivi – laddove la carta richiederebbe la connivenza di squadre di scrutatori e osservatori – dall'altro offre l'opportunità di una manipolazione istantanea, automatica e senza traccia a chiunque si trovi nella stanza di controllo: un appaltatore venduto, un funzionario infedele, lo stesso governo in carica o una sinergia dei tre. Installando un software truccato su tutte le macchine di voto si otterrebbe senza costi l'equivalente di corrompere decine di migliaia di sezioni elettorali (per non dilungarci oltre sulla vulnerabilità sostanziale del voto elettronico rimandiamo i più tecnici a questo eccellente paper dell'Institute for Critical Infrastructure Technology).

In linea di principio non stupirebbe dunque se un così enorme potenziale di controllo attirasse l'attenzione di chi si è già dedicato con altri mezzi a condizionare le vicende elettorali degli Stati. Stupisce invece, e anzi rattrista, che lo strumento sia acclamato da chi può subirne gli abusi: gli elettori, i politici, i governi stessi.

Da un lato, l'ossessione della digitalizzazione riflette il desiderio di conformarsi a una narrazione politica che indica nel dovere di «innovarsi» tecnologicamente la filiale di un «progresso» rispetto al quale siamo sempre in ritardo, coltivando nelle masse un senso di difetto eterno e perciò una smania di abbracciare tutto ciò che si presenta loro nell'incarto lessicale della novità (le «riforme»). Il progresso dei progressisti è acefalo, non dichiara i traguardi a cui tende, ma in compenso è «inevitabile». Chi in questi giorni si chiede come sia possibile che si voti ancora come un secolo fa, dovrebbe anche chiedersi perché mangiamo ancora per vivere come centomila anni fa, o perché utilizziamo ancora muri e portoni, e non un più agile firewall, per proteggerci dalle incursioni dei ladri. 

Ci sono cose che devono rimanere materiali perché... l'essere umano è materiale. Se fossimo un software potremmo infilarci nei tablet e rincorrere i pacchetti di dati per identificarli. Ma non lo siamo. Esistiamo in una dimensione fisica diversa dove si percepiscono la carta e i segni, non le cascate di impulsi a 5 volt. Sicché nella ubriacatura della dematerializzazione non si intravede solo il veicolo politico di un accentramento dei poteri, ma forse più a monte, e più gravemente, una patologia sociale. Vi si legge una hýbris di reazione, il sogno onnipotente di un'umanità schiacciata da uno sviluppo non più umano che si illude di disumanizzarsi per tenere il passo, che immagina di superare i suoi limiti diventando liquida e veloce per comprendere ciò che non riesce a comprendere e accettare ciò che non può accettare. 

Perché in effetti la realtà fisica è l'ultimo ostacolo che si frappone tra il mondo promesso dalle teorie economiche e sociali in voga e la sua realizzazione. Sicché occorre negarla muovendo guerra ai suoi fenomeni: la geografia con le favole «no border», le distanze e gli oceani con la «globalizzazione», le culture locali con l'omologazione dei consumi e delle unioni politiche, le etnie con l'eugenetica del «meticciato», la biologia con le teorie «gender», i rapporti interpersonali con i social network, il bisogno di sicurezza e di identità con l'etica della precarietà e della migrazione perenne, la memoria di sé con il «cloud», gli averi personali con il «cashless», la storia con l'iconoclastia ecc. Muovendo insomma guerra a tutto ciò che, tracciando un limite, traccia il perimetro della nostra umanità, e quindi all'umanità stessa.

Oggi tocca – e non è certo poco – alla democrazia, ma la posta in gioco potrebbe essere ancora più alta.

Less then


Un pezzo piacevole con una ridda di supercazzole a supporto.

30/10/2017

Due collaboratori di Trump si consegnano all’Fbi

L’establishment capitalistico può perdere le elezioni, ma non la dotazione di armamenti che gli permette di ridimensionare, ribaltare, annientare le “perturbazioni” occasionali.

E’ uno dei primi pensieri nel leggere che, negli Stati Uniti, due dei principali collaboratori di Donald Trump nella campagna elettorale si sono presentati stamattina nella sede dell’Fbi di Washington, ovviamente accompagnati da uno stuolo di avvocati famosi.

Paul Manafort e Rick Gates, ex consiglieri di Donald Trump, non avevano più alternative, se non volevano rischiare l’arresto e il tracollo immediato dei propri affari (sono anche soci).

Devono rispondere di ben 12 capi di imputazione – dall’evasione fiscale al riciclaggio, alla violazione delle regole che disciplinano la professione di lobbista – che apparentemente non riguardano alcun episodio del cosiddetto Russiagate, ovvero l’aver intrattenuto rapporti con l’ambasciatore russo negli Usa (o addirittura con il ministro degli esteri Lavrov) per ottenere il famoso “aiutino” hacker sulle mail di Hillary Clinton.

Il primo capo di imputazione è comunque «cospirazione contro gli Stati Uniti», che però viene interpretato in modo molto yankee (l’evasione fiscale, laggiù, è un crimine piuttosto serio contro lo Stato, come ha sperimentato a suo tempo anche Al Capone).

Manafort è un noto lobbysta e avvocato di Washington, e per i costumi statunitensi non c’è un “conflitto di interessi” nel passare nel giro di pochi giorni da una posizione privata con agganci nell’amministrazione pubblica (questo è un lobbysta) a una posizione pubblica e viceversa (ricordiamo i salti continui di Dick Cheney e Donald Rumsfeld da società a posti da ministro con le presidenze Bush, padre e figlio).

Manafort e Gates hanno lasciato il comitato elettorale di Trump prima che questi vincesse le elezioni, ma lo avevano fatto proprio a causa dei loro comportamenti “chiacchierati” e la frequentazione con personale diplomatico russo. Sono infatti i primi a essere stati incriminati dal procuratore speciale Robert Mueller. Al centro dell’indagine ci sarebbero le dichiarazioni fiscali di Manafort, che avrebbe mantenuto collaborazioni d’affari e consulenze con oligarchi ucraini vicini a Yanukovich, poi travolto dai fatti di Majdan, in buona parte finanziati e sostenuti da un arco di soggetti che va da George Soros alla stessa Hillary Clinton.

E’ chiaro che l’Fbi e il procuratore Mueller ritengono di poter costringere i due imputati a uno “scambio” (anche questo tipico nella giurisdizione Usa) tra confessioni su fatti riguardanti “altra causa” (ovvero i rapporti del cerchio magico di Trump con i russi) e l’impunità per reati come quelli ora contestati.

Questa non è l’unica fonte di sofferenza per Trump, perché un altro dei suoi collaboratori – George Papadopolous, un semplice volontario della campagna elettorale – si è dichiarato colpevole per aver reso false dichiarazioni all’Fbi nell’ambito delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller.

Al vertice degli Stati Uniti è arrivato quasi per sbaglio un “cavallo pazzo”, un vecchio palazzinaro molestatore e senza scrupoli. Ma il sistema sembra decisamente in grado di metabolizzarlo ed espellerlo prima ancora che finisca il suo primo mandato...

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Puigdemont si rifugia in Belgio. Podemos commissaria Podem

Il President della Generalitat, destituito venerdì dal governo centrale spagnolo, si trova già in Belgio insieme alla maggior parte dei suoi ministri, ufficialmente per incontrare alcuni esponenti nazionalisti fiamminghi. Puigdemont avrebbe preso la decisione di rifugiarsi in Belgio su consiglio di una equipe giuridica che gli raccomanda di rimanere a Bruxelles.

L’eventuale emissione di un ordine di cattura europeo da parte della magistratura e del governo di Madrid obbligherebbero il governo e la magistratura belga a vagliare l’opportunità della concessione dell’asilo politico al President e ai suoi consellers. Nei giorni scorsi il ministro belga all’Immigrazione, Theo Francken, aveva annunciato la disponibilità a concedere l’asilo politico a Puigdemont, provocando la smentita da parte del primo ministro Charles Michel.

Proprio questa mattina il procuratore generale spagnolo José Manuel Maza ha chiesto l’incriminazione per il presidente catalano destituito con l’accusa di ribellione, sedizione e malversazione. Denunciati anche i ministri del suo governo per aver permesso la dichiarazione d’indipendenza, inclusa l’ex presidente della Camera Carme Forcadell e i membri dell’ufficio di Presidenza, anche loro sono sotto accusa per sedizione e ribellione. In tutto nel mirino dei magistrati di Madrid sono finiti 14 membri del Govern – compreso il Ministro dell’Impresa Vila che si era dimesso alla vigilia della dichiarazione d’indipendenza non essendo d’accordo – e sei parlamentari. Qualora non si dovessero presentare dinanzi ai giudici, la misura che le autorità di polizia spagnole sono autorizzate a prendere nei confronti dei vertici catalani incriminati è la “detenzione immediata”, e in caso di condanna rischiano dai 15 ai 30 anni di reclusione. Il magistrato di turno dell’Audiencia Nacional (il vecchio Tribunal de Orden Publico di franchista memoria) deciderà nei prossimi giorni se accogliere o meno la richiesta del Procuratore che ha anche chiesto di sequestrare, in via cautelare, beni pari a un valore di 6,2 milioni di euro.

Intanto in queste ore tutti i riflettori sono puntati su Podemos. La formazione, che mantiene sulla rivendicazione nazionale catalana una posizione ambigua e di fatto ininfluente – riconosce teoricamente il diritto all’autodeterminazione del popolo catalano, a patto però che quest’ultimo non voglia esercitarlo veramente – rischia seriamente di essere dinamitata dall’evoluzione degli eventi, incapace com’è di prendere una posizione realmente spendibile nel conflitto scatenato dalla proclamazione d’indipendenza da parte del Parlament di Barcellona e dall’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione da parte del governo Rajoy.

Già nei mesi scorsi era apparso chiaro che alla posizione anti-indipendentista della direzione statale di Podemos non corrispondeva l’orientamento di una delle sue due derivazioni catalane. Podem aveva già rifiutato di sciogliersi, come ordinato da Pablo Iglesias, all’interno di Catalunya En Comù, la nuova formazione formata dagli altri referenti catalani di Podemos – Colau e Domenech – e rispetto alla convocazione del referendum indipendentista del 1 ottobre aveva manifestato un atteggiamento critico ma collaborativo con il fronte catalanista, contrariando lo stato maggiore statale del partito.

A scatenare l’ennesima crisi era stato nei giorni scorsi Albano Dante Fachin, segretario di Podem, che aveva dichiarato di considerare inopportuno presentare liste della formazione alle elezioni regionali del 21 dicembre, convocate d’imperio dal governo spagnolo dopo la destituzione del governo e lo scioglimento del parlamento catalano in seguito al commissariamento della Generalitat de Catalunya da parte di Madrid. “Sarebbe un tradimento dello spirito del primo ottobre” e “Non riesco a pensare alle elezioni del 21 dicembre come ad elezioni normali nel momento in cui Sanchez e Cuixart sono ancora in carcere” aveva chiarito Dante Fachin, aggiungendo: “Candidarsi significherebbe accettare in pieno l’articolo 155. Dobbiamo essere all’altezza dell’unità popolare del primo ottobre”. Prima ancora correvano voci che tre deputati di Podem, integrati nel gruppo ‘Catalunya Si Que es Pot’ insieme agli eletti dei partiti di centro-sinistra Catalunya En Comù, ICV, EUiA ed Equo, fossero disponibili a votare venerdì scorso a favore dell’indipendenza. Decisione poi rientrata ma che ha chiarito la distanza siderale tra questa formazione, sempre più vicina alla Cup, e la casa madre spagnola.

Il crescente distanziamento di Podem da Podemos ha irritato Iglesias e compagni a tal punto che ieri sera il partito spagnolo ha annunciato la decisione di commissariare la formazione catalana. Una mossa, quella del ‘Consiglio Cittadino Statale di Podemos’, che ha scatenato le critiche di chi fa notare come Podemos si stia comportando con i suoi alleati catalani esattamente come lo Stato Spagnolo si comporta con la Repubblica appena proclamata a Barcellona, utilizzando la forza invece della ragione, incapace evidentemente di convincere i suoi della giustezza del proprio punto di vista.

La risoluzione della direzione di Podemos, con un taglio esclusivamente disciplinare e sanzionatorio, imputa ai cugini catalani ben sei “mancanze gravi” tali da giustificare un commissariamento che potrebbe produrre effetti contrari a quelli sperati, convincendo i militanti catalani a troncare ogni relazione con la casa madre. Afferma innanzitutto il documento approvato ieri: “la direzione di Podem non ha informato la direzione di Podemos su come avrebbero votato (sulla dichiarazione di indipendenza, ndr) i suoi deputati (...) La mancanza di informazione e il comportamento dei nostri deputati hanno generato una situazione di caos e hanno danneggiato il nostro prestigio politico. Questo in contrasto con il comportamento del capogruppo parlamentare di Catalunya Sí Que es Pot e del coordinatore di Catalunya en Comù che invece ci hanno informato per tempo”.

Inoltre, la risoluzione di Podemos segnala: Tre dei quattro deputati di Podem non hanno votato contro una delle risoluzioni che parlava esplicitamente della Costituzione di una nuova Repubblica Catalana (…) Una delle nostre deputate non ha votato contro la Dichiarazione di Indipendenza e ha salutato pubblicamente la “nuova repubblica catalana”.

Inoltre la direzione federale di Podemos denuncia che “la corrente Anticapitalistas, maggioritaria nel Consiglio Cittadino della Catalogna, ha riconosciuto mediante un comunicato pubblica ripreso da tutta la stampa, la “nuova repubblica catalana”, provocando addirittura la presa di distanza da parte di alcune figure rilevanti di questa corrente”.

La quinta ‘mancanza’ sarebbe costituita dalle dichiarazioni di Albano Dante Fachin “nelle quali si segnalava che la partecipazione alle elezioni del prossimo 21 dicembre sarebbe stata una contraddizione e manifestava la sua intenzione di formare un blocco con altre forze politiche (della sinistra indipendentista ndr)”.

Sulla base del fatto che la “direzione di Catalunya en Comù ha già deciso che non si presenterà alle urne insieme ad alcuna forza politica indipendentista” il Consiglio Cittadino Statale di Podemos ha deciso di commissariare la formazione catalana, di sospendere il suo segretario Dante Fachin e di organizzare una consultazione tra i suoi militanti sul da farsi. Il quesito su cui dovranno esprimersi i militanti sarà il seguente: “Sostieni che Podem si presenti alle elezioni in Catalogna in coalizione con Catalunya en Comù e le forze politiche sorelle che non appoggiano né la dichiarazione di indipendenza né l’applicazione dell’articolo 155?”. Un quesito secco, senza alternative.

Per chiarire il clima fratricida che si respira in Catalogna basta citare quanto ha affermato la deputata catalana di Podemos Carolina Bescansa, secondo la quale il suo partito non appoggia l’indipendenza “né unilaterale né bilaterale” della Catalogna, e ha invitato chi invece è d’accordo con la separazione a “cercarsi un altro partito”.

Intanto, come accennato, non solo Podemos si spacca sulla faglia Spagna/Catalogna, ma anche la corrente di sinistra del partito, Anticapitalistas, ha i suoi problemi. Oggi infatti la coordinatrice di Podemos in Andalucia, Teresa Rodriguez, e il sindaco di Cadiz Josè Maria Gonzales, come lei esponente della corrente anticapitalista del movimento viola, hanno preso le distanze dal comunicato emesso ieri dalla sinistra interna.

Anticapitalistas ha affermato che la nuova Repubblica catalana apre un processo costituente “che rompe con il regime del ‘78” e pone questioni e sfide quali integrare i non indipendentisti e soddisfare questioni che vadano al di là di quella nazionale. Nel documento, Anticapitalistas non solo riconosce la Repubblica Catalana ma di fatto aderisce al blocco indipendentista e fa appello a “rigettare l’applicazione dell’articolo 155, animando il partito alla difesa democratica, pacifica e disobbediente della volontà popolare catalana e del suo diritto a decidere”. Per la corrente di sinistra di Podemos, in Catalogna c’è in gioco la “possibilità di costruire una società alternativa alle elites politiche ed economiche” e a conquistare nuovi diritti sociali e democratici per le classi popolari. Ma a Madrid non sono d’accordo...

Oggi, in diverse dichiarazioni, sulle due grane è intervenuto il fondatore, segretario e capo carismatico di Podemos, Pablo Iglesias. Riferendosi ai ‘ribelli’ di Podem ha detto, nel corso di un talk show dell’emittente la Sexta, che “Se ci sono compagni che sono politicamente più vicini a Cup o Erc, penso che dovrebbero percorrere una propria strada.

Stamattina, in occasione della riunione di Rumbo 2020, una sorta di ‘governo ombra’ di Podemos, Iglesias ha criticato fortemente la dichiarazione di Anticapitalistas, sentenziando che “Questa affermazione è politicamente fuori da Podemos” e che “i compagni che ci si riconoscono sono politicamente fuori da Podemos”.

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Libano - Sanzioni USA contro Hezbollah

di Michele Giorgio

Gli Stati Uniti si accaniscono contro Hezbollah per colpire l’Iran, il loro vero obiettivo. Ma le sanzioni finanziarie Usa contro il movimento sciita alleato di Tehran, volute con forza dal senatore Edward Royce e approvate nei giorni scorsi, rischiano di subirle tutti i libanesi. Una delegazione del Congresso Usa è a Beirut per discutere proprio del loro impatto sull’economia del Paese dei Cedri. Il governo di Saad Hariri, del quale fa parte anche Hezbollah, teme riflessi negativi sul sistema bancario del Libano, una delle colonne portanti della disastrata economia nazionale. Appena qualche giorno fa il Parlamento libanese aveva approvato la legge di bilancio per la prima volta in 12 anni, a conferma della fragilità politica ed economica del piccolo Paese arabo, strangolato da un rapporto debito pubblico/Pil del 148% e un deficit fiscale di circa 5 miliardi di dollari. A inizio mese Hariri ha anche alzato le tasse e l’Iva per poter aumentare i salari, fermi da anni, ai dipendenti pubblici. In questa situazione le sanzioni americane contro Hezbollah potrebbero affondare tutto il Libano.

Il pericolo più immediato comunque resta una nuova guerra con Israele. Agli avvertimenti minacciosi lanciati dal governo israeliano ad Hezbollah, che risponde con la stessa moneta, si aggiungono quelli, sempre più frequenti di Washington. Gli Usa sono tornati anche a prendere di mira il presidente siriano Bashar Assad. Il Segretario di stato Tillerson un paio di giorni fa ha rilanciato lo slogan secondo il quale «nel futuro della Siria non c’è posto per Assad». Contribuiscono a creare le condizioni per un nuovo conflitto nella regione, gli “scoop” su presunte attività di Hezbollah o a sostegno del movimento sciita in giro per il mondo. Uno degli ultimi riguarda l’Africa.

Secondo gli investigatori della Enough Project, una Ong finanziata dall’attore George Clooney e da un sedicente attivista per i diritti umani, John Prendergast, una banca della Repubblica democratica del Congo avrebbe trasferito fondi a imprese e persone legate a Hezbollah. Si tratta della Bgfi-Bank Rdc, diretta da Francis Selemani Mtwale, il fratello adottivo del presidente Joseph Kabila.

Nel rapporto dal titolo eloquente “Il tesoro dei terroristi” si parla di cinque trasferimenti di denaro operati dalla Bgfi-Bank, risalenti al 2001 e diretti a imprese legate a Kassim Tajideen, uomo d’affari libanese ritenuto vicino a Hezbollah. La “Ong” chiede a Stati Uniti e Unione europea sanzioni nei confronti dei dirigenti della banca congolese che ha già smentito le accuse. Il gruppo diretto da Ahmed Tadijeen è anche accusato di aver comprato armi e munizioni per conto del presidente Kabila.

Immediata la reazione del governo congolese. «Tutti i giorni vengono diffusi inchieste e rapporti di questo tipo. Ci siamo un po’ stancati» ha dichiarato Lambert Mendè, portavoce dell’esecutivo, sottolineando che «la banca non e’ diretta dal presidente ma dal suo fratello, che non gode di alcuna immunità».

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60 anni fa la morte di Di Vittorio. USB a Foggia con un convegno sulle lotte dei braccianti


Venerdì 3 novembre ricorre il sessantesimo anniversario della morte di Giuseppe Di Vittorio, bracciante, comunista, deputato, fondatore della Cgl unitaria, presidente della Federazione Sindacale Mondiale. L’Unione Sindacale di Base, che nella Fsm rappresenta l’Italia, lo ricorderà sabato 4 novembre nella sua terra con un convegno a Foggia sulle lotte bracciantili.

Quelle lotte alle quali Di Vittorio prese parte fin da giovanissimo, da quando cioè all’età di sette anni per mantenere la famiglia fu costretto a prendere nei campi il posto del padre, morto per un incidente sul lavoro. A 12 anni il piccolo Giuseppe vide i suoi compagni di lavoro cadere sotto il fuoco della polizia che voleva reprimere lo sciopero dei lavoratori della terra proclamato nella sua Cerignola. Nel cuore cioè di quella Puglia che ancora oggi vede i braccianti impegnati quotidianamente nella lotta per i diritti dei lavoratori, che si sovrappongono ai diritti umani troppo spesso negati a una categoria fatta esclusivamente di migranti.

Da quella strage nel 1904 Di Vittorio intraprese un percorso che ancora giovanissimo lo vide nel ruolo di leader sindacale prima pugliese, poi nazionale e internazionale, ma soprattutto di militante e attivista che si esponeva in prima persona e in prima fila, ci fosse da combattere in Spagna al fianco dei repubblicani o in Italia contro il capitale e il latifondo. Se oggi fosse vivo, se ne può essere certi, avrebbe la pelle nera.

A ripercorrere la vita e le lotte di Di Vittorio sarà il convegno dal titolo “Lotte bracciantili di ieri e di oggi nelle campagne del Foggiano”, che si terrà sabato 4 novembre alle 16 nella Sala Rosa del Palazzetto dell’Arte, in via Galliani 1 a Foggia. Interverranno George Mavrikos, segretario generale della Federazione Sindacale Mondiale; Aboubakar Soumahoro, del Coordinamento Lavoratori Agricoli USB; Pierpaolo Leonardi, dell’Esecutivo Nazionale USB; Soumaila Sambare, del Coordinamento Lavoratori Agricoli; Giorgio Cremaschi di Eurostop; Antonio Di Gemma, di USB Foggia.

Il convegno, che è aperto a tutte le associazioni, introdurrà anche lo sciopero generale nazionale proclamato dall’Unione Sindacale di Base per il 10 novembre e la manifestazione nazionale Eurostop che si terrà l’11 novembre a Roma.

Unione Sindacale di Base
Coordinamento Lavoratori Agricoli USB
Coordinamento provinciale USB Foggia
Confederazione regionale USB Puglia


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L’11 novembre portiamo nelle strade la verità



Appello Unitario

I governanti nascondono le loro politiche di austerità e guerra dietro una montagna di false notizie. rompiamo la loro bolla di bugie!

L’11 novembre portiamo nelle strade la verità

Mentre i governanti annunciano trionfanti la ripresa, dilagano i licenziamenti, la precarietà, lo sfruttamento e la povertà.

Mentre i governanti ci dicono che non ci sono soldi per le pensioni, la sanità, la scuola, i contratti di lavoro; alle banche, alle multinazionali, ai ricchi vengono donati miliardi e miliardi di danaro pubblico.

Mentre i governanti parlano di diritti e libertà, i principali diritti sociali affermati dalla nostra Costituzione vengono stracciati.

Mentre i governanti parlano di democrazia, chiunque contesti o non accetti il loro ordine viene colpito da leggi e misure antisciopero e di polizia sempre più autoritarie.

Mentre parlano di accoglienza i governanti finanziano schiavisti e tagliagole perché fermino i migranti. E con politiche discriminanti e sicuritarie alimentano guerre tra i poveri, razzismo e xenofobia.

Mentre parlano di pace, i governanti aumentano le spese e gli interventi militari e installano nel nostro paese terribili ordigni nucleari.

Il 10 novembre le lavoratici ed i lavoratori sciopereranno per il posto di lavoro, i contratti, i diritti, lo stato sociale. Siamo con loro e l’11 novembre manifesteremo a Roma per dire NO alle ingiustizie e alle bugie che le nascondono. Per:

– L’abolizione completa delle 4 legislazioni infami: Jobsact, legge Fornero, Buona scuola, leggi di polizia Minniti Orlando e Bossi Fini

– Per il lavoro dignitoso con contratti veri, contro le paghe di fame, il supersfruttamento, la schiavitù. Per mettere fuori legge ogni forma di lavoro gratuito. Lavoro e reddito per tutte e tutti

– Per l’intervento pubblico nella economia e le nazionalizzazioni. Per il rifiuto dei vincoli di bilancio imposti dalla Unione Europea, per il rigetto del Fiscal Compact. Per la disdetta del trattato CETA e l’abbandono definitivo del TTIP

– Per il rilancio delle stato sociale, della sanità, della scuola, delle pensioni pubbliche,Per dare la casa a chi non ce l’ha. Per la fine delle Grandi Opere devastanti e il risanamento dell’ambiente e del territorio.

– Per il taglio immediato delle spese militari, il ritiro delle truppe all’estero e il rifiuto delle armi nucleari e degli impegni NATO.

– Per la solidarietà e l’eguaglianza contro la violenza di sesso, il razzismo, l’oppressione di classe.

Per applicare quei diritti costituzionali che un anno fa abbiamo difeso e che il potere economico e politico sta distruggendo.

Via il governo delle banche della precarietà dei manganelli !

11 novembre tutte e tutti in corteo a Roma,

ore 14 Piazza Vittorio

Coordinamento 11/11

Prime organizzazioni firmatarie

Piattaforma Sociale Eurostop

Unione Sindacale di Base

Collettivo Militant Roma

Genova City Strike

Fronte Popolare

Casamatta Napoli

Partito Comunista Italiano

FGCI

Rete dei Comunisti

Partito Rifondazione Comunista

Sinistra Anticapitalista,

Carovana delle periferie Roma

Noi Restiamo

Attuare la Costituzione

Azione Civile (Ingroia)

Economia per i cittadini EPIC

Risorgimento Socialista

La Comune di Bagnaia Siena

Rete no War Roma

Crocevia

Movimento NO TAV,

Centro Sociale 28 Maggio Brescia,

Collettivo Putilov Firenze

MovES, Movimento Essere Sinistra

Contropiano

Circolo agorà di Pisa

Collettivo Comunista (marxista-leninista) di Nuoro

Forum Diritti Lavoro

Collettivo Politico Porco Rosso (Siena),

“Siamo TUTTI comunali” Collettivo lavoratori capitolini

Seguirà nella prossima settimana l’appello con firme individuali

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Kurdistan nel limbo, Barzani rinuncia alla presidenza


Proseguirà – così ha scritto in una lettera inviata al Parlamento regionale – a rincorrere, assieme agli amati peshmerga, il diritto di ottenere una nazione kurda, ma per ora Masoud Barzani rinuncia a rivestire l’incarico di presidente del Krg che scade il 1° novembre. Una decisione controversa ma realistica, seguìta alla fase del successo del referendum da lui fortemente voluto e vinto il mese scorso con un consenso del 93%, cui è seguita la minacciosa reazione del governo iracheno. E la minaccia s’è concretizzata in quel movimento di truppe e carri armati giunti sin nel cuore di Kirkuk. Così capitale del petrolio, ripulita dall’Isis a opera dei guerriglieri kurdi, veniva occupata dalle truppe spedite da Baghdad che l’hanno riconquistata senza combattere. I peshmerga, per non cadere in un conflitto fratricida, si ritiravano anche in virtù delle grandi manovre diplomatiche compiute da potenze locali (Arabia Saudita, Turchia e pure Iran) schierate col governo di Abadi. Visto l’abbandono statunitense al suo piano di consolidare il ruolo autonomo della regione del Kurdistan tramite una ratifica dell’indipendenza, Barzani aveva fatto ripiegare le sue milizie. Le elezioni previste per l’inizio di novembre sono state posticipate di otto mesi e ora c’è bisogno di riempire il vuoto d’incarico e di potere.

La richiesta viene da Barzani in persona, l’ha girata al Parlamento del Kurdistan ben conoscendo le difficoltà che essa suscita, in una struttura rimasta bloccata per due anni. Lui, navigato e astuto politico, resta alla guida del Partito Democratico del Kurdistan, forza maggioritaria nei confronti dell’Unione patriottica (che il 3 Ottobre scorso ha perso il vecchio leader Talabani) e del Gorran, formazione d’ispirazione nazional-liberale che ha fortemente contestato il clanismo e la corruzione presenti nella politica kurdo-irachena. Si vocifera che nelle manovre di Barzani senior alberghi il piano di aprire la strada per incarichi superiori a suo nipote, Nechirvan, il cacciatore in doppiopetto, già investito del ruolo di premier del Krg. Il nome in kurdo ha questo significato, mentre la descrizione dell’eleganza riguarda la funzione dei contatti diplomatici finora svolti, assai attivi per perorare la causa della regione autonoma. Tale nepotismo è proprio ciò che l’opposizione del Gorran vorrebbe evitare offrendo segnali di discontinuità alla gestione familistica della rappresentanza e del potere. Ma le ramificazioni tribali dei Barzani sembrano avere gioco facile nei territori di Duhok, Erbil, Sulaimaniya, Halabja, le aree del Krg che hanno offerto un riscontro anche nell’urna alle posizioni del Pdk. Ma è il corto circuito creato sulla scena geopolitica a caratterizzare una situazione che rischia di restare congelata per un periodo indefinito.

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Difendere la Repubblica Catalana, rafforzare la rottura

Con un voto storico, il parlamento di Barcellona ha proclamato la Repubblica Catalana, sconfessando quei settori dello stesso movimento sovranista che fino a ieri avevano tentato di azzerare un lungo e articolato processo popolare.

La reazione politica e popolare all’annuncio di ieri di Puigdemont – scioglimento del Parlament ed elezioni, di fatto un ritorno alla casella d’inizio – è stata immediata e forte, evitando la svendita di un enorme patrimonio di lotta, di coscienza e di organizzazione accumulato negli ultimi anni. Un patrimonio che, di fronte a uno scenario ‘greco’, di abbandono del conflitto in nome del compromesso al ribasso e delle compatibilità di sistema, avrebbe rischiato di essere spazzato via, preda della disillusione e del reflusso.

Come era avvenuto ad Atene con il voltafaccia del governo Tsipras nei confronti di un popolo greco che aveva compattamente risposto ‘oxi’ ai diktat della Troika, il movimento popolare catalano ha rischiato di trovarsi la strada sbarrata dalla propria classe dirigente prima ancora che dall’avversario.

Al conflitto, alla mobilitazione popolare e alla disobbedienza organizzata di massa che potrebbero mettere in dubbio non solo lo status quo nazionale ma anche quello sociale ed economico, intaccando così i privilegi di classe delle elites catalane, la classe dirigente catalanista preferirebbe sicuramente l’avvio di un nuovo negoziato, il ritorno ad un livello accettabile di vertenzialità con lo Stato Centrale tutto interno alle istituzioni e alle stanze di palazzo. Un modo per marginalizzare il protagonismo di quel movimento popolare e dei lavoratori che, seppur con gradi di coscienza diversi al suo interno, ha dato una grande dimostrazione di forza prima col referendum del 1 ottobre e poi con lo sciopero generale del 3 ottobre.

Sul tentativo di Puigdemont hanno influito sicuramente la “mediazione” e le pressioni di personaggi oscuri come il basco Urkullu – rappresentante della borghesia autonomista basca – e il catalano Mas (ex leader della Generalitat feroce nemico degli interessi popolari ed esecutore del liberismo e della repressione ordinate da Bruxelles e Madrid ai tempi della cura da cavallo della Troika) così come dei dirigenti catalani del Partito Socialista e di Podemos. E sicuramente non sono mancate le pressioni da parte dell’Unione Europea e delle lobby economiche interessate alla stabilità e allo status quo.

Ma il blitz di Puigdemont ha sortito l’effetto contrario a quello sperato, rafforzando le componenti coerentemente indipendentiste e di classe del movimento catalano, mentre sul fronte opposto le istituzioni dello Stato Spagnolo chiarivano che nessun passo indietro del Govern, per quanto ampio, avrebbe evitato l’applicazione dell’articolo 155 e il golpe istituzionale in Catalogna.

Non sembra proprio che il ‘regime del '78’ che regge lo Stato Spagnolo dalla morte di Franco sia disponibile a fornire una sponda ai settori meno coraggiosi dello schieramento indipendentista catalano. Al contrario, le destre politiche ed economiche spagnole hanno avviato una vera e propria crociata contro il nemico interno e sembrano intenzionate a portarla fino in fondo, umiliando e annichilendo gli avversari, a maggior ragione quando si mostrano deboli.

A molti può sembrare paradossale che ai passi indietro dell’autonomismo catalano il nazionalismo spagnolo risponda con un aumento della repressione, invece che con la trattativa. Ma l’atteggiamento sciovinista e intransigente di Madrid non è affatto contraddittorio, visto il carattere reazionario del regime frutto dell’autoriforma della dittatura franchista alla fine degli anni ’70.

Ora Madrid scatenerà la repressione in Catalogna e nel resto dello stato in una forma ancora più massiccia e indiscriminata che nelle scorse settimane. Lo Stato, forte del sostegno dell’Unione Europea e dei principali governi, utilizzerà tutti i mezzi a sua disposizione, compresi quei fascisti che il risveglio dello sciovinismo spagnolo e la tolleranza degli apparati di sicurezza ha riportato nelle strade.

Per difendersi e affermarsi, al di là della formale proclamazione parlamentare, la Repubblica Catalana dovrà appoggiarsi all’organizzazione, alla coscienza e alla resistenza popolare ben oltre gli importanti ma spesso simbolici atti di disobbedienza civile degli ultimi mesi.

E’ prevedibile che Madrid reagisca con un’impennata degli arresti, delle denunce, della censura.
Per resistere e costruirsi come elemento di rottura progressista contro lo Stato Spagnolo e la gabbia imposta dall’Unione Europea, la Repubblica e le forze della sinistra di classe catalane avranno bisogno di tutta la solidarietà possibile da parte dei movimenti antagonisti europei.

A Barcellona nei prossimi giorni si gioca una partita che riguarda il futuro di tutto il continente, e i comunisti non possono certo rimanere alla finestra perché paralizzati da pregiudizi e formulazioni ideologiche astratte.

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Solidarietà con il “popolo degli ulivi”: migliaia di firme


Più di cinquemila cittadini e cittadine, giuristi, accademici e personalità della cultura, hanno firmato l’appello di solidarietà con i 46 dimostranti condotti a processo per le proteste contro il ‘piano Silletti’.

Due anni fa le popolazioni di alcuni comuni salentini si opposero alle politiche di eradicazione degli ulivi che prevedevano la creazione di un deserto di tre ettari attorno ad ogni pianta ritenuta infetta da xylella. Si opposero all’irrorazione massiccia di pesticidi, fra cui interferenti endocrini, neurotossici e neonicotinoidi. Si opposero alla distruzione di alberi centenari e millenari, un patrimonio storico e naturale impossibile da ricostruire.

Per farsi ascoltare da istituzioni sorde, alcune centinaia di attivisti bloccarono nel novembre 2015 il traffico ferroviario presso la stazione di San Pietro Vernotico.

Il prossimo 6 novembre, 46 di loro verranno processati dal tribunale di Brindisi. Ma non saranno soli.

Sono forti, infatti, della solidarietà di più di 5000 cittadini e cittadine che hanno aderito all’appello promosso dalle associazioni ‘Bianca Guidetti Serra’ e ‘Spazi Popolari’ , riconoscendo l’alto valore sociale della mobilitazione contro gli espianti.

Fra loro vi sono giuristi e magistrati come Paolo Maddalena, Luigi Ferrajoli, Livio Pepino, Antonio Ingroia, attivisti antimafia quali Salvatore Borsellino, personalità come Aldo Giannulli (consulente della Commissione Stragi).

Hanno aderito all’appello biologi, agronomi, entomologi, chimici, genetisti, oltre centrotrenta docenti e ricercatori in discipline scientifiche e umanistiche presso università italiane e straniere e presso centri di ricerca quali il CERN, il CNR e l’ENEA, assieme a parlamentari, sindaci, giornalisti, rappresentanti dell’associazionismo, dei sindacati e della società civile, intere redazioni di riviste.

Imponente la risposta del mondo della cultura, con l’adesione di più di duecentocinquanta fra scrittori, attori registi, scenografi, fotografi, pittori, scultori, musicisti.

Fra i più conosciuti: Vauro, Erri De Luca, Valerio Evangelisti, Stefano Benni, Pino Cacucci, Pino Aprile, Ascanio Celestini, Ulderico Pesce, Giorgio Diritti, Patrizio Fariselli (AREA), Fabio Testoni (Skiantos), Enza Pagliara, i componenti del Canzoniere Grecanico Salentino e di Officina Zoè.

Un abbraccio solidale che non si fermerà alla prima udienza.

Associazione Bianca Guidetti Serra (BO)

Associazione Spazi Popolari (Sannicola – Le)

In allegato il testo dell’appello e le firme.

Sottoscrittori appello di solidarietà







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Il ritorno della crescita, un problema più serio del previsto

Quale che sia la portata reale dell’attuale crescita economica, c’è un dato che inciderà notevolmente sugli orizzonti politici d’ogni ordine e grado: la crisi è alle spalle. Che questa affermazione, strombazzata ovunque, non corrisponda a verità, è (per il momento) un dato di fatto materiale con cui continuerà a scontrarsi una certa rappresentazione della realtà. Nondimeno, non va sottovalutata la forza retorica del bombardamento mediatico in cui siamo immersi. Nel racconto pubblico, sia esso proveniente dai giornali, tg, social network, cultura mainstream, eccetera, siamo fuori dalla crisi e dentro un nuovo ciclo d’espansione economica. Per dire, un’intera pagina del Corriere della Sera di ieri – domenica 29 ottobre – ci illustrava la «sorpresa Italia», nel senso di una crescita più alta del previsto, addirittura più alta di Francia e Germania. Notizia, questa, che seguiva di un giorno il rialzo del rating operato da Standard&Poor’s, ultima di una seria di notizie strabilianti sulle nostre prestazioni economiche. La realtà, come detto, è ancora diversa. Sul piano dei rapporti politici, però, questa crescita mediatizzata contribuirà – già è in atto un riposizionamento generale – a cambiare i discorsi della politica sedimentati in questo decennio. In primo luogo, l’Unione europea.


Per un decennio la critica alla Ue si è rafforzata politicamente dalla crisi economica in corso, legando i due aspetti: la crisi è colpa (anche) del progetto europeista. Ma in presenza di “crescita”, come si riuscirà a veicolare una critica della Ue senza l’ausilio indispensabile del peggioramento dell’economia? Da questo punto di vista M5S e Lega nord hanno già avviato un proprio riposizionamento che dovrebbe illuminare riguardo il prossimo futuro: la Ue è letteralmente scomparsa dai radar della polemica politica. Stiamo parlando di organizzazioni politiche capaci di fiutare l’aria che tira, almeno elettoralmente (anche perché hanno i soldi per studiarla). Il declino della polemica antieuropeista risponde a diversi fattori, ma è innegabile un certo legame con il ritorno al segno più davanti al Pil. Se il contesto europeista è capace di generare una crescita economica, meno comprensibile potrebbe diventare assumere la Ue come protagonista dell’impoverimento generalizzato. E infatti la Ue è scomparsa dai giornali, se non per lodarne le capacità d’adeguamento o per rimbrottarla sulla questione migranti. La lotta alla Ue rimane però centrale nell’individuazione del centro della governance ordoliberale. Come portarla avanti è il cuore della questione, che non può non fare i conti col cambiamento di scenario economico.

In secondo luogo, la crescita economica mediatizzata oltre l’eccesso produrrà – già produce – un cortocircuito nel cosiddetto “populismo”. Anch’esso infatti vive(va?) di luce riflessa: peggiore la situazione economica, migliori le chance politiche delle forze populiste. Una dinamica consueta nella politica, quella per cui le forze “anti-sistema” prevalgono nei momenti in cui il “sistema” è, o appare, meno capace di migliorare il tenore di vita generale della popolazione. Ma se il sistema si va rafforzando, quale l’alternativa politica all’alternativa rappresentata in questi anni dal populismo? Già oggi gli umori elettorali, almeno quelli sondati dagli istituti di ricerca, segnano un chiaro ribaltamento dello schema ultradecennale: se in questo decennio chiunque presiedesse il governo andava incontro all’inevitabile flessione elettorale, oggi Gentiloni è il leader politico più apprezzato, proprio perché guida il governo della crescita economica. E’ un fatto, questo, profondamente innovativo, addirittura stravolgente: in Italia chi governa perde voti, e invece oggi chi governa li guadagna. Certo il Pd è inflessione costante, ma la forza di Gentiloni deriva anche dall’essere considerato un outsider del Partito democratico, quindi non assimilabile ai suoi vertici e alle loro condotte politiche (Renzi in primis). Stiamo parlando – è bene ricordarlo – di una rappresentazione della realtà, non della realtà, ma ignorare o sottovalutare l’importanza di questa rappresentazione ci impedirebbe di cogliere i segnali di fondo di cui sopra.


Il terzo fatto, in simbiosi con gli altri due appena ricordati, è il rafforzamento del sistema politico nel suo complesso. Questo potrebbe trovare declinazione in vari aspetti: l’aumento dell’elettorato/diminuzione dell’astensionismo; maggiore consenso rispetto alle strategie di crescita e di governo liberiste, valutate non più fautrici di povertà ma, al contrario, generatrici di benessere; conseguentemente, diminuzione del consenso attorno a proposte politiche di rottura, in qualsiasi forma e direzione questa possa presentarsi.

Lo scenario appena descritto è soltanto ipotizzato e, in ogni caso, tendenziale. Non verrà meno dal giorno alla notte uno schema dei rapporti politici che si è imposto in questo decennio abbondante. Oltretutto, non è neanche detto che la rappresentazione della realtà sopravanzi stabilmente la realtà stessa, che è ancora caratterizzata da una mancata redistribuzione dei redditi, dunque da una povertà relativa pronunciata e trasversale. In altre parole, finché la “crescita” sarà fondata su export, precariato e disoccupazione di massa, difficilmente il sistema riuscirà ad agglutinare quel consenso che inevitabilmente porta con sé ogni periodo di vera crescita economica (ma la Germania, caratterizzata da un sistema produttivo fondato su export e precariato diffuso, smentisce anche questa certezza).

Nonostante ciò, se una traiettoria simile dovesse palesarsi nel breve-medio periodo, almeno un fattore andrà incrinandosi nelle politiche d’opposizione al sistema liberista. L’alleanza sociale di fatto del mondo del lavoro dipendente subordinato con una piccola borghesia impoverita ed estromessa dalla redistribuzione dei profitti europeisti, alleanza di fatto che poi è stata alla base del rafforzamento populista, andrà inevitabilmente in crisi. Il populismo si regge su di un’alleanza popolare determinata dalla crisi e dal processo europeista. Se uno di questi due fattori viene meno, anche il suo riflesso politico sarà costretto ad adeguarsi o a scomparire. Ad ogni modo, è ancora presto per fare previsioni, qualunque esse siano. Rimane il fatto che la “fine della crisi” – qualsiasi cosa questa definizione voglia dire oggi in Italia – impone un adeguamento dei nostri linguaggi.

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“Lavoro mentale e classe operaia”. Alcune riflessioni sul quaderno di Guglielmo Carchedi

È uscito recentemente un saggio di Guglielmo Carchedi, economista presso l’Università di Amsterdam. Il titolo è “Sulle orme di Marx. Lavoro mentale e classe operaia”[1].

Si tratta di un quaderno di grande interesse, che riporta le categorie marxiste all’interno dell’analisi dei processi lavorativi e di sfruttamento. Il lavoro di Carchedi ci riabitua a pensare con gli strumenti di analisi propri della teoria marxista, a 150 anni dalla pubblicazione del Capitale (e a 100 dalla Rivoluzione bolscevica), confermando la loro attualità. Questo è uno sforzo a cui non siamo più abituati (a partire da chi scrive), per cui la lettura può sembrare apparentemente ostica. In questa sede proverò ad offrire una breve panoramica di alcuni elementi del saggio, assieme ad alcune riflessioni personali.

Chiave della argomentazione di Carchedi è anzitutto una chiarificazione terminologica attorno ai termini lavoro manuale, lavoro intellettuale, lavoro materiale e lavoro mentale.

Non esiste opposizione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, dal momento che “tutto il lavoro è intellettuale perché implica l’attività del cervello e tutto il lavoro è manuale, anche se si tratta di scrivere i propri pensieri su un pezzo di carta. Lo stesso vale per categorie quali “lavoro materiale” e “lavoro mentale”. Tutto il lavoro materiale necessita il concepire, l’ideare; tutto il lavoro mentale necessita tutto il corpo senza il quale il cervello non potrebbe funzionare” (pag. 8). Si può e si deve parlare di trasformazioni, oggettive e mentali, che sono entrambe materiali. Le prime “trasformano la realtà oggettiva, cioè la realtà che esiste al di fuori di noi e al di fuori della nostra percezione di essa” mentre nelle seconde “la forza lavoro trasforma in una nuova conoscenza sia la conoscenza esistente nella forza lavoro degli agenti di trasformazione (conoscenza soggettiva) sia la conoscenza esistente al di fuori di essa e quindi oggettiva (nei computer, libri, ma anche nella forza lavoro di altri agenti di trasformazione, ecc.)” (p. 8-9).

Uno dei meriti conferibili a quest’opera (come hanno fatto notare altri commentatori[2]) è quello di sgombrare il campo dalle illusioni post-operaiste che ci hanno parlato di un lavoratore “cognitivo” dotato di qualità superiori a quelle di un lavoratore “manuale” e che sarebbe padrone dei propri mezzi di produzione (di conoscenza). Non solo: nel quaderno è centrale anche la critica a coloro i quali parlano di sfruttamento generalizzato dell’intera società per via dell’assottigliamento del confine tra produzione e consumo.

Osserva giustamente Carchedi “Il plusvalore sarebbe creato in misura crescente nella sfera della riproduzione e del consumo oltre che nella produzione. Tutta la vita diventerebbe sorgente di plusvalore. Questa nozione è assurda e si schianta contro l’osservazione che, se tutto il tempo fosse creazione di plusvalore, non si capirebbe perché i capitalisti si ostinino ad estendere le ore lavorative.” (pag. 23).

Dunque, l’assottigliamento del confine tra orario lavorativo e tempo libero (ad esempio, quando il lavoratore risponde alle telefonate, alle mail e così via anche dopo l’orario di lavoro) non va inteso come uno sfruttamento del tempo libero, ma un'estensione dell’orario di lavoro non esplicita. Non vengono sfruttati in quanto agenti mentali (per usare la terminologia di Carchedi, ovvero produttori di conoscenza ma non di plusvalore perché non sfruttati dal capitalista) mentre si “godono” il proprio tempo libero, ma ancora in quanto lavoratori mentali. Semplicemente non vengono pagati.

In questo senso, il contributo del compagno Romanello pubblicato su CòmInfo qualche tempo fa[3], sebbene ponga interrogativi interessanti e degni di attenzione (come il tema del controllo democratico della tecnica, affinché “partecipi attivamente all’emancipazione delle masse”), contiene un errore per quanto riguarda il plusvalore prodotto dai social network: l’utente dei social non produce valore. Per citare Carchedi “le informazioni (dati) che sono trasformate in sorgenti di profitto non sono quelle generate dagli agenti mentali [ovvero gli utenti] (esse non hanno valore) ma quelle dei lavoratori mentali che si appropriano della conoscenza degli agenti mentali e la trasformano per i fini di profitto del capitale” (p. 23). È senz’altro corretto dire (come fa il compagno Romanello) che “il fenomeno dei social è perfettamente inquadrabile nella teoria del plusvalore”. Ma questo è generato sulla base dello sfruttamento della forza-lavoro dei lavoratori mentali, non direttamente dalla conoscenza prodotta dagli agenti mentali.

È ora opportuno fare un esempio, per chiarire meglio il concetto di lavoratore mentale. Nel quaderno viene fatto spesso riferimento ai videogiochi. Penso che chiunque stia leggendo queste righe abbia avuto una esperienza anche solo indiretta dei videogiochi. Strategia, sparatutto, avventure... di qualsiasi genere si tratti, nella maggior parte dei casi i videogiochi moderni sono realizzati con grafica tridimensionale, a volte ai limiti del fotorealismo. I modelli 3D che costituiscono l’ambiente del videogioco sono realizzati da modellisti e da grafici che fanno un lavoro sì mentale nel creare e modellare le figure geometriche, ma anche materiale, come star seduti per ore al computer, profondamente concentrati. Le figure e gli oggetti prodotti sono “intangibili” (anche se considerando il videogioco nel complesso, che spesso ha un motore fisico molto avanzato, hanno una loro “tangibilità” all’interno del mondo virtuale). Se poi la stessa attività anziché al settore videoludico la applichiamo a quello biomedico o dell’alta tecnologia, l’oggetto 3D “intangibile” diventa anche tangibile, magari attraverso l’uso di una stampante 3D. E dunque, in che cosa questo è diverso da un lavoro “operaio”, da un lavoro di trasformazione oggettiva più “tradizionale”?

Vi è ovviamente un diverso grado di consapevolezza, fa notare giustamente Carchedi. Il lavoratore mentale (che sia un modellista 3D, un contabile, un ingegnere, un progettista o altro) crede di essere “libero” e di avere una conoscenza “creativa”. I lavoratori mentali “devono introiettare i fini del capitale e quindi devono poter prendere decisioni al di fuori di una rigida linea di comando”. E quindi “il controllo della generazione della conoscenza va da un massimo di coercizione a un massimo di libertà disciplinata. La coercizione ha cambiato forma ma non è sparita” (p.19). Qui si deve inserire la lotta sindacale e politica, per strappare questi lavoratori dall’influenza del capitale e fargli acquisire coscienza di classe.

Il saggio di Carchedi stimola infine la riflessione su nuovi modi di organizzazione dell’economia e dell’informatica. Nel Programma del nostro Partito[4] si individua giustamente “la lotta per un controllo democratico della comunicazione, in primo luogo quella pubblica radiotelevisiva, e per un rilancio dei mezzi di comunicazione in mano pubblica” (pag. 10) come uno dei terreni fondamentali nella lotta sul terreno dell’egemonia. Una proposta interessante (per quanto provocatoria), è venuta da Nick Srnicek, docente al King’s College di Londra: nazionalizzare Facebook, Google ed Amazon, ovvero i grandi monopoli della conoscenza prodotta e condivisa via web [5]. La lotta contro il capitale monopolistico nel XXI secolo deve essere anche una lotta per spezzare il dominio del capitale sulla conoscenza prodotta via web e sottrarre il lavoro mentale (qualitativamente uguale a quello oggettivo) dallo sfruttamento capitalistico.

Ed a livello nazionale? Quali dovrebbero essere i compiti dei comunisti? Anzitutto è di vitale importanza che le infrastrutture delle telecomunicazioni e le società che le gestiscono tornino completamente in mano pubblica e senza gestioni privatistiche. Questo vuol dire anzitutto nazionalizzare Telecom, sia nei suoi assetti riguardanti la telefonia sia in quelli riguardanti i sistemi di rete e la navigazione su Internet. Siamo giunti al punto che se fino agli anni Ottanta la SIP-Telecom aveva addirittura il monopolio sulle telecomunicazioni, ora l’ex monopolista è completamente in mano ad aziende straniere, con tutta una serie di aziende di telefonia che gestiscono tutto il settore in regime di oligopolio.

Una nazionalizzazione di Telecom significherebbe, potenzialmente, anche un nuovo rilancio dell’industria pubblica, dal momento che la storica Olivetti è al 100% di proprietà Telecom. Un rilancio pubblico della prima azienda a produrre un personal computer, con nuove relazioni nell’industria, forme di democrazia economica e di controllo dei lavoratori sarebbe un passo in più in direzione del socialismo. Ed è in questa direzione che dobbiamo lottare.

[1] Vedi http://contropiano.org/fattore-k/2017/07/07/sulle-orme-marx-lavoro-mentale-classe-operaia-093703

[2] Vedi http://contropiano.org/fattore-k/2017/10/06/lavoro-mentale-classe-operaia-ragionando-carchedi-096390

[3] M. Romanello, Per un’analisi marxiana dei social network e della modernità digitale, su CòmInfo, 6 settembre 2017. All’indirizzo http://www.fgci.info/2017/09/06/unanalisi-marxiana-dei-social-network-della-modernita-digitale/

[4] Vedi https://www.ilpartitocomunistaitaliano.it/download/il-programma-del-pci/?wpdmdl=3392

[5] https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/aug/30/nationalise-google-facebook-amazon-data-monopoly-platform-public-interest

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