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27/10/2017

Il miraggio ideologico saudita a Neom

C’è una strana coincidenza tra la caduta di Raqqa, la capitale del Califfato ridotta in cenere, e l’annuncio del dinamico principe saudita Mohammed bin Salman che punta a edificare con 500 miliardi di dollari Neom, la città del futuro. La Siria è distrutta, lo Yemen, nel cortile di casa dei sauditi, forse ancora di più proprio a causa dei bombardamenti di Riad ed ecco che il Regno, custode di Mecca e Medina, decide di costruire nuove immaginifiche metropoli. Non è la prima volta: già un decennio fa venne pubblicizzato dai sauditi un piano per erigere nel deserto sei città e alla fine ne venne alla luce, molto più modestamente, una sola, la Città dell’Economia dedicata a re Abdullah.

Nel discorso del principe Mohammed su Neom c’è un passaggio rivelatore: «Restaureremo una cultura islamica più tollerante come esisteva prima dell’ascesa dell’estremismo iraniano nel 1979». Forse adesso abbiamo capito cosa significa Neom. Gli obiettivi di Mohammed sono due. Cercare nei giovani sauditi – tra i quali qualche milione è disoccupato – un alleato per rafforzare la legittimità di una monarchia assoluta e retrograda e contrastare allo stesso tempo l’establishment religioso che ha già arricciato il naso quando è stato annunciata la patente alle donne.

Ma soprattutto Riad punta a contenere gli ayatollah iraniani, usciti, insieme alla Russia, Assad e agli Hezbollah libanesi, come i veri vincitori della guerra siriana dove l’Arabia Saudita e le litigiose monarchie del Golfo, in competizione tra di loro come il Qatar e i sauditi, avevano appoggiato i jihadisti. L’ennesima sconfitta per i sunniti.

L’immagine di islam moderato che vuole propagandare il principe contrasta con la politica saudita degli ultimi decenni. L’Iran sarà anche una repubblica islamica che ha sostenuto i movimenti sciiti più militanti ma l’Arabia Saudita, proprietà esclusiva di cinquemila principi del sangue, è anche peggio.

Dopo la vittoria della rivoluzione di Khomeini sulla monarchia dello Shah Reza Palhevi, sauditi e monarchie del Golfo avevano finanziato con 50-60 miliardi di dollari la guerra di Saddam Hussein all’Iran: lo scopo era far fuori l’avversario sciita ma anche vendicare una testa coronata che era caduta senza che gli americani, alleati storici, intervenissero a salvarla. Poi è venuta la guerra dell’Afghanistan che ha costituito per Riad l’unica vera vittoria di politica estera.

La sconfitta dell’Armata Rossa sovietica da parte dei mujaheddin fu consentita dai petrodollari dei sauditi che imposero l’ortodossia del wahabismo, il pilastro ideologico del regno dei Saud. Il suo fondatore, Mohammed Ibn al Wahab (1702-1792) era un predicatore intransigente che considerava unica e vera religione quella del profeta Maometto e dei “salaf al salih”, gli antenati, da cui viene il termine salafismo. Per Wahab l’unica salvezza è il ritorno all’unicità divina, al “tawhid”, eponimo di movimenti jihadisti.

Tutti quelli che non aderiscono a questo dogma sono definiti miscredenti, quindi vengono proibite dottrine e pratiche del sufismo, dal culto dei santi ai pellegrinaggi non canonici. Il vero monoteista deve uniformarsi alla sharia che deve essere applicata alla lettera. E’ questa l’ideologia che dai Saud è passata anche da Al Qaida e all’Isis.

Ora con la sconfitta del Califfato e le difficoltà belliche in Yemen contro gli Houthi sciiti, i sauditi temono il ritorno dei foreign fighter e qualcuno che metta in discussione la loro legittimità basata sul dogma religioso wahabita. Ma non possono sconfessarlo perché è il fondamento del Regno, quindi indicano l’Iran come Paese estremista e si fanno portatori di un “islam moderato” di cui mai sono stati i portabandiera, al contrario. Basteranno i miliardi di dollari di nuovi progetti a contrabbandare questo falso ideologico? Forse sì, anche perché in Occidente aspettiamo a braccia aperte le loro commesse, vere o presunte, come miraggi nel deserto.

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