Narra un vecchio aneddoto della storia
dei partiti politici che, in Francia il primissimo premier espressione
di un cartello delle sinistre, Édouard Herriot, fu ricevuto, una volta assolti gli obblighi per la presa in carica di primo ministro, dal presidente della Banca di Francia.
Herriot non era uno sprovveduto, era già stato ministro in governi di
coalizione, sarebbe stato presidente del consiglio altre due volte
assieme a numerosi incarichi fino all’ultimo anno di vita. Bene, con suo
stupore Herriot, ricevette dal presidente della Banca di Francia una
vera e propria lezione su cosa, nel bilancio dello stato francese di
allora, era di reale competenza della banca nazionale e cosa davvero del
resto delle istituzioni. Di fatto, narra sempre l’aneddoto, Herriot si accorse di non governare più del cinque per cento del bilancio dello stato.
Decine di anni di finanziarizzazione della vita pubblica francese, a
partire dai boom di borsa sotto Napoleone III, avevano ridotto
moltissimo il margine di manovra finanziario a disposizione delle
istituzioni della sovranità popolare. Come è andata a finire è qualcosa
di noto. Herriot, senza un reale bilancio dello stato a
disposizione, provò a mantenere il consenso con misure sia simboliche
che a costo zero per le casse pubbliche: il trasferimento al
Panthéon delle ceneri di Jean-Jaurés (eroe socialista-pacifista),
amnistia per gli scioperanti e per gli ammutinati della prima guerra
mondiale, diritto di sindacalizzazione esteso ovunque, creazione di un
consiglio nazionale dell’economia senza reali poteri.
Le ultime pagine del libro sono come ci
si può immaginare: guerra finanziaria contro le istituzioni francesi,
attacco al franco, impossibilità statuale di trovare le risorse per far
fronte a questo attacco e caduta del primo governo francese di sinistra.
Negli anni ‘20, come oggi, non c’era bisogno di un Pinochet per
abbattere un governo di sinistra. Era, ed è, affare, nel senso anche di
guadagno, delle piazze finanziarie. Perché abbattere i governi è un
affare finanziario, per chi scommette al momento giusto, non
dimentichiamolo.
Questo genere di lezione non è
mai stato assimilato dalle sinistre italiane, infatti sono allo stato
residuale, che hanno rimosso pure la vicenda Tsipras. Ma
è, in qualche modo, è stata fatta propria da Matteo Renzi che, alla
vigilia della scadenza del mandato di Visco a Bankitalia, ha fatto
votare alla camera una mozione, di fatto, di sfiducia del governo
proprio a Visco.
Ma cosa c’entra, nel quadro normativo odierno, una mozione di sfiducia del parlamento a Visco? Assolutamente niente. La legge 286 del 2005, quella attualmente in vigore, prevede una procedura di nomina del presidente di Bankitalia
che passa da una serie di istituzioni - Presidenza del Consiglio, della
Repubblica, Consiglio Superiore Banca d’Italia etc - ma non dal
Parlamento. Non entriamo nel merito delle polemiche tra casi umani che
traboccano sui media (Veltroni, Gentiloni, lo stesso Renzi) è evidente che quello che è accaduto, nel linguaggio istituzionale, è un atto forte. Di una istituzione, la Camera dei Deputati, che cerca di mettere i piedi nel piatto delle nomine che, formalmente, appartengono ad altre istituzioni dello Stato. Con un preciso mandante, Renzi, che dice una cosa chiara «di fronte a quanto sta accadendo nel mondo bancario le nomine non passano sulla testa mia e del gruppo dirigente del Pd».
E’ così altrettanto evidente che Renzi è debole entro l’attuale
procedura di nomina, altrimenti non si comporterebbe in questo modo.
Tra gli attuali osservatori del nesso banche-politica, ci riferiamo a quelli acuti e attendibili, ci sono quindi due filoni di interpretazione di questi fatti. Il primo sostiene che è solo propaganda elettorale, perché Renzi non avrebbe il tempo materiale e le sponde relazionali per preparare una propria candidatura; il secondo che l’atto
irrituale fatto votare in Parlamento finirà, visto lo spessore dei
poteri irritati da Renzi, per ritorcersi contro l’attuale segretario del
Pd.
Anche perché chi difende Visco non è poco importante: l’Associazione Bancaria Italiana,
miracolata dai venti miliardi messi a disposizione dal decreto
Gentiloni, e tutto l’establishment politico-istituzionale che conta (al
quale si è accodata la Cgil, parente ridotto sul lastrico, ma pur sempre
parente, di questo establishment).
Solo che Renzi ha capito la
lezione di Herriot, e lo ha fatto stando a Palazzo Chigi. Con un
presidente, come Visco, eletto nei mesi difficili della crisi del 2011
dopo che Draghi era andato alla Bce, parte integrante della filiera
Bankitalia-Bce un Presidente del Consiglio può fare poco. Se
non vantarsi della ripresa economica quando, seppur a cifre basse,
appare grazie alle (pericolose) politiche della Banca Centrale Europea.
Oppure difendersi dagli attacchi dei media quando le cose vanno male ma
senza attaccare la Bce. Un po’ poco per Renzi che ha bisogno di andare
in deficit a fondo per la sua politica di «redistribuzione» alle grandi ditte committenti di appalti pubblici di ogni genere. E tanto più con il 2018 che, per le banche italiane, può annunciarsi di nuovo difficile.
Per tutto questo ci vuole un presidente di Bankitalia che si allinei
con il governo non con la Bce. Istituzione che si avvia, per motivi
interni ed europei, a muoversi in modo diverso da quanto desiderato da
Renzi. Per non parlare della Ue.
Certo c’è da chiedersi cosa
controllerà il prossimo presidente della Banca d’Italia, con la prossima
tornata di competenze di vigilanza che passeranno alla Bce, ma un punto
per Renzi pare essenziale. C’è anche da chiedersi perché l’ABI difenda Visco e non Renzi. Ma sono, per quanto grossi, dettagli. Il punto è che Renzi, non più Presidente del Consiglio ma aspirante attore forte del prossimo governo, vuole una Bankitalia meno estranea alle proprie esigenze. Certo, i nemici che si è fatto stavolta sono seri, e pericolosi, non c’è da dubitarlo.
C’è anche da dire che Renzi, in questi
anni, si è mostrato vicino sia a una rete di potere bancario italiano,
territoriale (il caso Etruria non nasce sugli alberi...), che a settori
di capitalismo di ventura londinesi (vedi Serra di Albertis che ha fatto
bingo scommettendo al ribasso su MPS grazie a informazioni della
presidenza del consiglio) che a qualche grande banca d’affari. Vedi JP
Morgan che, comunque, nonostante gli sia stata offerta MPS si è vista
interessata all’Italia ma è rimasta lontana (dallo scottarsi). E, fatto
da non sottovalutare, è che il comunicato della sfiducia Pd alla
Camera sia, per i media, stato redatto prima in inglese, e consegnato
all’agenzia Reuters, e solo dopo tradotto in italiano. Segno,
voluto, che si guarda prima ai movimenti finanziari verso l’Italia e poi
a cosa accade nel nostro paese. E questi movimenti, al momento, sono
destabilizzanti. Ma quanto?
Il conto è semplice, il fondo
Bridgewater, il più grande del pianeta, gestisce asset per 160 miliardi
di dollari, sta scommettendo contro l’Italia e sul crollo di buona parte
di Piazza Affari. E su quali titoli ? Energia, tra cui l’Eni (che è un asset pubblico molto importante) e, guarda te il caso, titoli bancari.
Ecco una mappa delle scommesse che Bridgewater ha fatto sui titoli
italiani per guadagnare dal loro crolli, per puntate complessive di 1,4
miliardi di dollari. La ricostruzione è di Bloomberg. Ci troviamo la polpa
sia del sistema energetico che di quello bancario-assicurativo del
paese. Roba che se la scommessa andasse a buon fine il paese finirebbe a
gambe per aria. Un tema un po’ più serio di quello della data delle
elezioni, insomma.
Con
questo non vogliamo dire che Renzi e Bridgewater fanno parte dello
stesso complotto. Neanche che la scommessa andrà a buon fine, si chiama
scommessa e i mercati finanziari sono fenomeni ad alta complessità.
Oltretutto la massa di denaro investita, se confermata, è importante e
magari, in qualche modo, potrebbe rientrare senza portare la scommessa
fino in fondo. Solo che in Italia c’è una falla sistemica, nel
comparto bancario, frutto di fattori globali e locali, sulla quale tutti
si buttano. I segretari del partito di maggioranza e i fondi
speculativi. E finché questa falla non verrà sistemata l’Italia sarà alla mercé di scorribande di ogni tipo, nazionali e globali.
E per sistemare la falla il problema non è tanto, o solo, contabile. O
di regolazione della Bce. La rivoluzione Fintech, l’ibridazione tra
finanza e tecnologia che rende le banche sempre più obsolete, avanzerà
nei prossimi anni rendendo più difficoltosi gli equilibri raggiunti
dalle banche nella crisi. A seconda delle pieghe prese da questa
rivoluzione la sua portata può essere pari a quella dell’Mp3 verso
l’industria discografica. Bridgewater lo sa più di Renzi ma, per
entrambi, questa quiete prima di una possibile tempesta va sfruttata.
Finiamo con un po’ di divertimento.
Parliamo di quegli ascari in confusa ricerca di padrone, essendo senza
più negus ma senza nemmeno il comando del governatore del duce, chiamati
MDP. Il loro capo, in verità più capocomico che capobranco,
sostiene, per sostenere Visco, che delle banche non bisogna parlare
pubblicamente. A differenza di Renzi, duole dirlo, non ha afferrato la
lezione di Herriot. Più la politica è silenziosa nei
confronti delle banche più è facile che la sovranità popolare non abbia
un centesimo a disposizione. Certo, a Renzi il centesimo
servirebbe per le grandi ditte amiche, ma il fenomeno è qualcosa di
elementare. Forse non per Bersani che è rimasto visibilmente ad oltre
trenta anni fa. Quando la realtà, per lui, ha spiccato il volo fino a
diventare irraggiungibile.
Redazione, 19 ottobre 2017
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