L’establishment capitalistico può perdere le elezioni, ma non la dotazione di armamenti che gli permette di ridimensionare, ribaltare, annientare le “perturbazioni” occasionali.
E’ uno dei primi pensieri nel leggere che, negli Stati Uniti, due dei principali collaboratori di Donald Trump nella campagna elettorale si sono presentati stamattina nella sede dell’Fbi di Washington, ovviamente accompagnati da uno stuolo di avvocati famosi.
Paul Manafort e Rick Gates, ex consiglieri di Donald Trump, non avevano più alternative, se non volevano rischiare l’arresto e il tracollo immediato dei propri affari (sono anche soci).
Devono rispondere di ben 12 capi di imputazione – dall’evasione fiscale al riciclaggio, alla violazione delle regole che disciplinano la professione di lobbista – che apparentemente non riguardano alcun episodio del cosiddetto Russiagate, ovvero l’aver intrattenuto rapporti con l’ambasciatore russo negli Usa (o addirittura con il ministro degli esteri Lavrov) per ottenere il famoso “aiutino” hacker sulle mail di Hillary Clinton.
Il primo capo di imputazione è comunque «cospirazione contro gli Stati Uniti», che però viene interpretato in modo molto yankee (l’evasione fiscale, laggiù, è un crimine piuttosto serio contro lo Stato, come ha sperimentato a suo tempo anche Al Capone).
Manafort è un noto lobbysta e avvocato di Washington, e per i costumi statunitensi non c’è un “conflitto di interessi” nel passare nel giro di pochi giorni da una posizione privata con agganci nell’amministrazione pubblica (questo è un lobbysta) a una posizione pubblica e viceversa (ricordiamo i salti continui di Dick Cheney e Donald Rumsfeld da società a posti da ministro con le presidenze Bush, padre e figlio).
Manafort e Gates hanno lasciato il comitato elettorale di Trump prima che questi vincesse le elezioni, ma lo avevano fatto proprio a causa dei loro comportamenti “chiacchierati” e la frequentazione con personale diplomatico russo. Sono infatti i primi a essere stati incriminati dal procuratore speciale Robert Mueller. Al centro dell’indagine ci sarebbero le dichiarazioni fiscali di Manafort, che avrebbe mantenuto collaborazioni d’affari e consulenze con oligarchi ucraini vicini a Yanukovich, poi travolto dai fatti di Majdan, in buona parte finanziati e sostenuti da un arco di soggetti che va da George Soros alla stessa Hillary Clinton.
E’ chiaro che l’Fbi e il procuratore Mueller ritengono di poter costringere i due imputati a uno “scambio” (anche questo tipico nella giurisdizione Usa) tra confessioni su fatti riguardanti “altra causa” (ovvero i rapporti del cerchio magico di Trump con i russi) e l’impunità per reati come quelli ora contestati.
Questa non è l’unica fonte di sofferenza per Trump, perché un altro dei suoi collaboratori – George Papadopolous, un semplice volontario della campagna elettorale – si è dichiarato colpevole per aver reso false dichiarazioni all’Fbi nell’ambito delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller.
Al vertice degli Stati Uniti è arrivato quasi per sbaglio un “cavallo pazzo”, un vecchio palazzinaro molestatore e senza scrupoli. Ma il sistema sembra decisamente in grado di metabolizzarlo ed espellerlo prima ancora che finisca il suo primo mandato...
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento