L’intera provincia di Kirkuk è sotto il controllo del governo
centrale di Baghdad: dopo la ripresa dell’ultima città del distretto,
Altun Kupri, a poche decine di chilometri da Erbil, non ci sono più
peshmerga nella principale area contesa del paese.
Stavolta, a differenza della città di Kirkuk e di Sinjar, scontri ce ne sono stati: colpi
di mortaio e di artiglieria da entrambe le parti sono andati avanti per
alcune ore ieri mattina prima della ritirata dei kurdi che, prima di
arretrare, hanno fatto saltare in aria il ponte che da Altun Kupri porta
alla capitale del Kurdistan iracheno.
Dopotutto le truppe irachene e le milizie sciite sono a soli 25 km da Erbil. Ma non avanzeranno oltre, assicura Baghdad: l’obiettivo,
ripetono i vertici iracheni, non è invadere la regione autonoma ma
tornare ai confini precedenti al 2014. È intervenuto lo stesso premier
iracheno al-Abadi che ha ordinato all’esercito di fermarsi e non entrare
a Erbil, ma di rispettare le frontiere ufficiali definite nel 2003 dopo la caduta di Saddam Hussein.
Dal Kurdistan iracheno le reazioni sono blande, nella consapevolezza
che a rischio non c’è tanto il referendum per l’indipendenza quanto
l’autonomia già ottenuta quasi 30 anni fa. Le tensioni esterne
si riverberano all’interno con polemiche politiche tra i due principali
partiti kurdi, il Kdp del presidente Barzani e il Puk dei Talabani, con
il primo che accusa il secondo di aver ordinato la ritirata da Kirkuk
senza combattere.
Alla crisi interna irachena si aggiungono altri attori. Il leader
religioso sciita Moqtada al-Sadr ha annunciato ieri l’invio delle sue
Brigate della Pace – l’ex esercito del Mahdi, protagonista della
resistenza anti-statunitense nel decennio passato – a Kirkuk, a sostegno
dell’esercito iracheno. Al fianco, dunque, di quelle milizie sciite
legate all’Iran rivali di al-Sadr. Ma il religioso sa di doversi
giocare le sue carte dopo aver trascorso gli ultimi anni a togliersi di
dosso l’etichetta sciita per indossare i panni del leader nazionale e
non settario, che lo hanno portato fino in Arabia Saudita in chiave anti-Iran.
Interviene anche il Dipartimento di Stato Usa, alleato di Baghdad
quanto di Erbil, nel mirino di tanti peshmerga che in queste ore
affidano alla stampa la rabbia per il mancato intervento della
coalizione al loro fianco. Gli Stati Uniti hanno chiesto ieri a Baghdad
di fermare le truppe e di non ingaggiare altri scontri con quelle kurde
nelle aree contese. Aggiungono però un elemento in pù: le aree contese
restano tali, l’avanzata di Baghdad non ne modifica lo status a favore
del governo centrale.
Dichiarazioni che dovrebbero aprire al negoziato, un dialogo chiaramente difficile: quelle
zone sono le più ricche di greggio dell’intero Iraq, fonte di ricchezza
inestimabile. Soprattutto per Erbil in grave crisi economica:
dall’avanzata delle truppe irachene su Kirkuk le esportazioni di greggio
attraverso l’oleodotto che arriva alla cita turca di Ceyhan sono
crollate di due terzi. Meno di 200mila barili al giorno, invece dei
600mila precedenti.
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