di Michele Giorgio – il Manifesto
Iran, Iran e
ancora Iran. Non si parla d’altro ai vertici politici e militari di
Israele. Da quando Donald Trump non ha certificato l’accordo sul
programma nucleare iraniano del 2015, il governo Netanyahu sa di
aver un’occasione d’oro, forse unica, per vedere Tehran costretta a
fare i conti con nuove pesanti sanzioni americane e, forse, anche
internazionali. Senza l’esclusione dell’uso della forza. Il
ministro per l’intelligence, Israel Katz, in visita in Giappone in
questi giorni, ha detto perentorio che Israele è pronto a ricorrere a un
attacco militare pur di «fermare» l’Iran.
Il problema di Israele è che l’Iran la bomba atomica non la possiede e
le sue centrali nucleari per la produzione di energia sono soggette a
controlli rigidi e costanti previsti dall’accordo del 2015. I suoi attacchi all’Iran perciò si concentrano su altri aspetti,
le altre «forme di aggressione iraniane» di cui parla Trump, che, si
augura Tel Aviv, potrebbero indurre la comunità internazionale a
cestinare l’intesa sul nucleare, come, ad esempio, la produzione di
missili balistici.
Sul tavolo sono finite anche le vicende nel Kurdistan
iracheno, con i Peshmerga costretti ad abbandonare Kirkuk sotto la
pressione dell’esercito governativo e delle milizie sciite dopo il
referendum per l’indipendenza curda del 25 settembre. Per Israele ciò dimostra che l’Iran ha il controllo dell’Iraq attraverso l’impiego le milizie sciite sue alleate.
L’Arabia Saudita gioca ugualmente le sue carte in Iraq e così fanno
la Turchia, il Qatar e lo stesso Israele che nel Kurdistan ha sempre
avuto buoni amici, al punto da essere stato l’unico Stato al mondo a
pronunciarsi il mese scorso a favore dell’indipendenza curda.
L’attenzione tuttavia si concentra solo sui disegni di Tehran.
Il governo Netanyahu tace ma in Israele più voci denunciano
«l’abbandono» da parte dell’Occidente del presidente curdo Masoud
Barzani. Si sottolinea che i Peshmerga che sono stati decisivi
per la sconfitta dello Stato islamico in Iraq, sono stati lasciati
soli. E alcuni puntano l’indice contro i curdi del clan
Talabani vicino all’Iran, al contrario dei filo-israeliani e
filo-occidentali Barzani.
Sul Jerusalem Post, Caroline Glick, analista cara alla destra, ha
ricordato che Jalal Talabani, morto qualche settimana fa, si opponeva
all’indipendenza curda. «Sabato scorso – ha scritto Glick –, affiancato
dai due comandanti sciiti iracheni, il generale iraniano Qassem
Soleimani (capo della Brigata Gerusalemme nella potente Guardia
Rivoluzionaria, ndr) ha detto ai Talabani di sostenere il ripristino del
controllo del governo iracheno, cioè il controllo iraniano, su Kirkuk».
L’analista ha accusato Alaa Talabani, nipote di Jalal, di aver
raggiunto un’intesa con Soleimani, per affossare l’indipendenza curda e
isolare Barzani. Altre fonti israeliane parlano della costituzione di
una autorità nella zona di Halabja-Sulaymaniyah-Kirkuk amministrata dal
governo iracheno e dai curdi non indipendentisti. In linea, dicono, con
gli interessi dell’Iran. Interessi da contrastare ad ogni costo, anche
con la guerra.
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