Finalmente, nella tarda mattinata di Lunedì 23 ottobre, sono arrivati i numeri definitivi del referendum sull’autonomia del Lombardo–Veneto.
Responsabile del ritardo il sistema di voto elettronico adottato in Lombardia rivelatosi molto più farraginoso del previsto: in verità se il meccanismo adottato fosse stato esplicitato in anticipo si sarebbe capito subito che i tempi sarebbero slittati rispetto a quelli del Veneto, dove si è votato con il sistema tradizionale.
Prescindendo da questo elemento, emerge sicuramente un dato: al di là di ciò che potrà o non potrà essere determinato sul piano legislativo, istituzionale, amministrativo dai dati referendari è emerso con chiarezza l’esistenza di un problema al riguardo del Nord Est del Paese.
Un problema che si presentava già con chiarezza da tempo, derivante dalla particolare struttura economica di quella parte d’Italia adottata nel momento del passaggio dallo sviluppo agricolo a quello piccolo-medio industriale con il sistema dei distretti e la ridotta dimensione delle concentrazioni produttive, con forti quote di lavoro a dimensione artigianale, se non casalingo: modello che presenta, innalzando la percentuale del lavoro autonomo, evidenti questioni di carattere fiscale (non a caso la più alta percentuale di partecipazione al voto si è avuta nel vicentino, laddove proprio il modello di sviluppo appena indicato ha avuto fin dagli anni ’80 il massimo della sua espansione reclamando in conseguenza un alto grado di autonomia nell’organizzazione sociale).
Nel voto referendario emerge una vera e propria faglia geografica corrispondente più o meno addirittura all’antico confine tra il Granducato di Milano e la Repubblica di Venezia, nella sua parte di terraferma, cioè l’Adda, come ci ha ricordato Manzoni nei Promessi Sposi. Nel Milanese l’interesse per l’autonomia è molto debole mentre cresce a partire dal Bergamasco e relative valli.
Non esiste quindi un Lombardo–Veneto, ma un Veneto con propaggini lombarde: situazione con la quale fare comunque i conti.
Disponendo però soltanto di numeri globali proviamo comunque a sviluppare un minimo di analisi.
VENETO
I voti validi nell’occasione del referendum 2017 sono stati 2.317.923 con 2.262.955 favorevoli.
Se assumiamo com’è giusto come dato politico in punto di partenza di una proposta che viene dal centro–destra non si può non notare come la stessa abbia sfondato sia nel campo del centro sinistra, sia in quello del Movimento 5 Stelle.
I voti validi espressi nel referendum 2017, infatti, hanno superato i voti validi espressi nelle Regionali 2015 che assommavano a 2.212.204 nelle espressioni di suffragio per i candidati presidenti: Zaia ottenne 1.108.065 voti, la candidata del PD Alessandra Moretti 583.147 e quella del M5S 262.749. Rispetto alle regionali 2015 si può quindi ben affermare che la proposta referendaria abbia sia pur minimamente sfondato anche nel campo dell’astensione.
Da considerare inoltre che la quota dei voti validi ottenuta nel referendum 2017 equivale più o meno anche al totale dei voti validi realizzato nelle Europee 2014 che assommò a 2.397.744.
Considerato il trend della partecipazione elettorale non è quindi esagerato definire l’esito veneto quasi come quello di un plebiscito.
LOMBARDIA
Ben diverso il quadro della Lombardia dove i voti validi sono stati in totale 2.987.903: 2.869.268 sì e 118.635 no.
Oltre all’emergere di quella spaccatura geografica già indicata si può ben affermare che, in questo caso non si è verificato alcun sfondamento da parte del centro destra che detiene la maggioranza in regione verso gli altri campi.
Maroni infatti fu eletto nel 2013 con 2.456.921 voti, staccando Ambrosoli fermo a 2.194.169 e il candidato del M5S a 775.211 per un totale di voti validi di 5.737.827 (compresi naturalmente altri candidati oltre i tre indicati).
In sostanza al referendum 2017 i voti validi sono stati rispetto a quelli delle regionali il 52,07%. Il si rappresenta quindi circa il 37% dell’intero elettorato lombardo (quindi cancelliamo l’oltre 90%, così come va cancellata la stessa percentuale per quel che riguarda il Veneto regione nella quale il sì si attesta però al 60,18%, di conseguenza la maggioranza assoluta).
Riassumendo: il dato referendario indica come non esista alcun Lombardo–Veneto considerato che il voto ha avuto nelle due regioni un esito ben difforme.
Emerge quindi come problema politico una questione riguardante il Nord Est e si presentano tendenze ben diverse soprattutto tra Milano e il suo hinterland e parte della stessa regione Lombardia, all’interno della quale comunque la tensione autonomistica appare molto meno sentita che non nelle province venete: è questione essenzialmente di struttura economica e produttiva (e di conseguenza fiscale) un discorso che viene da lontano e che non sarà semplice da affrontare.
Da ricordare, infine, che i due quesiti (diversi tra Lombardia e Veneto) apparivano quanto mai generici se non ambigui: il presidente della Regione Veneto ha dichiarato che intende aprire un confronto con il Governo su 37 punti. Se questi 37 punti fossero state ben esplicitati allora l’elettorato avrebbe potuto compiere una scelta ben più ponderata di quella sicuramente approssimativa compiuta domenica scorsa.
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