Nella notte è arrivata la mano tesa del Kurdistan iracheno al governo
centrale di Baghdad: pronti a congelare i risultati del referendum
sull’indipendenza, esattamente ad un mese dal voto del 25 settembre.
La notizia giunge con un comunicato che propone il cessate il fuoco e
l’interruzione di ogni operazione militare nella regione del Kurdistan.
Non, dunque, direttamente dal presidente Barzani che da settimane ormai
non si mostra più in pubblico. Dopo aver raccolto l’entusiasmo
della popolazione per un voto consultivo ma comunque storico, il leader
del Kdp si è ritrovato isolato all’esterno e all’interno, debole e con i
carri armati iracheni alle porte.
“La situazione pericolosa e le tensioni tra forze irachene e forze
kurde ci pongono di fronte a responsabilità storiche – si legge nella
nota inviata a Baghdad – e ci spingono a evitare una guerra. Pertanto proponiamo
l’immediata cessazione delle ostilità e di qualsiasi tipo di operazione
militare nella regione del Kurdistan, il congelamento dei risultati del
referendum e l’inizio di un dialogo aperto tra il governo kurdo e quello federale sulla base della costituzione irachena”.
Un passo indietro a cui Baghdad per ora non ha risposto ma che
significa molto per la leadership di Barzani, costretto ad arretrare
dalle difficoltà politiche ed economiche che attanagliano la regione. Con
i partiti di opposizione, a partire da Gorran, che ne chiedevano le
dimissioni e con il crollo delle esportazioni di greggio verso la
Turchia a causa dell’avanzata irachena a Kirkuk, il Kdp rischiava il
collasso e la perdita dell’autonomia ottenuta nel 1991.
L’ultimo mese ha visto salire giorno dopo giorno la tensione
interna, prima con le minacce di isolamento di Turchia e Iran, poi con
il blocco dei voli da e per Erbil e il mandato d’arresto spiccato dalla
Corte suprema irachena nei confronti del vice presidente Rasul. E infine
con l’operazione militare delle truppe irachene, sostenute
dalle milizie sciite, che ha costretto i peshmerga alla ritirata da
buona parte delle zone contese, da Sinjar a Diyala.
Domenica il premier iracheno al-Abadi ha detto di non voler alcuno scontro con le forze peshmerga, sebbene ieri alla Reuters
un portavoce dell’esercito iracheno avrebbe comunque parlato di un
prosieguo dell’avanzata militare: “Le operazioni militari non hanno
nulla a che vedere con la politica”, avrebbe detto. Nel mirino
ci sarebbe il valico di Fish-Khabur, tra Iraq, Siria e Turchia, al
momento sotto il controllo kurdo ma su cui Baghdad vuole imporre la
propria autorità. Luogo strategico per le esportazioni di greggio che il
governo centrale considera area contesa.
Ma la prospettiva di uno scontro interno appare distruttiva per uno
Stato semi-fallito, dove i vertici delle istituzioni non hanno il
controllo di tutto il paese e dove la guerra allo Stato Islamico non si è
conclusa con la cacciata degli islamisti dalle loro roccaforti.
Intanto, ieri il parlamento autonomo del Kurdistan – dopo la
decisione di sospendere le elezioni parlamentari e presidenziali
previste per il primo novembre – aveva votato per rinviare il voto di
otto mesi. Nessuna data precisa è stata fornita, sebbene fonti del Kdp
dicano che a breve i parlamentari indicheranno anche il giorno delle
elezioni.
Sospese anche le attività della presidenza, ufficio di cui fa
parte Barzani, il vice Rasul del partito rivale Puk e il capo del
gabinetto Hussein: un colpo duro per il presidente che nella
pratica si è visto negare l’estensione del mandato, già scaduto due
volte, nel 2013 e nel 2015.
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