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24/10/2017

Elezioni 1987, si avvia alla fine “la Repubblica dei partiti”

E’ passato completamente sotto silenzio l’anniversario dei trent’anni delle elezioni politiche svoltesi il 14 giugno 1987: eppure si trattò di un’occasione politicamente fondamentale, in quanto nell’occasione entrò nel vivo la fase finale della “Repubblica dei Partiti”.

Repubblica dei Partiti (dalla felice definizione di Pietro Scoppola) che, poi, attraverso gli effetti della caduta del Muro di Berlino, del Trattato di Maastricht e di Tangentopoli avrebbe trovato la sua conclusione/trasformazione nella campagna propagandistica a favore del sistema maggioritario culminata nel referendum del 14 aprile 1993, nella legge per l’elezione diretta dei Sindaci, nella nuova formula elettorale mista maggioritario (75%) proporzionale (25%) .

Formula denominata “Mattarellum” (da Sergio Mattarella, nell’occasione, relatore alla Camera) che sarebbe stata collaudata per la prima volta con le elezioni legislative generali del 27 marzo 1994 vinte dal centro destra attraverso l’assolutamente geniale trovata della “duplice alleanza” al nord tra Forza Italia e Lega (Polo della Libertà) e al Sud tra Forza Italia e MSI – Alleanza Nazionale (Polo del Buon governo): poi quell’alleanza si ruppe dopo pochi mesi e fu ricomposta successivamente, ma questa non è materia per il nostro semplice richiamo storico.

Torniamo però alle elezioni del 1987.

Si era conclusa anticipatamente la legislatura 1983 – 1987 caratterizzata fortemente dalla prima presidenza del Consiglio socialista e da un duro scontro a sinistra (nel frattempo era improvvisamente scomparso il segretario del PCI Berlinguer) sul tema della scala mobile, sul quale si era anche svolto nel 1985 un referendum che aveva dato ragione alla linea governativa.

Non realizzata la prevista staffetta Craxi – De Mita alla presidenza del Consiglio e costretto il governo a guida socialista alle dimissioni ci si avviò alle elezioni anticipate formando un governo Fanfani battuto in Parlamento: a quel punto (aprile 1987) Cossiga sciolse le Camere e il Governo convocò i comizi elettorali per il 14 giugno.

L’esito di quelle elezioni del 1987 è stato fin qui a torto poco studiato.

Esso invece, ha rappresentato un tornante molto significativo nel progressivo “disfarsi” del sistema politico imperniato nei grandi partiti di massa: si istituzionalizzarono infatti, in quell’occasione, le rappresentanze di movimento per ben due contraddizioni sociali e politiche di grande rilievo.

Quella ambientale, con l’approdo delle “Liste Verdi” in parlamento: secondo elemento, dopo l’ingresso del partito radicale avvenuto nel 1976 del peso che stavano assumendo le cosiddette “contraddizioni post – materialiste” la cui richiesta di rappresentanza politica ebbe un grande significato nel già richiamato disfacimento del sistema imperniato sui grandi partiti di massa perché rappresentative di un “particulare” individualistico: diritti civili, non nel mio giardino, conflitto ambiente/lavoro impostato su posizioni molto rigide da entrambe le parti (da ricordare all’epoca il caso ACNA di Cengio e quello Farmoplant di Massa come quelli più significativi. Iniziò allora anche la lotta delle donne di Cornigliano, pure appartenenti al PCI, almeno nella parte più attiva di quel fondamentale movimento anche per via dell’espressione concreta di una presenza femminile che, invece, sul piano politico non aveva costruito una propria ipotesi di rappresentanza femminista).

La seconda contraddizione socialie rappresentata elettoralmente fu quella della rinnovata discordanza centro/periferia con l’ingresso alla Camera e al Senato di un rappresentante della Lega Lombarda in ognuno dei due rami del Parlamento: Leoni alla Camera, Bossi al Senato (da lì il famoso “Senatur”).

Si trattò del classico caso della “palla di neve” trasformatasi in valanga (valanga poi consolidatasi, sia pure in dimensione ridotta).

La Lega Lombarda accanto alle istanze autonomiste fece immediatamente propria la linea di un dimenticato Movimento di Liberazione Fiscale che, proprio in quella tornata elettorale si era presentato dopo aver svolto alcune importanti manifestazioni di piazza: si trattò del classico caso del nenniano “piazze piene e urne vuote”, perché radunate 30.000 persone a sfilare per Torino i voti poi furono 25.000.

Un seme però era stato gettato e il combinato disposto “autonomia” (declinata in vari modi: devolution, secessione, ecc.) e liberazione fiscale risulta ben attivo ancora adesso, come ha dimostrato l’esito del referendum veneto del 22 Ottobre 2017 (risultato innestatosi su di un particolare quadro di riferimento dal punto di vista dell’organizzazione produttiva e della concezione sociale dell’area geografica interessata).

In quelle elezioni 1987 da ricordare ancora come una lista Liga Veneta – Pensionati Uniti sfiorò il conseguimento del quorum: a dimostrazione di un’ulteriore frammentazione del quadro politico corrispondente a precise, anche se limitate, istanze sociali non comprimibili come si pensò allora all’interno di un sistema elettorale maggioritario.

Sistema elettorale maggioritario che poi, come già ricordato, fu adottato dopo le elezioni 1992 con una formula mista utile a conservare quanto era possibile di ceto politico.

Le elezioni del 1987 registrarono un secondo, netto calo del PCI che perse circa 800.000 voti: calo che seguiva quello registrato nel 1979 e che era stato contenuto in una “sostanziale tenuta” nel 1983, anche grazie all’alleanza con il PdUP – Manifesto (caso a parte ovviamente l’esito delle elezioni europee del 1984 con il famoso “sorpasso”: elezioni svoltesi nel pieno della commozione popolare per la scomparsa di Enrico Berlinguer).

Il dato politico però fu quello dell’eccessiva lentezza nel “riequilibrio a sinistra” invocato dai socialisti: il PCI ottenne comunque il doppio dei voti del PSI e la DC si confermò partito di maggioranza relativa con circa 3 milioni di voti di vantaggio sui comunisti.

Il sistema restava così praticamente bloccato nella dimensione dei maggiori partiti e allargava la rappresentanza istituzionale ai nuovi movimenti portatori di istanze individualiste post – ideologiche.

La percentuale del “non voto” si mantenne, invece, sostanzialmente stabile dopo che nel 1983 era scesa per la prima volta dal 1948 al di sotto del 90% (percentuali comunque impensabili al giorno d’oggi).

Si trattava di un segnale molto forte di riallineamento sistemico che non fu raccolto dall’establishment che concentrò, invece, tutte le sue attenzioni sul cambiamento del sistema elettorale.

Ci si trovava così, per i più inconsapevolmente all’avvio della fase finale del sistema politico che era stato strutturato sulla base dell’esito delle elezioni del 1948, con la DC “partito pivotale” in grado di determinare le alleanze con un moto lento rivolto (salvo brevi scarti) verso il cosiddetto “allargamento democratico” con due passaggi fondamentali: quello del centro sinistra organico nel 1963, e quello del “pentapartito” del 1980 (la solidarietà nazionale comprendente il governo delle astensioni e quello con il PCI in maggioranza tra il 1976 e il 1979 fu troppo fortemente condizionato dalla vicenda Moro e dalla spaccatura “fermezza”/“trattativa” da costituire caso a parte non assegnabile a una fase di evoluzione del sistema).

In realtà le principali forze politiche non avevano colto il primo forte segnale di riallineamento del sistema che era arrivato fin dal giugno 1978 con l’esito di due referendum: il primo sulla cosiddetta “Legge Reale” riguardante l’ordine pubblico e l’altro sul “finanziamento pubblico ai partiti” introdotto con legge del 1974 per cercare di tamponare l’incipiente corruzione, palesatasi al tempo con lo scandalo dei petroli scoperto dai genovesi “pretori d’assalto”, Sansa, Almerighi e Brusco.

I due referendum avrebbero dovuto, tenuto conto dei pronunciamenti parlamentari e del presunto forte legame tra questi e l’elettorato (dal punto di vista del peso e del radicamento dei partiti), concludersi con il 90% di no.

Invece il sì all’abolizione della legge Reale raggiunse il 23% (a favore soltanto radicali e PdUP – Manifesto per una rappresentanza elettorale del 3%), mentre quello sul finanziamento dei partiti addirittura toccò il 46% e la legge si salvò a fatica (per il sì si erano espressi i radicali, il PdUP – Manifesto, i liberali e il MSI: un totale del 10% dell’elettorato).

Si stavano aprendo delle brecce che i grandi partiti sottovalutarono fortemente: era cominciata l’infinita transizione italiana oggi non ancora conclusa, anzi nel pieno del suo caotico andare avanti in un quadro di pressapochismo, arroganza, forzature delle quali la classe politica attuale appare davvero costituire l’emblema.

In ogni caso l’esito delle elezioni del 1987 andrebbe non soltanto ricordato, ma studiato meglio.

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