Non è sicuramente un momento facile per il presidente del governo regionale del Kurdistan (Krg) Masoud Barzani. Dopo
aver visto le truppe di Baghdad e le milizie alleate riconquistare, in
alcuni casi senza sparare un colpo, i territori che le forze curde
peshmerga avevano sottratto dalle mani dello Stato Islamico (Is) dopo
sanguinose battaglie, ieri ha subito un duro attacco politico da parte del partito di opposizione Gorran.
Gorran (o Movimento per il cambiamento) – che si era opposto in questi
mesi al referendum per l’indipendenza perché contrario alla sua
tempistica – ha chiesto all’anziano leader curdo di dimettersi, di “sciogliere” il Krg proponendo un “governo di salvezza nazionale”.
In un comunicato apparso sul suo sito, Gorran ha accusato Barzani di
“essersi rifiutato di ascoltare le nostre istanze e quelle di Baghdad”
lasciando così l’intera regione curda “in un terribile crisi”. “Quello
che è accaduto ora – recita ancora la nota – non dimostra il fallimento
del nostro popolo o della nazione curda. Piuttosto è la sconfitta delle
autorità e degli ufficiali che hanno provocato la più grande crisi e
disastro per i curdi”.
Proprio quel referedum del 25 settembre che Barzani pensava
potesse essere il suo capolavoro politico nonché uno strumento per
rinsaldare il controllo del suo partito sull’intera regione autonoma
curda, si sta rivelando di ora in ora sempre più un enorme errore.
Nonostante infatti il pieno sostegno della popolazione (il 92% votò per
il Sì alla secessione dall’Iraq), le grandi potenze internazionali – a
partire dagli storici alleati Usa – e regionali avevano a più riprese
intimato al presidente di non portare avanti il suo piano. Il leader del
Pdk non ha dato loro ascolto ed ora è costretto a pagare le
conseguenze delle sue decisioni.
Politicamente: perché di fatto è stato isolato (e
con lui il Kurdistan iracheno). Il silenzio degli occidentali – quando
non le felicitazioni pubbliche – di fronte alle recenti riconquiste del
governo centrale iracheno a Kirkuk e nelle altre aree “contese”
controllate dai curdi non è casuale.
Economicamente: se si pensa
che le esportazioni di petrolio dal Kurdistan iracheno attraverso il
porto turco di Ceyhann si sono più che dimezzate (si viaggia
ora sui 200.000-250.000 barili al giorno rispetto ai 600.000 pre-crisi).
Per rimediare a questa ingente diminuzione, il governo iracheno ha per
ora aumentato le esportazioni a sud, nella regione di Bassora, dove, ha
riferito il ministro del petrolio sabato, è stato registrato un aumento
nelle esportazioni di 200.000 barili. Baghdad prova a ostentare
sicurezza rassicurando gli iracheni che si ritornerà presto alla
normalità (lo aveva promesso per ieri, ma questo non si è verificato).
Tuttavia questa “normalità” molto probabilmente escluderà il Krg,
partner ormai considerato del tutto inaffidabile per il governo
centrale.
Dal Kurdistan iracheno le reazioni sono blande: è come se ci fosse la
consapevolezza che a rischio non ci sia tanto l’indipendenza della
regione quanto l’autonomia stessa ottenuta quasi 30 anni fa. Le
tensioni esterne si ripropongono all’interno con le accese polemiche
politiche tra i due principali partiti kurdi, il Kdp del presidente
Barzani e il Puk dei Talabani, con il primo che accusa il secondo di
aver ordinato la ritirata da Kirkuk senza combattere.
Alla crisi interna, non potevano poi mancare le ingerenze esterne. Prima fra tutte quella Usa.
Venerdì gli Stati Uniti avevano chiesto a Baghdad di fermare le truppe e
di non ingaggiare altri scontri con quelle kurde nelle aree contese
precisando però che lo status di queste ultime non sarebbe stato deciso
dall’avanzata delle truppe del governo. Pur senza dirlo esplicitamente,
Washington, nei fatti, ha aperto ad un negoziato tra Baghdad e Irbil che
al momento appare molto difficile. Ad alzare la tensione ci ha poi pensato ieri il Segretario di Stato statunitense, Rex Tillerson. Da Riyadh, dove ha incontrato alti ufficiali del Golfo, Tillerson ha chiesto ai gruppi armati iraniani di lasciare l’Iraq.
“Ora che il combattimento contro lo Stato Islamico sta per finire,
queste milizie devono tornare a casa. Tutti i combattenti stranieri lo
devono fare”.
Si pronuncia Iraq, ma si legge come al solito Iran:
la visita del segretario rientra infatti negli sforzi compiuti dalla
nuova amministrazione a stelle e strisce e dalle monarchie del Golfo sue
alleate per fermare l’influenza iraniana nella regione mediorientale.
L’incontro, del resto, giunge a pochi giorni di distanza dalla decisione
del presidente Trump di non certificare l’accordo sul nucleare iraniano
lasciando che a decidere su questa spinosa questione sia il Congresso.
In questo quadro geopolitico appare ambiguo il ruolo svolto dall’Iraq di al-Abadi:
da un lato ha bisogno di Teheran per sconfiggere lo Stato Islamico, dall’altro lato, però, ha sempre più l’occhio rivolto all’Arabia Saudita
e agli Usa. La partecipazione di Baghdad ieri ad un vertice con la
monarchia wahhabita a cui ha preso parte anche Tillerson certifica
nuovamente come la forte rivalità tra i due paesi arabi sia solo un
lontano ricordo del passato.
Ore 16:00 L’Iraq respinge la richiesta Usa sulle unità filo-iraniane: “Nessuna interferenza sulle faccende irachene”
Il governo iracheno ha respinto la richiesta fatta ieri dal
Segretario di Stato Usa Tillerson secondo la quale le unità paramilitari
filo-iraniane presenti in Iraq devono “tornare a casa”. “Nessuno ha il
diritto di interferire nelle faccende irachene” si legge in una nota
dell’ufficio del premier Haider al-Abadi. “Le unità di mobilitazione
popolare sono formate da patrioti iracheni” recita ancora il comunicato.
Le elezioni presidenziali della regione del Kurdistan, intanto, non
avranno luogo il 1 novembre perché i partiti politici non sono riusciti a
presentare i candidati. A dirlo alla Reuters è stato oggi il capo della
commissione elettorale Hendrean Mohammed.
A parlare di Kurdistan iracheno è stato stamane anche il ministro
degli esteri russo, Sergei Lavrov. “Capiamo le speranze del popolo curdo
così come la loro aspirazione a rafforzare la propria identità e
coscienza di sé” ha detto Lavrov durante una conferenza stampa con il
suo pari iracheno Ibrahim al-Jaafari. “Tuttavia – ha aggiunto – crediamo
che sia giusto che tali desideri e speranze si realizzino solo
attraverso il governo iracheno e tenendo presente quale significato
abbia la questione curda sul piano regionale cercando di evitare i
motivi d’instabilità della regione”.
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