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31/07/2023

Dieci (2002) di Abbas Kiarostami - Minirece

Hollywood party, Hollywood strike


Jane Fonda, allo Starbucks Workers Rally di alcuni giorni fa, organizzato dal sindacato dei lavoratori della catena di ristorazione in sostegno ai lavoratori dello spettacolo in sciopero ed in picchetto di fronte al Quartier Generale di Netflix, ha spiegato che chi opera in questi diversi settori chiede fondamentalmente le stesse cose: «un posto di lavoro stabile, sicuro e dignitoso, con un salario che permetta di vivere».

I lavoratori della catena di ristorazione sono al centro di uno dei più interessanti processi di sindacalizzazione negli Stati Uniti, mentre i lavoratori dello spettacolo (prima gli sceneggiatori, seguiti dagli attori che si sono uniti a loro, organizzati rispettivamente dalla WGA e della SAG-AFTRA) sono in lotta contro i giganti di Hollywood.

È la prima volta dal 1960 che sceneggiatori ed attori “incrociano le braccia”, cioè da quando colui che divenne più tardi presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, guidava il sindacato degli attori.

I circa 160 mila attori e attrici iscritti alla Screen Actors Guild-American Federation of Television and Radio Artists (SAG-AFTRA), sono scesi in sciopero dopo che il tavolo negoziale tra le parti è saltato a metà luglio, mentre più di 11 mila sceneggiatori della Writes Guild of America (WGA) avevano incrociato le braccia ad inizio maggio.

Quest’azione sta mettendo in ginocchio le produzioni cinematografiche e televisive nord-americane. Kevin Klowdem del Milken Institute stima che gli scioperi possano costare all’economia nord-americana circa 4 miliardi di dollari.

Come emerge da una recente inchiesta di The Hollywood Reporter, che ha intervistato una dozzina di CEO delle aziende coinvolte rispetto al cambio di calendario della programmazione dovuta all’agitazione: «Nessuna decisione è stata presa. Questo in parte perché, alcuni affermano, molti sono ancora speranzosi che lo sciopero possa terminare presto. Altri stanno aspettando di vedere cosa faranno i propri competitor».

È chiaro che una dilatazione dei tempi potrebbe portare alla cancellazione dell’abbonamento da parte degli abbonati delle otto maggiori aziende che offrono programmi in streaming negli USA: Amazon’s Prime Video, Apple TV+, Disney+, Hulu, Max, Netflix, Paramount+ e Peacock.

Secondo un sondaggio riportato da WrapPro sono soprattutto i sottoscrittori di Hulu quelli più pronti a cancellarsi; un dato significativo, visto che i clienti della piattaforma sono il pubblico più “soddisfatto” della propria scelta.

Ma tutte le aziende avranno lo stesso problema.

Per dare un ordine di grandezza: Netflix ha 238,4 milioni di abbonati in tutto il mondo.

Sebbene gli streamers stiano dicendo a Wall Street che non si attendono un impatto significativo in tempi brevi dallo sciopero, la narrazione potrebbe essere costretta a cambiare, e non è detto che la “bolla finanziaria” su cui si regge il settore, insieme all’iper-sfruttamento dei suoi dipendenti ed alla “fidelizzazzione” dei propri clienti, non possa scoppiare.

La finanza ha trasformato Hollywood in un modello di business che ora tenta di sfruttare “il salto di qualità” tecnologico per una ristrutturazione complessiva.

Come ha scritto Xochtl Gonzalez per The Atlantic: «sotto la pressione per accontentare Wall Street, troppi amministratori delegati, hanno perso il copione del loro film. Non guidano aziende per sfornare un buon prodotto, come un libro o una tazza di caffè, o come in questo caso un film o uno show televisivo. Guidano le aziende per fare buoni profitti. La qualità del loro prodotto ha smesso di essere importante».

L’esempio più eclatante è quello di HBO Max, che ancora fa la parte del leone nelle nomine degli Emmy ma che è stata fatta scomparire da Warner Bross Discovery, che l’ha di fatto trasformata in una app incomprensibile infarcita di reality a basso budget.

Una volta “specializzata” in prodotti di qualità come le serie “The Wire”, “True Detective”, e “Game of Thrones”, è stata trasformata in quello che possiamo definire televisione spazzatura.

Quello a cui stiamo assistendo è uno sciopero storico contro un processo di ristrutturazione che ha al centro l’automazione, che vede differenti figure della “fabbrica dei sogni” lottare anche contro lo stravolgimento che il settore subirebbe con l’uso discrezionale dell’intelligenza artificiale (IA) nella catena produttiva dell’industria dell’intrattenimento.

Ma come ha detto Steve Buscemi, nel rally di attori e sceneggiatori del 25 luglio a New York, non è l’unica ragione.

«Siamo qua perché è tutto in stallo – una paga decente, la condivisione dei guadagni, la tutela della salute, i fondi pensione, un processo di selezione per i provini trasparente, la protezione dall’Ia ed eque compensazioni.»

Un piatto ricco di rivendicazioni.

Gli fa eco Bryan Cranston, che il pubblico conosce in particolare per la sua interpretazione in “Breaking Bad”: «ci stanno inchiodando per farci restare nello stesso sistema economico che è inadatto e datato. Vogliono che facciamo un passo indietro nel tempo. Non possiamo e non lo faremo».

Tanta è la determinazione vista in queste settimane, con picchetti e rally da una parte all’altra degli Stati Uniti, così come il livello di mediatizzazione della vertenza che ha come protagonisti persone universalmente conosciute su rivendicazioni che accomunano gran parte della working class statunitense.

Tornando al rally comune insieme ai lavoratori di Starbucks, rivolgendosi ai management delle rispettive aziende, uno dei capi negoziatori della SAG-AFTRA, Duncan Crabtree-Ireland, ha sostenuto che «Se il vostro modello di business da priorità a Wall Street mentre sfruttate i vostri dipendenti, siete dal lato sbagliato della storia, e ne affronterete le conseguenze».

Si tratta di una tipologia di discorso molto simile a quella con cui il presidente dei Teamstears, O’Brien, ha impostato la narrazione ed ha ottenuto il migliore contratto per i lavoratori di UPS nella storia, con una vittoria che ha travalicato – per il suo significato – i confini dei 340mila dipendenti statunitensi della multinazionale della logistica.

Settori molto diversi, ma accomunati dalla stessa condizione.

Nella parte finale del suo discorso il sindacalista dei lavoratori dello spettacolo, ringraziando per la solidarietà concreta al picchetto, ha concluso dicendo: «insieme, con una visione condivisa del futuro, possiamo ottenere qualsiasi cosa».

È la voce di mainstreet – della strada – che si leva contro Wall Street.

Ed i magnati dello spettacolo, come Bob Iger, CEO della Disney, fanno di tutto per “soffiare sul fuoco” come ha dimostrato con la sua infame intervista del 13 luglio alla CNBC, nella bucolica Sun Valley, con cui ha voluto testimoniare il proprio disappunto nei confronti delle richieste dei lavoratori.

Il miliardario è a capo di una delle aziende maggiormente coinvolte nella vertenza ed ha tacciato di “irrealistiche” le richieste del sindacato, colpevole di «aggiungersi all’elenco delle sfide che questo business sta già affrontando; cosa che è, francamente, molto disturbante».

Maria Antonietta non si sarebbe potuta esprimere meglio.

Grazie alle scelte fatte proprio da Iger, Disney è divenuto un “gigante dai piedi d’argilla” con le acquisizioni di Pisa, Marvell, Lucasfilm e FOX.

Nettare finora per Wall Street, fino a che la bolla regge, esattamente come per gli altri Big Player del settore, ma che potrebbe avere un effetto boomerang.

Certamente lo sciopero sta cambiando la percezione che il pubblico di alcuni attori e attrici televisive entrati nelle nostre vite attraverso i film e le serie.

Una delle storie più sorprendenti è quella di Fran Drescher, universalmente conosciuta attraverso la sua interpretazione nella “Nanny” negli Anni Novanta (“La Tata” che accudiva tre figli di una famiglia facoltosa dell’Upper East Side), alla testa della SAG-AFRA dal 2021, il cui discorso in cui si annunciava lo sciopero è divenuto virale.

Una presa di posizione che rifletteva sulle profonde trasformazioni del settore cambiato dallo streaming, dal digitale e della IA, in cui ha affermato: «Questo momento storico è un momento della verità. Se non ci solleviamo ora, saremo in pericolo», rischiando di essere sostituti dalle macchine e dal «big business a cui importa più di Wall Street che di noi e delle nostre famiglie».

Ma il curriculum della Drescher mostra come da tempo sia una paladina di varie battaglie, anche con posizioni radicali.

In una intervista a Vulture nel 2017 aveva affermato che il suo approccio era “anti-capitalista”: «l’avarizia del big business è attualmente il problema del sistema globale» (!).

Come darle torto...

E nella seconda stagione della “Tata”, in un episodio, si rifiuta di rompere un picchetto a Broadway, ricordando le tre regole fondamentali che sua madre le aveva trasmesso, di fronte al suo “datore di lavoro: «Never, ever, ever cross a picket line».

Una regola che sta mantenendo, insieme ai suoi colleghi, da quelli che divenuti volti conosciuti in popolari serie televisive dovevano poi arrangiarsi facendo altri lavori, o da vere e proprie star ed ora rischiano di essere sostituiti (dalla star alla comparsa fino allo stuntman, con un effetto caduta per tutto l’indotto) dall’intelligenza artificiale già nel corso dello sciopero.

Netfllix, Disney e Sony sembra si stiano muovendo in questa direzione per usare l’intelligenza artificiale in funzione di crumiraggio.

Un meme, ha trasformato la foto delle lettere della collina di “Hollywood” in “AI Wood”.

Una distonia che potrebbe diventare realtà contro cui i lavoratori dello spettacolo stanno combattendo.

Ci voleva l’azione dei lavoratori per far scoppiare l’ennesima bolla prodotta dall’oligarchia finanziaria nord-americana con la stessa forza travolgente dello strepitoso Peter Sellers in Hollywood Party.

Fonte

L’Emilia-Romagna: da illusorio «modello» a «hotspot della crisi climatica». Quale futuro immaginare?

Pochi giorni fa si è svolto a Cesena il convegno di Energia Popolare, la «non-corrente» (sic) bonacciniana del Partito Democratico. Tra gli ospiti Romano Prodi, che ha parlato della necessità, da parte del PD, di un «radicalismo dolce». Numerosi gli articoli e i servizi tv – per non dire delle photo opportunities su Facebook e Instagram – dedicati a quest’ennesimo pseudoevento politicante, ovviamente svoltosi in una sala con l’aria condizionata.

Mentre i notabili di Bonaccini – tutti con curriculum ominosi: alfieri della cementificazione, difensori di un’economia ecocida, favorevoli ai rigassificatori e quant’altro – se la cantavano e se l’applaudivano, nel mondo si batteva ogni record di temperatura e aumentava la frequenza di fenomeni estremi e disastri. L’Europa cuoceva a fuoco rapido. Le foreste canadesi bruciavano da mesi. Il fumo faceva tossire persone a migliaia di chilometri di distanza.

In capo a poche ore, sulla stessa Romagna che ospitava il convegno si sarebbe abbattuta, di nuovo, la furia degli elementi. Ma l’aria condizionata dà sollievo, aiuta a non pensare, a continuare col tran tran anche se fuori, letteralmente, si crepa di caldo e le città sono sempre più roventi... anche a causa dei condizionatori.

La mente condizionata della classe dominante

Quello che chiamano «mercato» è un circolo vizioso di stupidità e brevimiranza. Il mercato ha una mente bacata: se gli chiedi la soluzione al problema dell’afa, ti venderà macchine che aggravano il fenomeno, pompando aria calda all’esterno e aumentando consumi di elettricità ed emissioni climalteranti.

La maggior parte di noi ha un’esperienza dell’aria condizionata intermittente, passa da ambienti con ad altri senza, e da spazi chiusi a spazi aperti. Della canicola, quantomeno, se ne accorge. Invece la classe dirigente, a ogni livello, vive in una bolla pressoché interamente condizionata, passa da un ambiente di comfort artificiale all’altro, e crede di poter continuare a farlo. È uno dei fattori che rendono la gravità della situazione non ponderabile, impensabile. Lo ha detto bene un’attivista climatica filippina, Natasha Tanjutco, intervistata dal New Yorker: «No one can make a proper decision from an air-conditioned room».

Bisognerebbe sabotare gli impianti di condizionamento delle sedi istituzionali e dei quartieri generali delle grandi aziende, per vedere l’effetto che fa.

«La Romagna batte l’alluvione»

Il 20 luglio, accanto agli articoli al vuoto pneumatico sul convegno di Energia Popolare, il supplemento bolognese del «Corriere della sera» sparava un titolo che attirava la nostra attenzione:

Crescono fatturati e occupati, la Romagna batte l’alluvione: «Ora intervenire sui mutui»

Si parlava di un rapporto di Confindustria Emilia-Romagna. Siamo abituati da tempo all’angustia mentale e all’indolenza intellettuale dei padroni, eppure il titolo ci è parso oltraggioso – viste tutte le persone ancora in ginocchio, rovinate, traumatizzate – e soprattutto idiota, proprio nel senso originario di incompetente, ignorante. Tra noi abbiamo commentato: «La Romagna batte l’alluvione... fino alla prossima pioggia».

Di lì a poco, neanche a farlo apposta, sulla Romagna e sull’Emilia orientale, come in altre parti di val Padana, sono cadute grandinate inaudite, palle di ghiaccio del diametro di 10-15 centimetri hanno devastato le coltivazioni risparmiate dal fango del maggio scorso. È una conseguenza del surriscaldamento dell’atmosfera: l’aria calda rispinge più volte verso l’alto i chicchi di grandine, che continuano a ingrossarsi, e quando finalmente cadono sono enormi.

Oltre alla grandine, tempeste «downburst» – impropriamente chiamate  «trombe d’aria» – hanno colpito diversi centri, tra i quali Conselice, cittadina-simbolo dell’alluvione, scoperchiando tetti, distruggendo automobili, abbattendo decine di alberi e persino tralicci.

«Le prime tre file di ombrelloni»

Nel mentre, poco più a Sud, si abbatteva un’onda definita «anomala». Così la raccontava il 22/07 l’edizione pesarese del Resto del Carlino:

«Mentre la gente prendeva il sole e, a pochi chilometri da lì, in Emilia Romagna, una tempesta di grandine e vento aveva travolto gran parte della regione, si è formato un improvviso cumulo di nubi sempre più scuro, come se stesse per abbattersi sulla spiaggia una tromba d’aria. Raffiche di vento sempre più vigorose hanno cominciato a battere la spiaggia. Poi è stata questione di qualche secondo: un’ondata, o meglio un’improvvisa marea, ha raggiunto le prime tre file degli ombrelloni […] L’evento si è manifestato con intensità diversa un po’ su tutta la riviera, da levante a ponente fino a Senigallia, Portonovo e Ancona.»

Episodio meno anomalo di quanto sembri: rientra nel sempre più frequente susseguirsi di «mareggiate» che in realtà semplici mareggiate non sono. Finora accadeva più spesso d’inverno, quando al mare non c’era nessuno. Stavolta – ma non è la prima – ne hanno fatto esperienza i turisti. Non sono semplici mareggiate bensì manifestazioni di eustatismo, cioè di innalzamento del livello del mare dovuto al suo riscaldamento e al disgelo delle calotte polari.

Lo facciamo notare da anni: svariati studi dicono che entro il 2100 l’Adriatico potrebbe alzarsi di circa un metro e sommergere l’attuale entroterra nord-adriatico. I territori in cui entrerebbe più a fondo sono i polesini veneti e ferraresi, ma è a rischio un’area che va dal nord delle Marche a Trieste.

Il fenomeno è già in corso. Una sua avanguardia è il «cuneo salino», la risalita dell’acqua di mare lungo corsi d’acqua indeboliti da lunghi periodi di siccità. Durante l’estate, l’acqua salata risale il corso del Po di decine di chilometri. Quell’acqua non solo è inutilizzabile per irrigare i campi, ma permea il terreno, mettendo in pericolo la vegetazione e nel tempo contaminando le falde d’acqua potabile.

Non è che l’inizio del problema, perché quella che arriverebbe nei territori non sarebbe semplice acqua, ma una melma altamente infetta e tossica.

Dopo decenni di speculazioni spinte dal turismo di massa, la costa adriatica è pesantemente urbanizzata, cementificata. Passando in quelle aree, l’acqua salata si comporterebbe come quella dei fiumi emiliano-romagnoli esondati nel maggio scorso. Le alluvioni hanno fatto scoppiare le fogne, travolto cassonetti e discariche, trascinato via quantità inimmaginabili di liquami e spazzatura, strappato a case, negozi, magazzini e fabbriche ogni sorta di sostanze chimiche e carburanti. «Consumo di suolo» vuol dire anche questo: sempre più schifezze sono dove non dovrebbero essere.

L’acqua del mare farebbe lo stesso, ma su una scala ben più vasta.

Nelle proiezioni da qui al 2100, la linea di costa recede in modo drastico, cedendo terreno a un Adriatico – questo nelle mappe non si vede – via via più inquinato. Un vasto entroterra reso inabitabile, profughi climatici, scomparsa di terreni agricoli, perdita di falde d’acqua potabile, inquinamento dell’aria, miasmi annusabili a decine e decine di chilometri di distanza... Anche i territori non raggiunti direttamente dalla melma subirebbero conseguenze gravissime.

Accadrà, se non si fa qualcosa prima, qualcosa che non sia un mero rattoppo, un tentativo di prolungare il presente e ritardare l’inevitabile.

Fai il bagno in mare e ti viene la candida

Già oggi, dopo l’arrivo dei fanghi delle alluvioni, in riviera l’Adriatico è una broda infetta. Un’amica farmacista ci racconta che decine di persone le chiedono prodotti contro infezioni genitali e intestinali, tutte insorte dopo il weekend in spiaggia. Altre testimonianze parlano di eczemi ed eruzioni cutanee di vario genere. «Correlazione non è causalità», ma è lecito pensare che la decisione di dichiarare l’Adriatico balneabile sia stata più politica che altro.

Qualcuno ci ha detto che il mare fa schifo al tocco. «Raramente l’ho trovato così sporco», riferisce un amico. Forse dovremmo rovesciare l’assunto: difficilmente lo vedremo ancora così pulito.

La testa nella sabbia

Da qualunque parte lo si guardi, il turismo balneare in riviera non ha futuro, è condannato. Già oggi è tenuto in vita con un meccanismo che pare escogitato da Zeus per punire Sisifo: ogni anno, in vista della stagione, si importano colossali quantità di sabbia – da altri luoghi devastati ad hoc – per ricreare le spiagge consumate.

Su quest’aspetto e altri che riguardano l’erosione delle nostre coste consigliamo l’agile ma denso libretto di Alex Giuzio La linea fragile. Uno sguardo ecologista alle coste italiane (Edizioni dell’Asino, Bologna, 2022).

Giuzio descrive molto bene il convergere di vari processi: la cementificazione e le attività estrattive targate ENI causano subsidenza – abbassamento del suolo – proprio mentre il mare s’innalza. Descrive anche una classe di amministratori che

«davanti all’inevitabilità del problema, anziché ragionare di piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari, si sono sempre concentrati a conservare una situazione a misura di turista, limitandosi a ributtare ogni inverno la sabbia perduta per far trovare la spiaggia pronta per la stagione degli ombrelloni.»

Amministratori non solo miopi ma servi dei servi di ENI:

«Nel ravennate, per esempio, le piattaforme “Angela” e “Angelina” di ENI – situate ad appena due chilometri dalla costa – hanno provocato l’abbassamento del suolo di 45 centimetri dal 1984 al 2011, con le spiagge di Lido di Dante, Lido Adriano e Punta Marina che sono letteralmente sprofondate e che sono oggetto di continui ripascimenti finanziati in parte da fondi pubblici e in parte dalla stessa ENI: la potente multinazionale dal 1993 firma infatti un accordo triennale col Comune di Ravenna che prevede il versamento di cifre importanti (nel triennio 2018-2020, l’ultimo disponibile, si trattava di tre milioni di euro all’anno) a titolo di compensazione dell’impatto ambientale della propria attività estrattiva al largo. Tali fondi sono usati soprattutto per costruire e manutenere i pennelli anti-erosione e per ripristinare con i ripascimenti la sabbia perduta […] oltre a questi tre milioni di euro annui, la presenza di ENI nel ravennate significa migliaia di posti di lavoro e altri milioni di euro in sponsorizzazioni per qualsiasi evento culturale e sportivo – dalle stagioni teatrali alle partite di volley e pallacanestro, dai concerti di Riccardo Muti al “mese dell’albero in festa” durante il quale i bambini di tutte le scuole elementari e dell’infanzia piantano nuovi alberi – cittadini e amministratori locali non sono propensi a contestare la potente multinazionale.»

En passant: stante questa subalternità ai combustibili fossili, a chi li estrae e a chi ne incentiva l’uso, non c’era da attendersi alcun dissenso sul rigassificatore a Ravenna. Certo non a livello locale, e nemmeno a livello regionale: Bonaccini il rigassificatore lo volle, sempre volle, fortissimamente volle, tanto da “blindarlo” contro le critiche – comunque poche – circolate nella sua coalizione.

Non rattoppi ma ripristino di ecosistemi

Non si può continuare così. Né si può pensare di ergere dighe o scogliere artificiali pur di tenere in vita il turismo e, in generale, lo status quo.

Giuzio accenna a «piani di arretramento gestito, interruzione delle cause antropiche dell’erosione e conversione e decementificazione delle attività turistico-balneari».

Per convertire l’attuale economia rivierasca è indispensabile partire da una constatazione: quel modello è comunque destinato al tracollo.

Permetteteci, da scrittori, di mediare al rialzo, cioè di prefigurare scenari che i politici non osano o non sono in grado di immaginare. Tanto saranno loro a mediare al ribasso, in nome di una realpolitik sempre più staccata dalla realtà.

La costa adriatica va decementificata e depavimentata il più possibile, per ripristinare gli ecosistemi precedenti all’urbanizzazione – dune e foresta litoranea – e, in alcuni casi, alle bonifiche.

Attuate un po’ ovunque negli immediati entroterra di Friuli, Veneto ed Emilia-Romagna, dalla fine dell’Ottocento a oggi le bonifiche hanno privato quei territori di preziose zone umide, ecosistemi ideali a catturare e immagazzinare carbonio. All’epoca dei prosciugamenti non si poteva sapere, e l’ordine di problemi era un altro, ma oggi si sa, e avrebbe senso invertire la rotta. Del resto, molte bonifiche furono controverse, contestate già all’epoca e oggi ritenute fallimentari. Sul caso ferrarese, si può vedere il bel documentario Dall’acqua ai campi, dai campi al silenzio (2016).

I posti di lavoro – sovente lavoro precario, supersfruttato, sottopagato – nel turismo di massa sarebbero sostituiti da nuovi e meno frustranti impieghi, quelli generati da una grande riprogettazione ecologica del territorio e da un grande recupero, seguito da una cura perenne, degli ecosistemi.

Tutto questo costituirebbe una barriera reale e sensata all’erosione costiera e alla catastrofe ambientale nell’entroterra. Non solo: potrebbe attrarre una nuova curiosità ecologica ed estetica, su cui fondare un “turismo” – urge coniare un nuovo termine – lontano da quello omologato e rapace di oggi.

È un approccio che si può traslare e adattare a tutti i territori minacciati. Alcuni dei quali possono diventare strategici laboratori. È il caso del basso ferrarese, del quale ci siamo più volte occupati, e su cui torneremo.

È chiaro che simili suggestioni vanno contro l’interesse immediato di troppe lobby e potentati economici, contro abitudini diffuse e consolidate, contro la spinta inerziale dell’esistente. Per questo non verranno mai raccolte dall’attuale classe dirigente – locale, regionale, nazionale o europea che sia. Classe dirigente di cui sarebbe d’uopo, e urgente, sbarazzarsi.

La precondizione per sbarazzarsene è saper immaginare un futuro diverso.

I punti di forza erano in realtà punti deboli

La val padana – cuore pompante del capitalismo italiano, nonché area tra le più inquinate, cementificate e surriscaldate d’Europa – è il territorio che subisce nel modo più spettacolare gli sconquassi del caos climatico.

In val padana, l’Emilia-Romagna è la regione più flagellata da eventi «estremi». E non è un caso.

Come abbiamo scritto in articoli precedenti, le attività e produzioni su cui si basano il mitico «benessere» e il mitico «buongoverno» emiliano e romagnolo sono quanto di più tossico e climalterante si possa immaginare. I presunti punti di forza dell’economia di queste parti  – un mix di plastica, motori, cemento e tondino, poli logistici, agroindustria, allevamenti intensivi e turismo di massa – si stanno rivelando punti deboli. Sembravano punti di forza, e si menava vanto del loro successo, perché si tenevano ambiente e clima fuori dal quadro. Ora ambiente e clima sono rientrati con violenza, e l’economia emiliano-romagnola si rivela la peggiore possibile.

Facciamo un solo esempio: la plastica.

La plastica ci sta avvelenando, come ha titolato di recente il New Yorker. Lo fa perché si decompone in micro e nanoplastiche (MNP) che si disperdono nell’ambiente, raggiungendo gli angoli più remoti del pianeta, infiltrando gli organismi a monte e a valle della catena alimentare. Il mare è pieno di MNP. Tutto è pieno di MNP. Le mangiamo e le beviamo. S’infilano nel nostro cervello e aumentano il rischio di Alzheimer e altre malattie degenerative; sono nei nostri fluidi corporei e mettono a forte rischio la fertilità maschile (andrebbe fatto notare ai fascisti, che si lamentano della «denatalità» e al tempo stesso difendono l’industria della plastica!); sono nella placenta umana, ancora non si sa con quali conseguenze.

Riciclare la plastica non solo è una falsa soluzione, ma aggrava il problema, perché il processo produce ulteriori microplastiche e secondo sempre più ricerche la plastica risultante è tossica e può contaminare gli alimenti con cui entra a contatto.

Come? La «bioplastica»? Ma figurarsi... La bioplastica, o «plastica compostabile», è plastica e basta. Il suo uso è al centro di una grande truffa ideologica. Come ha ben titolato The Atlantic, «la plastica compostabile è spazzatura».

L’unica via praticabile è vietare la produzione e l’uso di plastica monouso, superare la cultura dell’usa-e-getta. Poi andranno trovati modi di decontaminare, rimuovere la maggior quantità possibile di plastica dai corsi d’acqua, dai mari, dall’ambiente. Ma prima va fermata la produzione.

A fronte di tutto questo, è accettabile, è all’altezza della situazione e delle sfide del nostro tempo il fatto che in Emilia-Romagna la «Packaging Valley» sia considerata un’eccellenza, un fiore all’occhiello, una realtà da tutelare così com’è, anziché un grosso problema?

Parliamo delle circa duecento aziende situate nel cuore dell’Emilia che fabbricano, citiamo da un entusiasta reportage del Sole 24 Ore,

«apparecchi che dosano e impacchettano sigarette, medicine, saponi, cosmetici, bibite, alimenti, mobili... Tutto ciò che ogni giorno passa tra le nostre mani con una confezione rigida o flessibile attorno».

Produzione incentrata sulla plastica, finalizzata alla diffusione di plastica, fondata sulla cultura dell’usa-e-getta.

Sono le stesse aziende che dal 2019 si sono opposte a una modesta, inadeguata tassa sull’uso di plastica monouso per gli imballaggi, neanche fosse una misura rivoluzionaria, facendone rinviare l’introduzione e infine riuscendo a farla saltare.

Bonaccini, com’è ovvio, stava dalla loro parte.

La destra, la «sinistra» e l’ipocrisia climatica

Il caso di studio dell’Emilia-Romagna dimostra... plasticamente che il problema non sta solo nella destra «negazionista» e nel circolo vizioso da cui essa trae beneficio, ben descritto da George Monbiot sul Guardian:

«Mentre l’impatto dei nostri consumi si fa sentire a migliaia di chilometri di distanza e le persone arrivano ai nostri confini cercando disperatamente rifugio da una crisi che non hanno avuto quasi nessun ruolo nel causare – crisi che può includere vere inondazioni e vere siccità – [le destre] annunciano, senza un briciolo di ironia, che siamo “inondati” o “prosciugati” dai profughi, e milioni di persone si uniscono al loro appello a sigillare i nostri confini […] Quando i governi si spostano a destra, bloccano le politiche volte a limitare il collasso climatico […] Se volete sapere come si presenta un possibile futuro – un futuro in cui si permette a questo ciclo di accelerare – pensate al trattamento dei rifugiati attuali, amplificato di diversi ordini di grandezza. Già oggi, alle frontiere europee, i profughi sono respinti in mare. Vengono imprigionati, aggrediti e usati come capri espiatori dall’estrema destra, che allarga il proprio appeal incolpandoli di mali in realtà causati dall’austerità, dalla disuguaglianza e dal crescente potere del denaro in politica […] Ovunque, possiamo aspettarci che il successo [della destra] sia seguito da una riduzione delle politiche climatiche, con il risultato che un numero sempre maggiore di persone non avrà altra scelta se non quella di cercare rifugio nelle zone sempre più ristrette in cui la nicchia climatica vivibile rimane aperta: spesso proprio le nazioni le cui politiche li hanno cacciati dalle loro case.»

Vero, ma parziale.

Con tutto lo schifo che fa l’estrema destra, e con tutti i pericoli che d’ora in poi ci farà correre, la maggiore responsabilità dell’attuale situazione ce l’hanno il centro e la «sinistra» neoliberali. Sono stati loro a governare la globalizzazione capitalistica climalterante, a farci sprecare tempo prezioso con finte politiche climatiche come l’«Emission Trading», e sono loro a fare greenwashing mentre tutelano gli interessi di multinazionali ecocide e portano avanti i modelli di sempre.

Quanto agli orrori dei respingimenti, dei porti chiusi e delle morti in mare, delle detenzioni e violenze in Libia, l’ideologo di tutto questo è stato Marco Minniti, dirigente del PD, dal dicembre 2016 al giugno 2018 ministro degli interni di un governo italiano di «centrosinistra». È un dato di fatto noto a livello internazionale, tanto che, nel marzo 2019, Minniti fu accolto alla London School of Economics da contestatori e contestatrici con le mani imbrattate di sangue finto.

Tornando alle questioni climatiche, mentre la destra dichiarata se ne fotte in modo esplicito, la «sinistra» è più ipocrita: finge di averle a cuore, ma se ne fotte almeno altrettanto.

Se c’è un luogo dove tale atteggiamento è giunto al suo picco, quel luogo è l’Emilia-Romagna. E se c’è una capitale dell’ipocrisia climatica, quella è Bologna.

Qui da noi si può definire «opera simbolo della transizione ecologica» un’autostrada a diciotto corsie che passerebbe dentro la città, aumentando il traffico urbano – sono stime dei proponenti stessi – di 25.000 veicoli al giorno e facendo da volano a decine di altre opere asfaltizie – allargamenti, raccordi, bretelle, svincoli, parcheggi – a Bologna e nel suo circondario.

Qui da noi il Comune disegna erba e fiori intorno ai cassonetti perché «nessuno abbandonerebbe un sacchetto di rifiuti in mezzo a un prato», mentre si distrugge il verde vero, disboscando e buttando giù alberi ovunque.

Non può durare.

Il vento delle tempeste rimuoverà il velo.

Le lotte dovranno fare il resto.

Fonte

Energia, cambiare si può

Alle falsità e alle farneticazioni di chi vuole che tutto rimanga così com’è, si deve rispondere con i numeri. Un impianto fotovoltaico domestico al silicio con pannelli della durata di 20/25 anni, da gennaio ha prodotto 3 MWh di energia elettrica ed evitato l’emissione in atmosfera di oltre 1 tonnellata di CO2. La produzione non solo è sufficiente da metà aprile a metà ottobre per un casa che assorbe più del normale perché non ha fornitura di metano, ma durante l’estate esporta energia in rete, sufficiente per altre due abitazioni. In inverno la copertura del fabbisogno varia in base alle giornate soleggiate ma il contributo dato dell’impianto è comunque significativo in un ordine che va dal 30% al 50% dei consumi.

Attualmente, la produzione di energia elettrica da fotovoltaico corrisponde a meno del 10% del fabbisogno energetico complessivo nazionale. Se chi governa si decidesse a investire seriamente nel settore, questa quota potrebbe salire rapidamente ponendo il paese al primo posto nel mondo, senza parlare dei vantaggi che arriverebbero con il sostegno alla ricerca e alla sperimentazione sulle possibilità offerte da altri tipi di materiali idonei a produrre l’effetto fotovoltaico e allo stoccaggio. Questo tipo di produzione è intermittente e quindi da sola non può bastare al fabbisogno totale, ma può certamente diminuire e di molto la dipendenza dalle centrali termoelettriche.

Il suo grande vantaggio è la netta diminuzione dei costi di vendita e installazione, e la grande adattabilità. Se si volesse perseguire davvero una via d’uscita dal ricatto che i combustibili fossili esercitano su ognuno di noi, si potrebbe decidere di rivedere gli ostacoli di legge che impediscono l’installazione su molte abitazioni, provvedere al montaggio dei pannelli su tutti gli edifici pubblici e sui condomini, favorire le comunità energetiche locali, per non parlare dei posti di lavoro che si potrebbero ottenere. Non abbiamo bisogno di grandi compagnie né di grandi impianti che sottraggono terreno coltivabile ma di una copertura massiccia sui tetti di case, degli uffici e delle aziende. Un’azione a livello locale, che metta in moto una quantità di piccole imprese e di cooperative.

Nessun governo si mai posto un obiettivo del genere, non perché non ci siano i soldi da spendere nell’arco di 10 anni, ma perché questo tipo di iniziativa (insieme al risparmio, all’efficientamento e a una miscela di altre fonti rinnovabili di cui non fanno certamente parte il metano ne tanto meno il nucleare) è il veicolo giusto per andare verso l’indipendenza energetica. Con una produzione di 100TWh/anno eviteremo l’importazione di 20 miliardi di metri cubi di metano che ci costano 7 miliardi di euro.

Produrre e consumare sul posto da fonti rinnovabili infatti non ha rivali, specialmente ora che si sono abbassati i costi di produzione e si va verso un riciclo quasi totale dei materiali impiegati. Da un pannello fotovoltaico comune, di circa 22 kg di peso, è infatti possibile recuperare 0,1 kg di schede elettriche, 0,2 kg di metalli vari, 1,7 kg di plastiche, 2,8 kg di silicio, 2,9 kg di alluminio, e 13,8 kg di vetro. Non sorprende pertanto come in un’atmosfera pesantemente perturbata dalle pressioni di chi non intende cambiare niente, proprio oggi, il governo, abbia cancellato dalle spese ben 6 miliardi che in un primo momento erano stati destinati a interventi di efficienza energetica.

Di questo passo non ne usciremo mai.

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Gli USA rinfocolano le tensioni su Taiwan

Una nota della Casa Bianca ha annunciato un nuovo pacchetto di armi per Taiwan, del valore di 345 milioni di dollari. Varie fonti interne avevano fatto trapelare nelle ultime settimane questa intenzione, ed è arrivato infine l’annuncio ufficiale da Washington.

I fondi saranno usati per implementare anche servizi militari e percorsi di addestramento, mentre non è stata fornita alcuna lista degli armamenti che verranno inviati. Secondo dichiarazioni riportate in anonimato, oltre a munizioni per armi leggere, vi sono attrezzature di intelligence, sorveglianza e ricognizione.

Sembrano quindi confermarsi altre quattro voci che volevano un imminente trasferimento sull’isola di droni MQ-9A Reaper disarmati, anche se rimaneva incerto. Ad ogni modo, da questi strumenti sarebbero state rimosse alcune delle attrezzature avanzate che la US Air Force non vuole condividere.

È più o meno la stessa logica che sarà usata per gli M1A1 Abrams che saranno spediti in Ucraina, probabilmente a partire da settembre: le più avanzate tecnologie saranno tolte dai mezzi.

In questo caso c’è anche la paura che finiscano in mano russa, ma nella previsione di un inasprimento dello scenario internazionale, a Washington devono avere gli stessi timori riguardo questi droni che sarebbero usati per la sorveglianza del Dragone.

Non sembra fuori luogo mettere in collegamento lo scenario ucraino con quello taiwanese. Infatti, anche se non è la prima volta che ingenti sostegni militari vengono concessi a Taipei, la novità è che è la prima occasione in cui si è ricorsi all’utilizzo della Presidential Drawdown Authority (PDA), attraverso la quale nel bilancio 2023 si era stanziato fino a 1 miliardo per l’arcipelago a sud della Cina.

La PDA è uno strumento della politica estera statunitense per situazioni di crisi, e permette spedizioni accelerate di materiale militare direttamente dalle scorte del Pentagono.

È un percorso già usato 43 volte dagli USA per l’Ucraina... sin dall’agosto 2021, “in risposta alla preparazione della Russia all’invasione su larga scala dell’Ucraina del 24 febbraio 2022”, si può leggere – in traduzione – direttamente sul sito del Dipartimento di Stato di Washington.

Ovviamente non significa che mancano sei mesi all’apertura di un fronte del Pacifico di questa “terza guerra mondiale a pezzi” che l’imperialismo euroatlantico conduce per mantenere il proprio privilegio e la propria egemonia.

Ma segnala un ulteriore passo sulla via dell’escalation da parte occidentale, tanto più se gli Stati Uniti hanno già stanziato soldi per altri due invii di armi come questo solo per quest’anno.

Tensioni di cui l’inasprimento è stato condannato dalle autorità di Pechino. Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, ha affermato che “gli Stati Uniti devono smettere di vendere armi a Taiwan, smettere di creare nuovi fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan e smettere di rappresentare rischi per la pace e la stabilità nello Stretto”.

Secondo il Taiwan Relations Act, gli USA si impegnano a sostenere Taipei e le sue capacità di autodifesa, ma non a intervenire in caso di conflitto, mentre continuano a ribadire il loro sostegno alla politica di «Una sola Cina». E come con l’Ucraina continuano a rendere l’isola una polveriera, come al solito ben lontana dal mettere in pericolo i lidi americani.

Pechino, però, oltre che sulla sua politica di distensione e di collaborazione internazionale, può contare sulla crisi materiale ed egemonica dell’Occidente, e sull’inevitabile emergere del multipolarismo. Washington continuerà a fomentare conflitti in giro per il mondo, ma è difficile che continuerà a trovare paesi e opinioni pubbliche supine come in passato.

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La dialettica di globalizzazione e deglobalizzazione nello scontro tra USA e Cina

di Domenico Moro

Recentemente sono avvenuti dei fatti riguardo ai quali i mass media italiani non hanno dato il giusto risalto e che dimostrano, da una parte, l’estendersi del contrasto tra Usa e Cina e, dall’altra parte, l’emergere di contraddizioni interne, che investono l’Occidente, in particolare gli Usa.

Il confronto competitivo tra Usa e Cina, che è la vera cifra delle relazioni internazionali odierne insieme alla guerra in Ucraina, si estende sempre di più nel campo economico. Si tratta di una vera e propria guerra economica, che vede protagonisti i due colossi mondiali. Poco tempo addietro, gli Usa avevano bloccato le esportazioni di microchip alla Cina, che, per ritorsione, aveva bloccato l’esportazione di materie prime come il gallio e il germanio decisive per la fabbricazione di prodotti ad alta tecnologia, tra cui anche i microchip.

Ora il conflitto si estende alla rete dei cavi sottomarini che rappresentano un aspetto decisivo delle comunicazioni e quindi dell’economia mondiale. Infatti, attraverso una rete di 1,4 milioni di chilometri di cavi poggiati sul fondo del mare passa il 96% del traffico di dati e voce. Senza questa rete di cavi non ci sarebbe globalizzazione. Pertanto, il controllo su questi cavi è fondamentale per controllare l’economia mondiale. Dal momento che la posa di questi cavi è portata avanti soprattutto da società statunitensi, qualsiasi intromissione di società cinesi viene vista come potenzialmente pericolosa e quindi da contrastare.

Un esempio è rappresentato da SeMeWe6 un cavo da 19.200 km di fibra che entro il 2025 dovrà connettere Singapore a Marsiglia passando per l’Egitto. La commessa era stata vinta dalla ditta cinese HMN Tech, che per i suoi servizi chiedeva 475 milioni di dollari. Tuttavia, a cominciare i lavori è un’altra ditta, la statunitense SubCom, malgrado la richiesta, 600 milioni di dollari, fosse superiore. L’intervento del governo statunitense ha determinato l’estromissione della ditta cinese a favore di quella americana[i].

Ma questo non è il solo caso di intervento dell’amministrazione americana. Nel 2020 il governo degli Usa ha di fatto vietato il collegamento diretto via cavo sottomarino tra Los Angeles e Hong Kong. Dopo varie polemiche, il cavo si è fermato nelle Filippine e a Taiwan, tagliando fuori la Repubblica popolare cinese. Inoltre, le contese tra Cina e Usa sulla sovranità nel Mare cinese meridionale hanno spinto diversi consorzi industriali, da Apricot a Echo, a creare un nuovo hub dei cavi nell’isola di Guam, che è controllata dagli Usa. In sintesi, possiamo dire che fino ad ora gli Usa sono riusciti a limitare la presenza cinese nei cavi sottomarini: la cinese HMN Tech è attiva solo nel 10% dei cavi esistenti o pianificati.

La Cina, però, non sta a guardare, anche perché ha capito che il confronto competitivo con gli Usa si gioca soprattutto nell’alta tecnologia, nella quale ha incrementato gli investimenti. Una parte importante di questi è connessa alla Via digitale della seta, in particolare al Peace cable, una struttura che parte dal Pakistan, tocca Kenya, Gibuti e Egitto, e arriva a Marsiglia. Tale infrastruttura permette alla Cina di avviare o consolidare le proprie attività commerciali in Africa, continente con la maggiore crescita demografica e con un’ampia disponibilità di materie prime. Altro cavo importante controllato dalla Cina è il Sail, tra Camerun e Brasile. Inoltre, ci sono i nuovi progetti cinesi, come l’Ema, progetto di cavo sottomarino da 500 milioni di dollari, che collegherà Asia e Europa, passando per il Medio Oriente. In questo caso, l’obiettivo della Cina è fare concorrenza ai cavi esistenti sotto il controllo statunitense.

La conseguenza finale di questo scontro tra gli Usa e la Cina potrebbe essere la nascita di due Internet, ossia la spaccatura della rete, che determinerebbe la creazione di due network, uno sotto il controllo Usa e l’altro sotto il controllo cinese. La spinta alla separazione è determinata dal fatto che decidere dove, quando e come costruire un cavo permette di intercettare le informazioni e creare dipendenza tecnologica. I proprietari dei cavi possono inserire backdoors e altri meccanismi di sorveglianza. Inoltre, ciò che è sicuro adesso, grazie alla tradizionale crittografia, può non esserlo nel futuro a causa dei computer quantistici. Da tutto questo nasce la tendenza a separare le reti di cavi, introducendo barriere fisiche e virtuali per la protezione dei propri dati.

Gli altri fatti importanti da considerare nei processi di frammentazione del mondo globalizzato riguardano le contraddizioni interne al blocco occidentale e alle aree sotto la sua influenza. Un primo esempio di queste si è manifestato durante il summit tra Ue e Celac, che comprende 33 paesi latino-americani. In questo summit la Ue voleva far uscire un documento finale di condanna della Russia per lo scoppio della guerra in Ucraina. Questo non è stato possibile, per l’opposizione di alcuni paesi latino-americani[ii]. Del resto nel febbraio scorso all’Onu una risoluzione di condanna della Russia aveva registrato il voto contrario del Nicaragua e l’astensione di Bolivia, Cuba e El Salvador. Neanche nel G20 si è manifestata una visione unitaria sulla guerra in Ucraina, un conflitto percepito in modo crescentemente diverso tra i vari continenti. Molti paesi, specialmente quelli dell’Africa, ma anche dell’America latina, si stanno volgendo verso i Brics e la Cina. Tra questi c’è l’Algeria, che è un paese fondamentale per i rifornimenti di gas all’Italia e all’Europa in sostituzione di quelli russi, e che nei giorni scorsi ha fatto richiesta di entrare nella Nuova Banca dello Sviluppo, la banca di Brics. La richiesta algerina è stata prontamente accettata dalla Cina, facendo crescere il malumore degli Usa.

Ma la contraddizione più eclatante è forse quella all’interno degli Usa. Come abbiamo detto sopra, l’amministrazione Biden ha bloccato le esportazioni di microchip verso la Cina, che, a sua volta, ha interrotto l’esportazione di materie prime strategiche verso gli Usa. La Semiconductor Industry Association, l’associazione delle aziende statunitensi del settore, ha invitato con decisione l’amministrazione Biden ad astenersi da ulteriori restrizioni sulle vendite di chip alla Cina. Secondo gli industriali americani, tra cui ci sono colossi come Intel, Qualcomm e nVidia, la guerra sugli scambi tecnologici e i nuovi limiti all’export allo studio a Washington potrebbero determinare pesanti danni e rischiano di vanificare il Chips Act. Quest'ultimo è il piano di sostegno all’industria tecnologica varato da Biden, che mette in campo la cifra imponente di 280 miliardi di dollari per sostenere la ricerca scientifica e in particolare la produzione di semiconduttori. In particolare, Biden sta valutando la possibilità di varare un ordine esecutivo che dovrebbe includere limiti all’accesso da parte di gruppi cinesi ai chip necessari per sviluppare tecnologie di intelligenza artificiale più avanzate. Contro questa decisione si è schierata nVidia, sostenendo che un divieto alle esportazioni di chip per l’intelligenza artificiale in Cina “porterebbe a una perdita permanente di opportunità per l’industria statunitense e per la sua competitività”.[iii]

I grandi gruppi statunitensi dell’high tech e in particolare quelli dei semiconduttori temono ritorsioni da parte della Cina, che è un mercato per loro importantissimo. Qualcomm è l’unica azienda con una licenza da parte delle autorità statunitensi per vendere chip per telefoni cellulari a Huawei Technology. nVidia sta vendendo un chip IA (intelligenza artificiale) ottimizzato per il mercato cinese, mentre l’amministratore delegato di Intel recentemente si è recato in Cina per promuovere la vendita di suoi chip IA. Appare così evidente che il conflitto crescente tra Cina e Usa produce spaccature all’interno del capitale statunitense: una frazione, quella high tech e dei semiconduttori, è contraria alla separazione tra l’economia Usa e quella cinese, mentre altre frazioni, tra le quali il complesso militare-industriale e l’industria estrattiva, premono per una maggiore separazione, preoccupate che le esportazioni di tecnologie statunitensi possano favorire l’economia e soprattutto l’industria bellica cinese. La stessa creazione di due reti di cavi sottomarini distinte mette a rischio il simbolo stesso della globalizzazione, Internet.

In sintesi il quadro, che ci offrono i fatti sopra elencati, dimostra che lo scontro geopolitico e strategico con la Russia e soprattutto con la Cina si caratterizza per una contraddizione all’interno degli Usa (ma anche della Ue) che si divarica sempre di più: quella tra le forze politiche ma anche economiche tese a produrre la frammentazione del mercato mondiale, altrimenti detta deglobalizzazione, e quelle forze politiche ed economiche che tentano la difesa dell’unità del mercato mondiale, vale a dire la globalizzazione. Per ora sembra che queste forze si equilibrino. Anche perché recentemente alcuni esponenti dell’establishment Usa sono andati in visita a Pechino per cercare di ricucire un rapporto che si sta incrinando sempre di più. Di particolare importanza sono stati il recente viaggio del ministro del Tesoro Janet Yellen, che evidentemente rappresenta le preoccupazioni per la possibile fine degli acquisti di titoli di stato statunitensi da parte della Cina, e il viaggio pure recente di Henry Kissinger, che, sebbene si sia presentato da privato cittadino, è stato ricevuto al più alto livello dal presidente Xi Jinping e sicuramente rappresenta una frazione importante del capitale Usa.

Probabilmente, almeno per ora, più che a una deglobalizzazione vera e propria, fondata sul disaccoppiamento delle economie cinese e Usa (e Ue), quello a cui stiamo assistendo è l’inizio di un processo di de-risking, cioè di riduzione del rischio dell’interruzione delle catene del valore. Con il de-risking la tendenza è quella di accorciare le catene del valore posizionando i vari processi di produzione e di fornitura di materie prime, semilavorati e componentistica in aree geopoliticamente più sicure, reinternalizzando le attività all’interno delle aree, Usa, Ue e Giappone, che maggiormente avevano delocalizzato nel periodo espansivo della globalizzazione. Il problema è che le aree sicure, cioè dipendenti e controllate dal G7, ossia dall’Occidente collettivo, non sono sempre così sicure, visto che molti paesi che rientrano nella sfera di influenza occidentale si stanno volgendo verso i Brics e in particolare verso la Cina.

Per concludere, possiamo dire che la contraddizione globalizzazione-deglobalizzazione è il riflesso delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico, nella sua fase imperialista. Il capitale è insieme la tendenza a superare continuamente i limiti del mercato e la competizione perenne tra le sue parti, accentuata dalla crescita ineguale, che determina protezionismo e sanzioni. Per questo il capitale vive di una dialettica perenne tra estensione e frammentazione del mercato mondiale. Il punto è capire di volta in volta quale delle due tendenze presenti prevalga, se la globalizzazione o la deglobalizzazione. Capire questo è importante anche per comprendere se e come si verificheranno delle guerre. Infatti, sebbene guerre limitate e a bassa intensità siano possibili anche in fasi di espansione della globalizzazione, come provano l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria e la Libia, lo scoppio di guerre ad alta intensità, più estese e generalizzate è maggiormente favorito dalle fasi di deglobalizzazione.

Note

[i] Vittorio Carlini, “Usa e Cina, sotto i mari la battaglia sui cavi che spacca la rete internet”, il Sole 24 Ore, 19 luglio 2023.

[ii] Beda Romano, L’Ucraina spacca il summit della Ue con l’America Latina, il Sole 24 Ore, 20 luglio 2023.

[iii] Luca Veronese, “Appello dell’industria Usa a Biden: stop alla guerra dei chip con la Cina”, il Sole 24 Ore, 20 luglio 2023.

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La sparizione dell’altro nel trionfo dell’individualismo

di Gioacchino Toni

«Non mi sarei mai immaginato che l’individualismo, il crollo di valori comuni di riferimento, facesse sparire così drammaticamente l’altro, anzi lo rendesse oggetto della propria necessità di sopravvivere psichicamente, fino al punto di non riuscire a identificarsi con le ragioni evolutive attuali e future di un figlio, di una figlia, di un allievo, di una studentessa» (Matteo Lancini)

A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la famiglia di stampo autoritario in cui i genitori imponevano l’omologazione culturale e comportamentale dei figli, ha via via lasciato il posto a un modello di famiglia incline a motivare le regole piuttosto che limitarsi a imporle. Anziché plasmare i figli secondo rigidi dettami, il nuovo modello genitoriale ha inteso far comprendere ai figli come le decisioni che li riguardano siano prese in funzione dell’accrescimento delle loro potenzialità individuali. Affiancato da un modello consumistico che non ha risparmiato nemmeno l’infanzia, tale modello famigliare/sociale ha comportato una crescente iperstimolazione dei bambini imponendo loro, di fatto, un’anticipazione dell’età adulta.

Caricati di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura, con l’arrivo dell’adolescenza non è infrequente che i figli si trovino di fronte a un inatteso ridimensionamento delle aspettative con tutte le conseguenze psichiche del caso. A un’infanzia adultizzata tende a seguire un’adolescenza infantilizzata e il senso di fallimento, di inadeguatezza provato dagli adolescenti viene spesso amplificato dalle accuse di superficialità e di irresponsabilità che il mondo adulto muove loro dopo averli caricati di eccessive aspettative dimenticando il fatto che questi adolescenti sono cresciuti adattandosi alle richieste e ai modelli educativi di stampo narcisistico propri della società contemporanea.

Matteo Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina Editore, 2023), ritiene che il sistema famigliare sopra delineato sia a sua volta stato superato da un nuovo modello in cui la propensione ad adultizzare l’infanzia, a precocizzare le esperienze che i figli farebbero con maggior naturalezza più tardi, a caricarli di aspettative ideali di successo e popolarità viene ulteriormente amplificata inducendo a «un’esasperazione del Sé, della difficoltà ad avvicinarsi e a incontrare gli altri – legata forse a una perdita di grandi valori, a un’incertezza, a una realtà sempre più individualista, sempre più priva di punti di riferimento – che ha fatto sì che si cresca all’interno di un contesto affettivo familiare certamente attento, che fornisce le risorse necessarie alla realizzazione personale dei figli, ma che fatica enormemente a identificarsi con loro e a riconoscere il fatto che esistano bisogni specifici del soggetto che si ha di fronte» (pp. 31-32).

Il recente lockdown legato allo stato di pandemia, con tutto ciò che ha comportato in termini relazionali e di costruzione identitaria, sebbene non possa essere considerato causa dei mutamenti avvenuti nelle famiglie, nella scuola e  più in generale nella società, di certo ha spinto sull’acceleratore delle trasformazioni in atto.

Secondo Lancini, anziché avvicinarsi ai bisogni e alle fragilità del proprio figlio, i genitori pretendono di spiegargli come è fatto e come si sente. Insomma, l’adulto sembra guardare al figlio cercando conferme circa il proprio buon operato come genitore: guarda al figlio guardando, in realtà, a sé stesso, «come se non esistessero l’altro, le sue fragilità e il suo dolore, imponendo anzi un continuo iperadattamento» (p. 32). «Ecco il nuovo mito, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma che iperidealizza ed estremizza il Sé, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio!”» (p. 37).

Tutto ciò avviene in un contesto in cui internet, vetrina scintillante da cui sono banditi insuccessi e sofferenze, votata com’è a celebrare la prestazione e il successo, ha assunto un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità dell’adolescente. Una verina in cui i modelli suggeriti sono anni luce lontani dagli adulti di riferimento, genitori o educatori che siano, e dal confronto tra la realtà quotidiana e il mondo patinato online non può che derivare frustrazione. «Con l’ingresso nell’adolescenza, segnata oggi dalla delusione più che dal conflitto», sostiene Lancini, «l’ideale dell’Io svela il suo carattere intransigente, mettendo gli adolescenti di fronte al mancato raggiungimento delle aspettative, troppo elevate per essere realizzabili, con cui sono stati cresciuti» (p. 34).

«Al bambino e all’adolescente viene spiegato cosa lui stesso prova, cosa pensa, com’è fatto, quali motivazioni ci sono alla base di ogni suo comportamento. Il tutto è mascherato da intento educativo e proposto sotto forma di regole, di parole dette a fin di bene e tese a una crescita ben regolata, quando in realtà, a ben guardare, corrobora la richiesta incessante di iperadattamenti in base all’umore, al modo di comportarsi e alle esigenze di genitori, di insegnanti, di allenatori, di una società densa di contraddizioni» (p. 38) che «alimenta il valore del soggetto a discapito della curiosità e della capacità di comprendere chi si ha di fronte, una società dell’immagine che dà valore alla presenza estetica più che al contatto fisico e all’interesse per l’altro per quello che è, per come è fatto lui e per quelli che sono i suoi bisogni profondi» (p. 21).

Oggi si vogliono bambini ben educati, espressivi, che vanno bene a scuola, e allo stesso tempo solidali, non competitivi, in una richiesta che va al di là dell’ideale e si articola in una dimensione in cui è il bambino a dover soddisfare completamente le esigenze dell’adulto che si trova davanti e di cui, in maniera anche inconsapevole, coglie tutta la fragilità. È come se i bambini percepissero dentro di loro il potere di determinare la felicità, o quantomeno la serenità, dei genitori, la quale può manifestarsi solo se il bambino è perfettamente aderente non tanto agli ideali e alle aspettative adulte, come poteva accadere fino a qualche anno fa, ma alla richiesta assurda di crescere secondo l’ideologia del ruolo materno, paterno, docente e educativo, e sentirsi al contempo se stesso. Il bambino postnarcisistico non diventa più adolescente inseguendo l’ideale, ma essendo indotto a confermare che è esattamente così che è, che è proprio così che si sente e si comporta ed è così che vuole essere, sentirsi e comportarsi, per propria decisione e volontà. In altre parole, “Sono io che non vado bene se non sento quello che devo sentire” e non “Sono io che vado bene per quello che sento e sono” (pp. 40-41).

Da un certo punto di vista sembra di essere tornati alla vecchia famiglia/società autoritaria finalizzata all’omologazione culturale, valoriale e comportamentale dei più giovani in cui il dissenso non è ammesso. Un autoritarismo, per certi versi più subdolo, attuato con altri mezzi.

In un’epoca contrassegnata dal «vuoto identitario dell’adolescente o del giovane adulto cresciuto all’insegna del “Sii te stesso a modo mio”» (p. 50), per quanto superficiali e semplicistiche possono essere agli occhi degli adulti, quando le giovani generazioni sbottano che è stato loro lasciato un mondo alla deriva senza futuro, manifestando un minimo di conflittualità verso ciò che le circonda, anziché di delusione allo specchio, andrebbero prese sul serio. Il vecchio adagio “Don’t trust anyone over the age of 30” potrebbe persino dover essere rivisto abbassandone l’età.

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GERD: “la diga della rinascita” nei rapporti di forza dell’Africa Orientale

Il 6 luglio 2023 a margine di un incontro tenutosi a Il Cairo per raggiungere un accordo per garantire la fine del conflitto sudanese – che ha coinvolto tutti gli stati attigui al Sudan – l’Egitto di Al Sisi e l’Etiopia di Abiy Amehed hanno concordato di finalizzare un accordo sulla gestione delle fasi di riempimento della “diga della rinascita”, cioè la gigantesca diga posizionate a valle delle acque del Nilo Azzurro (la GERD) situata nel territorio sotto la sovranità etiope.

Quando venne sviluppata la GERD, siamo attorno al 2011, l’intenzione era quella di costruire un impianto che fosse in grado di generare abbastanza energia elettrica per poter servire un territorio molto ampio, potenzialmente in grado di rifornire di elettricità una zona che valicasse i confini nazionali etiopi e andasse anche ad interfacciarsi con territori e popolazioni limitrofe sia in direzione est – abbracciando il Corno d’Africa – sia verso il continente africano a valle dell’orografia del Nilo azzurro, toccando poi le prime parti di quello più profondo.

Un genere di infrastruttura quindi con un impronta strategica, tale per cui, paesi importanti come l’Egitto, avente un peso abbastanza significativo nel bacino orientale del Mediterraneo, non potevano non generare una mediazione diplomatica.

Due paesi, l’Etiopia e l’Egitto, che oltre a rivestire storicamente una grande importanza regionale, erano e sono alle prese con problemi interni di prim’ordine: una crisi economica data da un inflazione galoppante, una necessità di investimenti per ristrutturare e costruire impianti produttivi ed infrastrutturali all’avanguardia.

Per l’Etiopia, inoltre, una guerra civile durata poco più di due anni contro le milizie della regione separatista del Tigray.

Vista questa situazione la diga acquista quindi un importanza ancora maggiore per la vita delle popolazioni e per la tenuta dei governi che dovrebbero rappresentarle.

Lo storico delle mediazioni diplomatiche che precede le decisioni degli ultimi giorni non lasciava intravvedere nulla di roseo.

Dopo la mancata mediazione avvenuta all’interno dell’Unione Africana e sotto il patrocinio degli Stati Uniti, si era addirittura arrivati a toni molto aspri tra Il Cairo e Addis Abeba, tanto che nell’ultimo incontro della Lega Araba, che – sotto pressione egiziana ha dovuto occuparsi della cosa – pur non essendone l’Etiopia un membro, ha visto Al Sisi aprire velatamente a reazioni anche militari, qualora non si fosse arrivati ad un accordo, quantomeno sul funzionamento della diga in fase di riempimento.

Da parte loro i dicasteri di Addis Abeba avevano sempre dichiarato la legittimità dell’opera in base alle regole internazionali, che non impediscono la costruzione di un infrastruttura sul territorio sovrano vista la potenzialità in termini di sviluppo del territorio stesso, ed anche in termini di sostenibilità ambientale.

Per questo la tensione era salita fino a livelli di guardia considerevoli.

Ma qualche giorno fa, dopo questo precedente che sembrava progredire verso frizioni sempre crescenti, è arrivata la notizia di un pre-accordo raggiunto tra Il Cairo e Addis Abeba che si impongono un percorso di quattro mesi per arrivare ad un intesa.

Per iniziare a sondare questo cambiamento nell’atteggiamento delle due nazioni dobbiamo andare a vedere più a fondo i loro rapporti internazionali.

Egitto

L’Egitto è un paese di importanza cardinale per quanto riguarda il territorio del Maghreb e il bacino orientale del Mediterraneo.

Nel 1952 un colpo di stato militare depone il re Farouk e instaura una repubblica basata sull’esercito che produrrà poi una costituzione, quella del 1971, che dota le alte cariche militari di importanti poteri costituzionali.

Durante il periodo delle primavere arabe, nel 2011, l’apparato militare burocratico egiziano, retto al tempo da Mubarak, viene spinto alle dimissioni.

Nel 2012 le elezioni vengono vinte da Morsi, candidato del Partito Giustizia e Libertà che segue la direzione dei Fratelli Mussulmani, direzione che ha breve vita, visto il rivolgimento militare del 2013 che porta al potere Al-Sisi.

Un cambiamento che, fondamentalmente, ripropone con qualche variazione l'impianto istituzionale previsto dalla costituzione del 1971.

Il governo Al Sisi è caratterizzato internamente da una situazione economica non idilliaca, che vede come priorità lo sfruttamento delle risorse gasifere del Mediterraneo orientale, un contenimento delle spinte secessioniste in Libia, innescate dall’intervento della NATO contro Gheddafi e un governo che tenga conto della situazione del Sudan, da sempre considerato il proprio “giardino di casa” da parte del Cairo, più le tensioni con l’Etiopia che costituiscono l’ argomento principale di questo articolo.

Per la gestione di queste situazioni Il Cairo ha cercato appoggio da entrambi i macro schieramenti che vediamo oggi sulla scena internazionale.

Da una parte l’Egitto media con Israele per mantenere lo status quo soprattutto riguardo la zona del Sinai, interessata dall’operare di formazioni jihadiste come il Wilayat Sinai cioè la branca egiziana del Daesh.

Una zona che riveste un importanza strategica per Il Cairo, visti i progetti che vorrebbero essere implementati per la ristrutturazione del canale di Suez.

Se questa mediazione pareva attrarre l’Egitto sempre più coerentemente verso le sfere di potere occidentale, le critiche rispetto al rivolgimento che ha deposto Morsi, le mancate mediazioni per quanto riguarda la questione del Nilo Azzurro e le interferenze libiche hanno prodotto spaccature tra Washington e Il Cairo che hanno portato alla non ratifica dei finanziamenti decisi a Camp David nel 1979.

Nonostante questo Al Sisi ha cercato più volte, per la natura della situazione economica egiziana, aiuto dal Fondo Monetario Internazionale come accennato più avanti.

Da un altra parte la partnership con l’Unione Europea sembra essere continuata, lato commerciale, più per una questione di mancanza di investimenti in Egitto che per altro, considerando che, come ricordano i casi Regeni e Zaki per parlare del rapporto tra Roma e Il Cairo, non sono mancati momenti di tensione.

Ma questa fame di investimenti ha portato anche ad un avvicinamento con altri attori internazionali, come la Cina e la Federazione Russa.

A livello regionale la Turchia ha rappresentato, almeno fino a qualche mese fa un avversario, visto il legame di Ankara con i Fratelli Mussulmani scalzati dal potere in Egitto proprio dal rivolgimento comandato da Al Sisi, mentre i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, cioè con le cosiddette Monarchie del Golfo è stato ottimo fin dall’insediamento della giunta militare, avendo queste prestato dal 2013 al 2021 svariati miliardi di dollari per la ricostruzione produttiva egiziana (secondo alcun fonti occidentali non confermate i prestiti sarebbero a quota 100 miliardi), anche se, la mancanza di obbiettivi raggiunti nella vita economica egiziana ha prodotto forti critiche da parte dei dicasteri di Riyadh nell’aprile di quest’anno.

Etiopia

L’Etiopia, nella sua attuale configurazione, si presenta come uno stato formato da una sorta di federazione di differenti etnie, aventi una grandezza e un unione differenti fra loro, ma che sono formalmente sotto il governo centralizzato di Addis Abeba

Questa situazione, unita ad una storia ricchissima e molto corposa che comprende regni come quello di Aksum, ha garantito a questo territorio il sottrarsi al dominio occidentale, cosa unica nel continente africano, pur sviluppando situazioni di tensione enormi.

È il caso della regione nord occidentale del Tigray sotto il controllo del TPLF, che dopo aver avuto un ruolo determinante nella caduta del governo Derg (comitato provvisorio militare per l’Etiopia Socialista) presieduto da Menghitsu, dopo una lunga guerra civile dove incassò l’appoggio statunitense, ha formato dagli anni ’90 una sorta di ceto dirigenziale.

Dopo la salita al potere di Abiy Ahmed, e il suo conseguente tentativo di unificare il Fronte Democratico rivoluzionario del popolo etiope in un unico partito (il Partito della prosperità), il TPLF, membro di detta coalizione, non accetta tale decisione e si defila.

La contingenza COVID-19 nel 2020, unita alla tornata elettorale per le elezioni generali, insieme a questi pregressi determina una situazione per cui, i continui rinvii delle elezioni vengono interpretati da Makelle (“capitale” del Tigray ) e dal leader del TPLF Debertsion Gebremichael, come un tentativo illegittimo da parte di Abiy di accentrare ulteriormente il potere.

Arrivati a questo punto quindi, le milizie tigrine decidono di tenere comunque le elezioni sul proprio territorio, nonostante la non validità sancita da Addis Abeba, e attaccano all'inizio del novembre 2020 le unità del governo centrale nel territorio tigrino, requisendo importanti forniture militari e uccidendo svariati soldati di Addis Abeba.

Da qui ha inizio un conflitto che termina, almeno per quanto riguarda la sua intensità maggiore, solo lo scorso anno, attraverso una mediazione tra Addis Abeba e Makelle, che sembra aver portato la situazione ad un equilibrio, anche se continuano certe sacche di resistenza nel Tigray, probabilmente alimentate da gruppi di semplici banditi intenti ad arraffare ciò che possono dalla “coda” di questa questione.

Una situazione di equilibrio che sembra essere stata il frutto anche dell’intervento eritreo, che ha garantito militarmente (e pare stia ancora garantendo, almeno stando alle notizie frammentarie che giungono in occidente, attraverso lo stazionamento di truppe nei confini con l‘Etiopia settentrionale) questo cessate il fuoco.

Ma la natura inter-etnica e contrastiva che abbiamo in Etiopia non sembra placare le tensioni, considerando ad esempio i mal di pancia che paiono crescenti nell’etnia Oromo, che attraverso le proprie strutture politiche non sembra essere contenta della nuova strutturazione raggiunta, dove pensava si arrivasse ad un maggior peso della più grande entità etiope attualmente presente nello stato nazionale con capitale Addis Abeba sotto il governo Ahmed, ma che ora non è più tanto convinta dell’operato del presidente.

Un qualcosa che potrebbe scatenare altre tensioni razziali, purtroppo numerose nell’antico regno di Aksum, anche se gli Oromo non paiono così unitari come per quanto riguarda l’etnia tigré.

Le contingenze attuali nel quadro regionale

L’Egitto, come detto, è in una fase di crisi economica e Al Sisi dalla sua salita al potere ha cercato di ovviare alla fame di investimenti esteri chiamando il Fondo Monetario Internazionale.

All’ultima tornata l’FMI ha stipulato un accordo con Il Cairo per 3 miliardi di dollari, facendo seguire a questa linea di credito varie condizioni tra cui una maggiore fluttuazione dei tassi d'interesse, una decentralizzazione dello stato nella vita economica del paese, che in Egitto significa in concreto esautorare l’establishment legato ad Al Sisi, cioè una delle parti principali sulle quali è fondato il suo potere.

Questo ovviamente dovrebbe essere propedeutico all’instaurazione di un economia trainata dalla logica privata per ovviare alla crisi, che già sotto l’attuale establishment ha visto un aumento dei tassi di interesse.

Una strada, questa, non graditissima ad Al Sisi che deve costruire infrastrutture per ammodernare il paese, facendo fronte a costi che attualmente non sembrano alla portata dell'economia egiziana.

L’Etiopia, anche essa alle prese con problemi simili, almeno nell’ambito produttivo, ha avuto un maggior supporto da parte della Cina, che nel secondo stato più popoloso dell’Africa ha attivato partnership economiche da tanto tempo, relazioni bilaterali che hanno passato la storia dell’unico paese africano a non essere mai stato sottomesso dai colonizzatori occidentali e continua tutt’oggi, sia nella collaborazione nell’ambito industriale, come la formazione di industrie tessili nelle aree limitrofe ad Addis Abeba, sia lato infrastrutturale, come i finanziamenti per la costruzione del tratto ferroviario che collega la capitale etiope a Djibouti o quelli relativi, anche se non maggioritari, alla GERD.

Una collaborazione senza condizioni legata alla condotta in politica economica, al contrario delle proposte occidentali incassate da Il Cairo, che ora può guardare anche ad una possibile collaborazione con Pechino, già attiva nell’apertura di linee di credito per la costruzione della nuova capitale amministrativa.

Così come può rivolgersi al Cremlino per raggiungere accordi bilaterali riguardanti i rifornimenti alimentari e il commercio relativo tra i due paesi, un qualcosa di indubbio carattere strategico se consideriamo che la popolazione egiziana produce molto meno di ciò che abitualmente consuma.

Un opportunità, quella aperta dal poco appeal occidentale, che ha visto giocare al tavolo anche un altra potenza regionale che negli ultimi giorni ha fatto discutere riguardo gli atteggiamenti tenuti all’ultima tornata degli incontri dell’alleanza Atlantica a Vilnius, cioè la Turchia.

La Turchia ha sempre mantenuto nei confronti dell’Egitto post 2013, un atteggiamento di chiusura totale, come testimoniato, oltre alle numerose uscite al veleno tra Ankara e Il Cairo, anche dall’assenza di relazioni diplomatiche ufficiali negli ultimi dieci anni.

Ma è notizia di una settimana fa della volontà bilaterale di riaprire queste sedi diplomatiche e proseguire il rapporto fondandolo sul confronto piuttosto che facendo muro contro muro come nell’ultimo decennio.

Una Turchia che nella questione del GERD era sempre stata più vicina, quindi, ad Addis Abeba, anche grazie alla rete culturale messa in piedi da Fetullah Gulen e poi occupata dopo il 2016 dai gruppi legati all’AKP, in una situazione in cui Il Cairo preoccupava Ankara sia in ottica Libia, sia in ottica riserve di gas nel bacino orientale del Mediterraneo, uno dei dossier sui quali i dicasteri di entrambi i paesi hanno dichiarato di voler raggiungere accordi che tengano conto degli interessi rispettivi di entrambe le parti.

Se da una parte quindi le necessità legate allo sviluppo di sistemi produttivi arretrati poiché interessati storicamente, a differenti intensità, dello stato di colonizzazione e semi colonizzazione che ha contraddistinto la sponda sud del Mediterraneo e l’Africa stanno portando all’apertura di un dialogo, garantito materialmente dai rapporti storici instaurati col continente africano dalla Repubblica Popolare Cinese, dall’altro la situazione interna del terzo Stato toccato dalle acque del Nilo Azzurro e attore protagonista anche esso di questo dossier, il Sudan, sembra aver accelerato queste trattative.

La situazione sudanese

La situazione sudanese vede le forze governative radunate attorno ad Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan generale delle forze armate sudanesi, contrapporsi a Mohamed Hamdan Dagalo Hemedti suo antico vice, uomo d’affari e capo delle RSF cioè forze costituite in maggioranza da tribù del Darfur e usate come corpo mercenario nel conflitto yemenita.

Questa contrapposizione nasce anche essa dagli appetiti Imperiali dell’occidente che hanno mantenuto strenuamente un controllo di classe di questi capi militari attraverso il mancato processo di transizione dopo il rivolgimento popolare del 2019 per contrastare i sentimenti anti-coloniali che avevano portato alla cacciata di Al Bashir.

Durante il colpo di stato dell’ottobre 2021, che pone fine alla transizione democratica successiva ai rivolgimenti popolari del 2019, l’esercito è stato affiancato dal gruppo paramilitare denominato Forze di Supporto Rapido (RSF), guidato dal generale Hemedti, poi vice di Al Burhan nella giunta militare al governo del Paese.

La situazione dopo questa data diventa subito molto critica considerando gli asprissimi scontri di piazza che hanno prodotto centinaia di morti.

Così nell’agosto dello scorso anno si arriva ad un “piano di transizione democratica” per l’installazione di un governo civile, che però vede affiorare subito tensioni tra l’esercito sudanese comandato da Al- Burhan e le formazioni guidate Dagalo Mehmeti, che sono contrarie ad una totale subordinazione dei comandi alla direzione insediata a Karthoum.

Ne scaturisce quindi un conflitto civile iniziato nell’aprile scorso, che ha visto concentrare le operazioni attorno alla capitale.

Oltre a questa situazione bisogna inoltre sommare i conflitti presenti nei distretti sudanesi del Nilo azzurro, nel territorio di al-fashaga, conteso all’Etiopia, e ovviamente nel Darfur.

Questa serie di interminabili conflitti ha prodotto numerose migrazioni che espandono le loro direttrici in tutte le direzioni, con una preferenza verso il bacino orientale del Mediterraneo, in particolare modo l’Egitto, che è legato a doppia mandata storicamente alla formazione del Sudan.

Ma per capire anche quelle che sono le difficoltà economiche e produttive di questo territorio dobbiamo fare menzione del processo che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan.

Dagli anni ’50 in poi, durante cioè il tartassato processo di decolonizzazione avvenuto sempre all'interno di forti interessamenti occidentali, il Sudan si è presentato con una forte spaccatura tra nord e sud.

Un nord più legato all’Egitto e al mondo arabo mussulmano ed un sud più legato all’Africa profonda e centro orientale, dove ha preso vita un importante movimento di liberazione, che riesce a raggiungere l’indipendenza nel 2011 dopo due guerre civili sudanesi (1955-1972 e 1983-2005) che strappano questo territorio a Karthoum.

In questa zona, avente propria sovranità da dodici anni, sono presenti le maggiori riserve petrolifere del paese, che però sono staccate dagli impianti di raffinazioni presenti principalmente al nord, ragione per cui si è dovuto arrivare ad un accordo che se pur flebile garantisce l’estrazione e la circolazione del greggio tra nord e sud oltreché la ripartizione degli utili che rappresentano una voce percentuale enorme per quanto riguarda l’esportazione plenaria di queste zone.

Un altra voce importante a fini economici e quindi sociali, relativa alla vita dei territori anche limitrofi, ha a che fare con le risorse d’acqua, in particolar modo con il controllo a valle del Nilo bianco.

I movimenti di liberazione del Sud Sudan e il governo provvisorio di Karthoum, raggiungono un accordo nell’ottobre del 2020, per quanto riguarda un cessate il fuoco plenario nelle zone interessate dalle tensioni belliche che sembra tenere nonostante la decisione di non partecipare all'assise da parte delle formazioni più importanti protagoniste della lotta per l indipendenza del Sud Sudan come l’esercito di liberazione del Sudan che denunciano un infiltrazione dei gruppi islamisti oltranzisti nelle compagini del nord.

Il Sudan nella contingenza attuale

La guerra civile che si sta consumando per il controllo della sovranità esercitata a Karthoum sta generando masse enormi di rifugiati che fuggono dal paese in varie direzioni.

L’Etiopia sta ospitando ad esempio sessantamila rifugiati, mentre l’Egitto, visto anche i legami storici col Sudan ne sta ospitando duecentocinquantamila.

Da questi dati allarmanti, che si legano alle situazioni prima descritte, si è arrivati quindi ad un tavolo chiamato proprio da Il Cairo, che ha visto partecipare Ciad, Africa centrale, Sudan meridionale, Etiopia ed Eritrea, per arrivare ad un cessate il fuoco.

Questo interessamento regionale arriva appena dopo il tentativo di mediazione dell’IGAD, cioè l’associazione degli stati del corno d’Africa sorta nel 1986 sotto spinta occidentale e presieduta anche dalla Commissione europea, che si è vista rifiutare dall’esercito regolare sudanese la possibilità di stanziare truppe extraterritoriali per garantire il cessate il fuoco, decisione questa presa dall’attuale establishment sudanese probabilmente perché intenzionato a non esacerbare i sentimenti anti-coloniali che avevano prodotto le insurrezioni popolari dell’aprile 2019.

Vista l’importanza della situazione a margine di questo incontro per aprire un dialogo sulla questione sudanese, il Cairo ed Addis Abeba, come detto all’inizio di questo commento, hanno deciso di riaprire il dialogo, dandosi anche un arco temporale congruo per sviluppare proposte ricevibili da entrambe le parti, come ad esempio un governo trilaterale riguardo il riempimento della diga, che ovvierebbe al problema economico derivante dall’abbassamento del livello delle acque così importanti per l’agricoltura egiziana e sudanese, guardando comunque al fabbisogno elettrico etiope, che, come detto inizialmente, ha una potenzialità molto grande, essendo le due centrali a ridosso della diga in grado di generare 5150 Mw costituendo così la più grande centrale elettrica del continente africano.

Conclusioni

Il “governo” diplomatico di questa questione, cioè un impostazione che tenda a togliere dalle possibilità di risoluzione dei problemi la guerra, è ancora molto incerto e pieno di difficoltà e dipenderà probabilmente anche da come si comporteranno gli stati occidentali che stanno caratterizzando l’attuale spinta alla militarizzazione nel contesto globale, se cioè le forze occidentali, che a più riprese si interessano di queste questioni, dalle potenze maggiori come gli Usa, regionali come la Turchia a quelle gregarie come la Francia e l’Italia (il viaggio della Meloni ad Addis Abeba, propagandato sotto il “titolo” mistificatore di “Piano Mattei” e che puntava ad ampliare determinati legami economico politici facendo perno sugli interessi presenti nel paese africano della Salini Impregilo ad esempio), decideranno di aggredire la zona, e quindi di esacerbare determinate tensioni e fratture mai sopite in questo quadrante o meno.

Ma se esistono chance in questo senso, che cioè tendano ad appianare le divergenze tra stati e quindi a scongiurare azioni militari, dobbiamo vedere come reagirà questa parte di “altro mondo”, se si arriverà ad una distensione iniziale – come per ora quella che sembra tenere tra Iran e Arabia Saudita – oppure i venti di guerra si ingrosseranno anche in questa importante parte di mondo sotto la spinta delle insegne imperialiste, sempre attente ad inserirsi e ad alimentare scontri razziali, confessionali o a spalleggiare qualche intraprendente borghesia compradora.

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30/07/2023

Tre colori - Film bianco (1994) di K. Kieślowski - Minirece

Un israeliano su quattro pensa di andarsene dal paese

Il Jerusalem Post scrive che la legge approvata alla Knesset è già in viaggio verso l’Alta Corte di Giustizia, e forse verso una crisi costituzionale, qualora i giudici decidano di intervenire e squalificarla, uno scenario che dovrebbe alimentare ulteriormente le fiamme della protesta, come sono i sogni della coalizione di governo di poter utilizzare la ‘legge standard di ragionevolezza ampliata’ per licenziare il procuratore generale Gali Baharav-Miara.

Dopo l’approvazione della legge sulla giustizia, il ministro delle Comunicazioni israeliano Shlomo Karhi ha deciso di andare avanti con la sua riforma globale del mercato dei media, che politicizza la regolamentazione dei canali e delle emittenti e concede benefici governativi eccezionali a Channel 14 e ai media di destra.

Il quotidiano israeliano The Times of Israel ha affermato che oltre un quarto degli israeliani sta pensando di lasciare il Paese.

Il giornale, citando il sondaggio di Channel 13, afferma che “il 28% degli intervistati valutava un trasferimento all’estero, il 64% no e l’8% non era sicuro“.

“Il sondaggio riflette l’impatto della coalizione che ha approvato la legge lunedì, nonostante le proteste di massa sostenute, la veemente opposizione da parte di alti esponenti giudiziari, della sicurezza, economici e pubblici e migliaia di riservisti militari israeliani che hanno promesso di lasciare il servizio“, ha riferito il giornale.

Questi alcuni dei risultati del sondaggio.

Il 54% teme che la revisione giudiziaria danneggi la sicurezza di Israele.

Il 56% è preoccupato per la guerra civile.

Il 33% crede all’affermazione del primo ministro Benjamin Netanyahu di voler scendere a compromessi.

L’84% dei membri del Likud crede al leader israeliano.

Il 55% ritiene che i leader dell’opposizione Yair Lapid e Benny Gantz dovrebbero tornare ai negoziati.

Times of Israel, citando lo stesso sondaggio, ha indicato che “il partito di Unità nazionale di Gantz vincerebbe 30 seggi nella Knesset da 120 seggi, la maggior percentuale di qualsiasi partito, se le elezioni si tenessero oggi, superando il Likud, che si è classificato al secondo posto con 25 seggi“.

Gli altri partiti otterrebbero i seguenti risultati: il partito Yesh Atid si è piazzato al terzo posto, con 17 seggi; Yisrael Beytenu, 6 seggi; Ra’am, 6 seggi; Hadash-Ta’al, 5 seggi; Meretz, 4 seggi.

Un sondaggio separato di Channel 12 martedì ha anche previsto un calo di popolarità per il governo di Netanyahu se le elezioni si fossero tenute oggi, con gli attuali partiti della coalizione di governo che avrebbero ricevuto solo 53 seggi.

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Niger - I risvolti internazionali del colpo di stato

di Francesco Dall'Aglio

La situazione in Niger diventa sempre più complessa e, soprattutto, le ramificazioni internazionali del colpo di stato aumentano.

Il 26 luglio il generale Abdourahamane Tchiani, capo della Guardia Presidenziale, si è proclamato "capo del Consiglio Nazionale per la Difesa della patria" e il 29 è stato proclamato nuovo capo di stato, ma il presidente Mohamed Bazoum ha dichiarato che non ha intenzione di lasciare il suo posto e che continuano i negoziati con i ribelli, anche se non è chiaro chi le conduce e a che scopo.

Il 27, anche l'esercito si è schierato con i ribelli e nella capitale Niamey sono cominciate manifestazioni pro-esercito e sono comparse le prime bandiere russe, il cui numero è aumentato di parecchio nei giorni successivi. E mentre la Russia, tramite Prigožin, si è complimentata con i ribelli e ha promesso sostegno, le reazioni internazionali sono state ovviamente molto critiche, soprattutto quelle di Francia e USA che hanno dichiarato che non riconoscono il cambio di governo.

Oggi ad Abuja (Nigeria) si sta tenendo un vertice straordinario dei capi di stato dei paesi dell'ECOWAS, la Comunità Economica dei Paesi dell'Africa Occidentale, preoccupati delle potenzialità destabilizzanti del colpo di stato. Il vertice ha dato sette giorni di tempo ai rivoltosi per sgomberare il campo, altrimenti non esclude la possibilità di un intervento militare; anche l'Unione Economica e Monetaria dell'Africa Occidentale (UEMOA), che raggruppa i paesi che utilizzano come valuta il Franco CFA, ha minacciato sanzioni quali la sospensione del Niger dall'associazione, l'esclusione dalla Banca Centrale e dai mercati finanziari UEMOA, e la chiusura dello spazio aereo dell'Associazione agli aerei del Niger.

Anche il Ciad, che confina a est con il Niger ma non è membro di nessuna delle due organizzazioni, è stato invitato al summit ECOWAS. Inoltre, a parte la presenza militare statunitense e francese, con circa 15000 soldati, in Niger è attiva da febbraio una missione militare dell'Unione Europea guidata da un italiano, il colonnello guastatore paracadutista Antonio D’Agostino (questo il sito della missione), cosa che spiace ulteriormente ai ribelli – e siccome nessuna crisi internazionale può dirsi completa senza un elemento surreale, il 25 luglio il governo dell'Estonia ha chiesto al proprio parlamento di approvare la partecipazione di cinque (CINQUE) militari estoni alla missione, cosa che, senza dubbio, chiuderà la crisi.

La prospettiva (che in realtà non è chiaro quanto fondata) di un intervento militare dell'ECOWAS ha ulteriormente esacerbato la situazione: le manifestazioni si sono fatte più accese, la presenza di bandiere russe più diffusa, e la folla ha dato l'assalto all'ambasciata francese senza fare in realtà troppi danni – come al solito, i tricolori sventolati dagli insorti non sono quelli francesi ma quelli russi.

Se il colpo di stato dovesse avere successo, si tratterebbe del quarto paese dell'area che si libera della presenza francese e occidentale con un colpo di stato e la creazione di una giunta militare, dopo Mali, Guinea e Burkina Faso, e che ovviamente guarda con simpatia, ricambiata, alla Russia per garantire la propria sopravvivenza politica e militare.

Ma oltre a motivi di prestigio, ciò che preoccupa maggiormente la Francia è la questione dell'uranio, di cui il Niger è il settimo produttore al mondo e che in buona parte viene estratta in una miniera di proprietà del gruppo francese Orano. A fine giugno, però, la Cina si era già fatta avanti, proponendo al governo del Niger la riapertura di una miniera di uranio chiusa e la costruzione di un oleodotto e di un parco industriale.

Il governo precedente si era detto interessato ed è molto verosimile che lo sarà anche quello attuale, se riuscirà a reggere. Che ci sia una correlazione tra le offerte economiche cinesi, le offerte militari russe, e il colpo di stato?

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Il conflitto in Ucraina e il “fattore polacco”

La questione ucraina potrebbe riflettersi sulla fiducia che i polacchi hanno sinora accordato al regime sanfedista di Varsavia. E, di converso, il “fattore polacco” potrebbe avere qualche conseguenza sul conflitto in Ucraina.

“I polacchi non hanno intenzione di dimenticare i massacri di Volynia, e i nazionalisti e neonazisti dei battaglioni ucraini“, afferma l’esperto militare russo Konstantin Sivkov, sanno bene che i polacchi, alla fine, faranno i conti con loro in maniera radicale. In che modo potrebbe verificarsi questa coincidenza di fattori?

Dopo il ritiro russo dalla Black Sea Grain Initiative, Mosca sta attuando il più serrato blocco marittimo dell’Ucraina, colpendo in particolare le sue infrastrutture portuali, in modo che nessun vascello possa attraccarvi. E Kiev non dispone di forze e mezzi sufficienti per rispondere adeguatamente. Questo a sud.

A nord, la Polonia sta rafforzando le proprie posizioni a difesa del cosiddetto “Przesmyk suwalski” (in inglese “Suwalki Gap”: quell’ipotetico corridoio di circa cento chilometri che va dal confine bielorusso alla regione russa di Kaliningrad, coincidente grosso modo con la frontiera tra Polonia e Lituania) considerato dalla NATO uno dei punti deboli dell’Alleanza.

In caso di blocco marittimo di Kaliningrad, Mosca potrebbe vedersi costretta a prendere il controllo del corridoio per rifornire la regione via terra: in questo caso, la penetrazione attraverso «il corridoio di Suwalki costituirebbe un’azione difensiva per spezzare il blocco della regione russa» sul Baltico, afferma Sivkov su Komsomol’skaja Pravda.

In effetti, proprio ieri il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha parlato di movimenti di circa 100 (cento!) uomini della “Wagner” (tra l’altro, sempre ieri è di nuovo comparso Evgenij Prigožin che, intervistato da Afrique Media, ha elogiato Putin per il fatto che, al Forum Russia-Africa, si sono «costruiti rapporti di fiducia personale con la maggior parte dei leader africani»), tra quelli dislocati in Bielorussia, in direzione del corridoio.

Nella mente di pan Morawiecki, quei 100 (cento!) “musicisti” rappresenterebbero un ‘serio pericolo’ per Varsavia, dal momento che, «vestiti da guardie di frontiera bielorusse potrebbero favorire l’ingresso in Polonia di “migranti illegali”», oppure, presentandosi essi stessi come “migranti illegali”, potrebbero «destabilizzare la Polonia».

Quella stessa Polonia che ambisce a disporre dell’esercito più numeroso d’Europa, ribadendo i piani di accrescimento delle forze armate da 172.000 a 300.000 uomini.

Ma c’è anche un’altra eventualità, di cui ormai nessuno più tace, e cioè l’introduzione di truppe polacche in Ucraina occidentale, da sole o insieme a quelle lituane. Per quanto anche tra Varsavia e Vilnius, le pretese nazionalistiche non manchino da cento anni, in particolare per la regione di Vilnius e i distretti di Šalcininkai, Trakai, Švenčionys, popolati da forti comunità polacche.

In questo caso, come potrebbero reagire le forze armate di Kiev che, a loro dire, combattono per “l’integrità territoriale” del paese?

I generali ucraini dovrebbero allora scegliere tra Polonia e Russia; si tratterebbe di un rebus oltremodo serio, specialmente per i nazionalisti ucraini più convinti: essi «sanno che i polacchi farebbero sicuramente i conti con loro fino all’ultimo», per vendicarsi delle stragi compiute dalla bande OUN-UPA nel 1943.

Basti pensare che, nei giorni scorsi, alla vigilia del 80° anniversario dell’inizio dei massacri di Volynia, l’organizzazione nazionalista “Gioventù polacca”, al posto di frontiera polacco-ucraino di Medika-Šegini, da entrambi i lati del confine aveva piantato alcune centinaia di croci con i nomi dei villaggi polacchi in Volynia e Galizia, distrutti dai banderisti insieme agli abitanti.

Non è un caso che si tratti dello stesso punto di frontiera in cui più attive e partecipate erano state, nelle settimane precedenti, le manifestazioni degli agricoltori polacchi contro l’importazione di prodotti agricoli ucraini a prezzi stracciati.

Questo è l’atteggiamento dei più accesi nazionalisti polacchi nei confronti dell’Ucraina, che non di rado supera il comune denominatore anti-russo delle élite sanfediste e neo-naziste sia di Varsavia che di Kiev.

Da parte russa, invece, come dimostrato anche in occasione di scambi di prigionieri – sono stati rilasciati anche vari caporioni neo-nazisti di Azov: ognuno ne dia la valutazione che crede – è stata dimostrata «una buona dose di lealtà».

Così, in caso di invasione polacca delle regioni di L’vov e Ivano-Frankovsk, e a dispetto della “reciproca simpatia” (si fa per dire!) tra nazionalisti polacchi e nazionalisti ucraini, non ci sarebbe da stupirsi se si dovesse assistere al passaggio di reparti neo-nazisti ucraini al fianco della Russia (d’altronde, il nazionalismo è un cancro che si spande piuttosto rigogliosamente).

Essi, per quanto paradossale possa apparire, potrebbero «ritenerlo più accettabile che non trovarsi improvvisamente dalla parte della Polonia».

Per parte USA, secondo il conduttore radiofonico statunitense Garland Nixon, Washington può benissimo permettere a Varsavia di intervenire in Ucraina, senza però fornirle un sostegno diretto: quantomeno, non ufficialmente.

A parere di Garland, gli yankee considerano i polacchi una “merce di scambio” nel conflitto in Ucraina: «agli USA non importa assolutamente nulla della Polonia. I polacchi sono materiale sacrificabile». Agli occhi di USA e UE, i polacchi sono «troppo conservatori», quindi non li amano.

Ma, in ogni caso, dice Nixon, un intervento polacco in Ucraina giocherebbe a favore di Washington: «le truppe di Varsavia verrebbero presto annientate e la popolazione chiederebbe le dimissioni del governo, così che gli USA ne approfitterebbero per installare propri scagnozzi».

Per quanto si possa dubitare fortemente del fatto che USA e UE non amino i polacchi specificamente perché «troppo conservatori», e anche dell’idea che gli yankee debbano aspettare le dimissioni di un qualunque governo per «installare i propri scagnozzi» in una qualche capitale, pochi dubbi che, davvero, il “fattore polacco” potrebbe avere qualche seria conseguenza sul conflitto in Ucraina.

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