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27/07/2023

Le boutade sul salario minimo

La proposta di legge dei partiti d’opposizione (esclusa Italia Viva) sull’introduzione del salario minimo legale, dopo tanti annunci, è approdata in Parlamento, attraverso la calendarizzazione nelle convocazioni delle varie commissioni della Camera. Come prevedibile, da parte del Governo e dei partiti che lo sostengono sono arrivate svariate dichiarazioni tese ad affossare la proposta e anche un emendamento soppressivo dell’intero testo. Le dichiarazioni in questione sono, come vedremo a breve, patetiche nella loro pochezza argomentativa oltre che palesemente strumentali. Ciò non vuol dire, però, che le proposte dei partiti di opposizione siano scevre da aspetti quantomeno discutibili, se non apertamente contrari a tutto ciò che una legge sul salario minimo dovrebbe rappresentare per essere veramente un punto di svolta nei rapporti tra lavoratori e capitale, da decenni sempre più sbilanciati in favore dei padroni.

Vediamo, in primo luogo, le dichiarazioni degli esponenti della maggioranza. A svettare su tutti è sicuramente il ministro degli Esteri e vicepresidente del consiglio Tajani. Quest’ultimo ha dichiarato testualmente “In Italia non serve il salario minimo. Serve un salario ricco, perché non siamo nell’Unione Sovietica in cui tutti avevano lo stesso stipendio”. Rizzetto, presidente della commissione Lavoro di Montecitorio, ha invece dichiarato che la proposta di legge è da respingere perché “banalmente, mancano le coperture finanziarie”.

Non sappiamo chi abbia detto a Tajani che il salario minimo non serve. Di certo servirebbe, anche nella sua annacquata versione della proposta dei partiti di opposizione, a quei 3,3 milioni di lavoratori che oggi guadagnano meno degli striminziti 9 euro lordi l’ora previsti dalla proposta di legge. Riteniamo saggio sorvolare sulla palese mancanza di collegamenti con la realtà del riferimento all’Unione Sovietica. Si tratta di una becera rappresentazione caricaturale di una realtà ben più complessa, che oggi nessuna persona sana di mente potrebbe riproporre. Né, forse, vale la pena di sottolineare che una legge sul salario minimo non ha nulla a che fare con un salario effettivo uguale per tutti, non ché il fatto, notissimo, che una legge sul salario minimo è presente nella gran parte dei paesi dell’Unione europea. Concentriamoci, invece, sulla dichiarazione, relativa al fatto che abbiamo bisogno di un “salario ricco”. Cosa avrà voluto dire? Non se ne può essere sicuri, certo. Potrebbe essere una dichiarazione completamente vuota, adatta a essere riempita di qualsiasi significato da diversi ascoltatori. Volendo, però, adottare una posizione di benevolenza nei confronti del bell’Antonio, possiamo pensare che abbia voluto fare riferimento a un vecchio cavallo di battaglia di Forza Italia: lo stato vampiro che si interpone tra il povero lavoratore e il generoso capitalista, andando a rosicchiare una quantità di danaro nota come “cuneo fiscale”. Sulla penuria di questa argomentazione abbiamo già scritto più volte. Qui basti ricordare che quella della riduzione del cuneo fiscale come strumento per mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori è una leggenda priva di fondamento, smentita dai dati e dalla logica del funzionamento del bilancio dello Stato e del sistema pensionistico.

Ma veniamo a Rizzetto. La sua obiezione, per la quale la legge in questione non avrebbe le coperture finanziarie, è curiosa e rivelatrice. Ci mostra, infatti, non solo il grado di fedeltà del governo ai dogmi dell’austerità, ma ci permette anche di osservare come la proposta del centrosinistra sia asservita e piegata alla logica degli interessi imprenditoriali. Per capire questo passaggio, è necessario fare un passo indietro. Perché – ci si dovrebbe chiedere – una legge sul salario minimo dovrebbe comportare maggiori spese a carico delle finanze pubbliche? La proposta non riguarda i lavoratori del settore pubblico. Ebbene, la risposta è nell’articolo 7 della proposta di legge del centrosinistra, che prevede l’introduzione di un indennizzo per quei datori di lavoro che vedrebbero aumentate le proprie uscite finanziarie a seguito dell’introduzione del salario minimo. Si tratta, leggendo l’articolo, di un “beneficio in favore dei datori di lavoro, per un periodo di tempo definito e in misura progressivamente decrescente, proporzionale agli incrementi retributivi corrisposti ai prestatori di lavoro al fine di adeguare il trattamento economico minimo orario all’importo di 9 euro”.

Detto in parole povere, si tratta di un chiaro messaggio agli imprenditori: non abbiate paura – si dice – del salario minimo. Non solo si tratta di un aumento misero, ma, nel caso in cui paghiate salari così da fame da essere interessati dalla legge, ci pensa lo Stato. Viene così messa, almeno parzialmente, a carico della fiscalità generale la necessità di adeguare i salari. Ciò, in un contesto di finanza pubblica caratterizzato da stringenti vincoli di bilancio, significherà probabilmente dover aumentare le tasse o ridurre altre fonti di spesa, con effetti regressivi facilmente intuibili. È noto, infatti, che a sopportare più di tutti il peso delle imposte sono proprio i lavoratori dipendenti, come risultato delle diverse riforme fiscali che si sono succedute nel corso degli anni. In alternativa, volendo pensare a una riduzione della spesa pubblica in altri settori, è facile immaginare che a subire i tagli saranno quelle voci che già in passato sono finite nel mirino dei “riformatori” di turno.

Il patetico dibattito sulla cosiddetta proposta di legge sul salario minimo ci offre, ancora una volta, l’immagine nitida della sostanziale assenza di differenze tra partiti di maggioranza e opposizione su temi come il mercato del lavoro e il rapporto di forza tra le classi sociali. Una ragione in più per supportare la proposta di Unione Popolare di un salario minimo orario lordo pari almeno a 10 euro, indicizzato alla dinamica dei prezzi e a carico delle imprese senza oneri per la collettività, ovvero senza oneri indiretti per i lavoratori stessi.

Una proposta che partendo dal cuore del problema, la distribuzione ineguale del reddito e il conflitto distributivo tra lavoro e capitale, imporrebbe un livello minimo di salario a carico delle imprese andando poi a condizionare a catena, verso l’alto, anche il livello di tutti i salari. Un argine e possibilmente un’inversione di rotta rispetto alla drammatica redistribuzione regressiva del reddito dal basso verso l’alto che ha caratterizzato gli ultimi 35 anni di storia.

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