di Gioacchino Toni
«Non mi sarei mai immaginato che l’individualismo, il crollo di valori comuni di riferimento, facesse sparire così drammaticamente l’altro, anzi lo rendesse oggetto della propria necessità di sopravvivere psichicamente, fino al punto di non riuscire a identificarsi con le ragioni evolutive attuali e future di un figlio, di una figlia, di un allievo, di una studentessa» (Matteo Lancini)
A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la famiglia di stampo autoritario in cui i genitori imponevano l’omologazione culturale e comportamentale dei figli, ha via via lasciato il posto a un modello di famiglia incline a motivare le regole piuttosto che limitarsi a imporle. Anziché plasmare i figli secondo rigidi dettami, il nuovo modello genitoriale ha inteso far comprendere ai figli come le decisioni che li riguardano siano prese in funzione dell’accrescimento delle loro potenzialità individuali. Affiancato da un modello consumistico che non ha risparmiato nemmeno l’infanzia, tale modello famigliare/sociale ha comportato una crescente iperstimolazione dei bambini imponendo loro, di fatto, un’anticipazione dell’età adulta.
Caricati di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura, con l’arrivo dell’adolescenza non è infrequente che i figli si trovino di fronte a un inatteso ridimensionamento delle aspettative con tutte le conseguenze psichiche del caso. A un’infanzia adultizzata tende a seguire un’adolescenza infantilizzata e il senso di fallimento, di inadeguatezza provato dagli adolescenti viene spesso amplificato dalle accuse di superficialità e di irresponsabilità che il mondo adulto muove loro dopo averli caricati di eccessive aspettative dimenticando il fatto che questi adolescenti sono cresciuti adattandosi alle richieste e ai modelli educativi di stampo narcisistico propri della società contemporanea.
Matteo Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina Editore, 2023), ritiene che il sistema famigliare sopra delineato sia a sua volta stato superato da un nuovo modello in cui la propensione ad adultizzare l’infanzia, a precocizzare le esperienze che i figli farebbero con maggior naturalezza più tardi, a caricarli di aspettative ideali di successo e popolarità viene ulteriormente amplificata inducendo a «un’esasperazione del Sé, della difficoltà ad avvicinarsi e a incontrare gli altri – legata forse a una perdita di grandi valori, a un’incertezza, a una realtà sempre più individualista, sempre più priva di punti di riferimento – che ha fatto sì che si cresca all’interno di un contesto affettivo familiare certamente attento, che fornisce le risorse necessarie alla realizzazione personale dei figli, ma che fatica enormemente a identificarsi con loro e a riconoscere il fatto che esistano bisogni specifici del soggetto che si ha di fronte» (pp. 31-32).
Il recente lockdown legato allo stato di pandemia, con tutto ciò che ha comportato in termini relazionali e di costruzione identitaria, sebbene non possa essere considerato causa dei mutamenti avvenuti nelle famiglie, nella scuola e più in generale nella società, di certo ha spinto sull’acceleratore delle trasformazioni in atto.
Secondo Lancini, anziché avvicinarsi ai bisogni e alle fragilità del proprio figlio, i genitori pretendono di spiegargli come è fatto e come si sente. Insomma, l’adulto sembra guardare al figlio cercando conferme circa il proprio buon operato come genitore: guarda al figlio guardando, in realtà, a sé stesso, «come se non esistessero l’altro, le sue fragilità e il suo dolore, imponendo anzi un continuo iperadattamento» (p. 32). «Ecco il nuovo mito, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma che iperidealizza ed estremizza il Sé, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio!”» (p. 37).
Tutto ciò avviene in un contesto in cui internet, vetrina scintillante da cui sono banditi insuccessi e sofferenze, votata com’è a celebrare la prestazione e il successo, ha assunto un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità dell’adolescente. Una verina in cui i modelli suggeriti sono anni luce lontani dagli adulti di riferimento, genitori o educatori che siano, e dal confronto tra la realtà quotidiana e il mondo patinato online non può che derivare frustrazione. «Con l’ingresso nell’adolescenza, segnata oggi dalla delusione più che dal conflitto», sostiene Lancini, «l’ideale dell’Io svela il suo carattere intransigente, mettendo gli adolescenti di fronte al mancato raggiungimento delle aspettative, troppo elevate per essere realizzabili, con cui sono stati cresciuti» (p. 34).
«Al bambino e all’adolescente viene spiegato cosa lui stesso prova, cosa pensa, com’è fatto, quali motivazioni ci sono alla base di ogni suo comportamento. Il tutto è mascherato da intento educativo e proposto sotto forma di regole, di parole dette a fin di bene e tese a una crescita ben regolata, quando in realtà, a ben guardare, corrobora la richiesta incessante di iperadattamenti in base all’umore, al modo di comportarsi e alle esigenze di genitori, di insegnanti, di allenatori, di una società densa di contraddizioni» (p. 38) che «alimenta il valore del soggetto a discapito della curiosità e della capacità di comprendere chi si ha di fronte, una società dell’immagine che dà valore alla presenza estetica più che al contatto fisico e all’interesse per l’altro per quello che è, per come è fatto lui e per quelli che sono i suoi bisogni profondi» (p. 21).
Oggi si vogliono bambini ben educati, espressivi, che vanno bene a scuola, e allo stesso tempo solidali, non competitivi, in una richiesta che va al di là dell’ideale e si articola in una dimensione in cui è il bambino a dover soddisfare completamente le esigenze dell’adulto che si trova davanti e di cui, in maniera anche inconsapevole, coglie tutta la fragilità. È come se i bambini percepissero dentro di loro il potere di determinare la felicità, o quantomeno la serenità, dei genitori, la quale può manifestarsi solo se il bambino è perfettamente aderente non tanto agli ideali e alle aspettative adulte, come poteva accadere fino a qualche anno fa, ma alla richiesta assurda di crescere secondo l’ideologia del ruolo materno, paterno, docente e educativo, e sentirsi al contempo se stesso. Il bambino postnarcisistico non diventa più adolescente inseguendo l’ideale, ma essendo indotto a confermare che è esattamente così che è, che è proprio così che si sente e si comporta ed è così che vuole essere, sentirsi e comportarsi, per propria decisione e volontà. In altre parole, “Sono io che non vado bene se non sento quello che devo sentire” e non “Sono io che vado bene per quello che sento e sono” (pp. 40-41).
Da un certo punto di vista sembra di essere tornati alla vecchia famiglia/società autoritaria finalizzata all’omologazione culturale, valoriale e comportamentale dei più giovani in cui il dissenso non è ammesso. Un autoritarismo, per certi versi più subdolo, attuato con altri mezzi.
In un’epoca contrassegnata dal «vuoto identitario dell’adolescente o del giovane adulto cresciuto all’insegna del “Sii te stesso a modo mio”» (p. 50), per quanto superficiali e semplicistiche possono essere agli occhi degli adulti, quando le giovani generazioni sbottano che è stato loro lasciato un mondo alla deriva senza futuro, manifestando un minimo di conflittualità verso ciò che le circonda, anziché di delusione allo specchio, andrebbero prese sul serio. Il vecchio adagio “Don’t trust anyone over the age of 30” potrebbe persino dover essere rivisto abbassandone l’età.
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