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25/07/2023

Spagna - Le elezioni consegnando un quadro ambiguo

Le elezioni politiche anticipate in Spagna non hanno dato un esito che permetta di definire quale sarà l’esecutivo che guiderà il Paese, né se l’impasse prodotta dai risultati scaturiti delle urne costringerà a ripetere le elezioni a breve.

Un’ipotesi, questa, che i leader delle due maggiori formazioni – Sánchez del PSOE e Feijó del PP – vogliono evitare ad ogni costo.

A entrambi i poli del quadro politico iberico, da un lato quello “progressista” con il PSOE e Sumar e dall’altro quello reazionario del Partido Popular e di Vox, mancano i numeri sufficienti per governare, non avendo raggiunto la soglia dei 176 deputati eletti necessari per formare una maggioranza.

Come faceva supporre l’alto numero di voti per corrispondenza, vi è stata una partecipazione relativamente elevata al voto, con il 70,40% degli aventi diritto che si è recato alle urne od è ricorso al voto postale.

La prima formazione politica è il PP che conquista voti, sottraendoli anche a Vox, aumentando il consenso rispetto alle elezioni politiche del 2019 e confermando il dato positivo delle amministrative. Ma non ha realizzato quel risultato nelle aspettative dei leader “popolari” ed indicato da una parte consistente dei sondaggi.

Le alleanze che il Partito guidato da Feijó ha stabilito per governare in tre regioni insieme ai neo-falangisti di Vox, non li hanno premiati sul piano nazionale, così come non hanno affatto premiato i neofalangisti di Vox.

I popolari sono nuovamente la prima formazione politica, con 136 deputati contro gli 89 del 2019, ma sommati ai “soli” 33 voti di Vox possono arrivare solo a 169; cioè 8 in meno di quelli necessari, senza che ci siano state aperture di altre forze con una rappresentanza parlamentare, cioè le formazioni regionali CCa, UPN, e EAJ-PNV che comunque contano complessivamente 7 deputati.

Il PNV basco si rifiuta di “sbiancare e legittimare” Vox, ha detto il leader della formazione regionalista basca di Bizkaia, Itxaso Atutxa.

D’altro canto è la stessa Vox, secondo quanto riferisce il suo segretario generale che «non può unire il voto patriottico con un partito separatista: è impossibile».

Nel tardo pomeriggio il Presidente del PP ha affermato: «da questa mattina ho mantenuto contatti con distinte forze politiche con l’obiettivo di dare al paese un governo stabile», citando UPN, Coalición Canaria, PNV e Vox.

Feijó ha aggiunto «non possiamo permettere che gli spagnoli siano intrappolati en bloqueos, né permettere che il nostro Paese si balcanizzi».

Questa è una delle strade praticate dal Feijó, per non andare nuovamente alle elezioni.

Il “piano B” del leader del PP è fare un governo monocolore contando sull’astensione del PSOE durante la sua investitura, stabilendo 4 o 5 punti comuni: non si tratterebbe di una vera e propria coalizione, ma di una specie di ‘patto di legislatura’ dal destino piuttosto incerto.

Sarebbe un’autentica “inversione a U” per una formazione che alle politiche e alle precedenti amministrative aveva giocato la carta della “derogación del sanchismo”.

Il sanchismo è un brutto neologismo usato “a destra” per indicare l’alleanza dei socialisti con la sinistra di Unidas-Podemos ed il sostegno di alcune formazioni della “sinistra indipendentista”, soprattutto per ciò che riguarda l’implementazione di politiche sociali e diritti individuali.

Appare chiaro che un fallimento di queste ipotesi, che porterebbe ad un governo avente come asse PSOE-Sumar o al ripetersi delle elezioni, aprirebbe anche un processo di crisi all’interno del PP che potrebbe, in tendenza, costare il posto a Feijó a tutto vantaggio dell’astro nascente, Isabel Díaz Ayuso, presidenta di Madrid, o del presidente dell’Andalucía, Manuel Moreno Bonilla, l’altro “barone” di maggior peso nel Partito.

In ogni caso è un fatto che l’ipotesi politica su cui aveva scommesso la destra moderata ed estrema non si è realizzata, tra l’altro con una imprevista ma netta perdita di voti per Vox.

Per ora la tanto invocata “stabilità” sembra non passare, almeno in Spagna, attraverso il consolidamento dell’asse tra conservatori ed estrema destra.

Una destra che comunque avanza sia in percentuale di voti che di preferenze effettive: 11,2 milioni di voti, cioè 45,6%, contro 10,4 milioni del 2019, cioè il 43,1%.

Non un consenso “risicato”, quindi.

Il PSOE, nonostante tutto, avanza elettoralmente passando da 120 a 122 deputati, che sommati ai 31 di Sumar, fanno 153; comunque poco meno di quelli che avevano permesso la formazione della coalizione che ha governato fin qui il Paese.

Da notare che la coalizione Unidas-Podemos, composta dalla storica formazione della sinistra spagnola (IU) e dall’organizzazione allora guidata da Pablo Iglesias, raccolse 4 deputati in più dell’attuale Sumar, formata da ben 15 soggetti politici “a sinistra” del PSOE.

Nelle 10 Tesi scritte dall’ex leader di Podemos per il voto del 23 luglio – Diez tesi sopra el 23J – Pablo Iglesias al punto 7 è impietoso con il risultato ed il metodo di costruzione di Sumar che «perde più di 700.000 voti e perde inoltre sette deputati rispetto ai risultati dei partiti della sua coalizione nel 2019».

In effetti, vi è stato uno iato netto tra aspettative e realtà rispetto al risultato, che vede tra le tre formazioni più premiate al suo interno – con 5 deputati Podemos, Comunes catalani, e IU, – oltre a due di Más Madrid, due della valenziana Compromís e uno della Chunta aragonesista.

In caso di ripetizione delle elezioni, secondo Iglesias, Sumar non avrebbe scuse per non convocare le primarie e non potrà essere posto il veto su nessuno, come è stato fatto con alcune figure di spicco di Podemos, ad esempio Irene Montero.

In caso di formazione di un governo con un “fronte amplio” i 5 deputati di Podemos avrebbero un peso nei delicati equilibri dell’esecutivo.

L’operazione di marginalizzazione di Podemos dentro Sumar, per rendere maggiormente compatibile la creatura politica della Díaz, non ha dato i suoi risultati in termini elettorali, e sembra forte il “revanscismo” nei suoi confronti da parte dei dirigenti della formazione.

La segretaria generale della formazione, Ione Belarra, in un video-messaggio per la stampa, si è dimostrata molto critica dicendo esplicitamente che: «la strategia di rinunciare al femminismo e invisibilizzare Podemos non ha funzionato».

La Belarra ha voluto ricordare che se oggi la marea nera è stata fermata e si dà la possibilità di insediare nuovamente un governo progressista «è grazie alla gente che si mobilitò nel decennio passato. Nelle maree e nelle lotte sindacali […] e a Podemos, che operò con enorme responsabilità e generosità», rivendicando il proprio ruolo nel precedente accordo governativo.

Il ripetersi della coalizione che fino a qui ha governato la Spagna ha però bisogno ora dell’astensione di Junts durante la prima votazione parlamentare sull’esecutivo, cosa che alza non di poco l’asticella della trattativa, considerato che la formazione catalana – come contropartita – vuole espressamente l’amnistia e l’autodeterminazione.

Una linea rossa difficilmente attraversabile da parte dei socialisti, specie di quelli catalani del PSC che sono tornati ad essere la prima formazione in regione dopo 15 anni con 19 deputati su 48, creando un “cortocircuito” non da poco.

Una equazione politica, insomma, difficilmente gestibile dal leader dei socialisti catalani, Salvador Illa.

A dire l’ultima parola, con ogni probabilità, sarà l’ex presidente catalano in esilio, Carles Puigdemont.

Il portavoce di Junts – Josep Rius – ha smentito la voce di un contatto ufficiale di Sumar, attraverso l’ex deputato di En Comú Podem, Jaume Asens.

In mattinata il leader di Junts per Catalunya ha affermato senza mezzi termini che “non facilitare la riedizione del governo di coalizione di Sánchez non è lo stesso che permettere il governo di Feijó“.

Nell’equazione politica della formazione, la stabilità politica della Spagna è insomma subordinata all’indipendenza della Catalogna.

È un paradosso politico evidente il fatto che nonostante i 140 mila voti in meno, Junts e soprattutto le istanze indipendentiste più “intransigenti” siano il vero ago della bilancia della politica iberica, insieme al più scontato appoggio della sinistra repubblicana di ERC, in netto rinculo rispetto al 2019 che passa da 13 deputati a 7, gli stessi di Junts.

Un ultima considerazione riguarda l’ottima performance della sinistra abertzale di EH Bildu, che ha subito chiarito che non è equidistante tra l’ipotesi di un governo dell’estrema destra ed il ripetersi della coalizione che ha fin qui governato la Spagna.

Ormai è un testa a testa nei Paesi Baschi tra il PNV e la formazione per molti versi erede di Batasuna.

Il coordinatore generale, Arnaldo Otegi, ha ripetuto che la priorità della propria formazione – visti i risultati delle urne – è «impedire che governino le destre».

Bildu ha ottenuto 333.362 voti, e sarà rappresentato da 6 deputati (5 nel Paese Basco ed uno in Navarra) e 5 senatori. La migliore performance elettorale alle politiche, con 52 mila voti in più rispetto al 2019.

Bildu è la terza forza politica basca, con appena 1.100 voti in meno del PNV, che è seconda dietro i socialisti del PSE-EE.

Si conferma quindi uno spazio politico in cui la formazione, come afferma Otegi, «è utile per migliorare e conquistare diritti nazionali e sociali per i suoi cittadini». Ed un argine imprescindibile allo sbocco reazionario della crisi politica spagnola.

La mancata vittoria di una delle due polarità principali trasforma la creazione di un governo in un rompicapo, dove il tentativo di evitare nuove elezioni non avrà certo vita facile, vista la frammentazione della rappresentanza ed il riemergere di nodi politici ancora irrisolti ma importanti, come il rifiuto del neo-falangismo come forza di governo, i processi di auto-determinazione popolari in Catalogna, nei Paesi Baschi ed in Galizia, la necessità – “a sinistra” – di non sacrificare la propria autonomia rispetto ad una strategia “governista” che non sia subordinata alle istanze social-democratiche.

L’impasse politico a cui assistiamo è frutto della mancanza di una adeguata risoluzione delle storture del Regno di Spagna post-franchista e delle contraddizioni sociali che l’hanno attraversata dalla crisi sistemica dal 2008 in poi.

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