Non si scampa alle conversazioni da bar in cui qualcuno (normalmente di destra) se ne esce con “ci sono troppi laureati e pochi falegnami” oppure “l’Italia ha troppi dipendenti pubblici che non combinano niente”. Altri (normalmente di sinistra) moraleggiano che “l’immigrazione è un finto problema” o quanto sia “bello pagare le tasse”. In questo contesto, il libro di Guendalina Anzolin e Simone Gasperin (30+1 cifre che raccontano l’Italia) è un manualetto di resistenza ai luoghi comuni scritto in modo chirurgico da due “giovani” economisti appassionati del loro Paese e con studi in prestigiosi centri di ricerca britannici. Trentuno capitoli e altrettanti affreschi su economia e società italiana nel trentennio “inglorioso” seguito alla firma del trattato di Maastricht.
Il declino economico è ben rappresentato dal calo della ricchezza che rende quello italiano un caso più unico che raro nel mondo occidentale. Il 16 maggio del 1991 il Corriere titolava “Italia quarta potenza”, avendo superato la Gran Bretagna per Pil procapite: trent’anni dopo, era più basso in termini reali rispetto al 1990, accompagnato da una riduzione dei salari reali, diminuiti da allora al 2020 del 2,9 per cento. L’implosione è avvenuta in un quadro di politiche macroeconomiche improntante al raggiungimento di avanzi primari (lo Stato spende meno di quanto preleva da cittadini e imprese al netto degli interessi). Tra il 1991 al 2019 sono stati accumulati 819 miliardi di avanzi primari accompagnati da un’esplosione del debito, lievitato nel 2020 alla cifra record del 154% sul Pil. Il processo di “nanizzazione” industriale ha fatto sì che mentre nel 1990 l’Iri e l’Eni erano rispettivamente all’11° e al 18° posto tra le più grandi aziende al mondo secondo l’indice Fortune 500 (Enel era la terza azienda elettrica al mondo per fatturato, prima per clienti), trent’anni dopo le italiane siano scivolate in fondo alle classifiche. Pezzi pregiati dell’industria italiana, da Telecom a Pirelli sono stati venduti, trend proseguito oggi con Alitalia a Lufthansa. I soliti del bar diranno: “È la globalizzazione!”. Questo non spiega perché l’Italia sia precipitata al 15° posto della classifica Fortune per il numero di aziende annoverate mentre la Germania resti in 4ª posizione, la Francia in 5ª. Mentre la grande industria italiana sbiadisce, emerge con prepotenza il settore turistico che impiega il 19,2% di occupati in più che nella manifattura (crollata ulteriormente negli ultimi mesi del 7,2 per cento). Agli spingitori di B&B e “Open to Meraviglia”, gli autori rispondono con un’asciutta considerazione: “Questo ragionamento è tuttavia una trappola logica, smentita dall’esperienza storica dello sviluppo economico. I Paesi a più alto reddito sono quelli che hanno “forzato” i loro vantaggi comparati” investendo in settori ad alto valore aggiunto”.
Le difficoltà della grande impresa sono andate di pari passo a un tracollo degli indicatori sociali: il “lavoro povero” ha raggiunto il 12 per cento, il 14 per cento della popolazione vive oggi in condizioni di povertà relativa. Il settore pubblico, vessato da tagli lineari, è tra i più anemici nell’Ue. Alla spesa sanitaria sono stati sottratti 37 miliardi (in 10 anni chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza). Il disinvestimento nell’università ha fatto sì che solo il 9 per cento degli italiani compresi nella fascia tra i 24 e i 35 anni possieda un titolo di laurea o equivalente: l’Italia si ritrova in penultima posizione fra i Paesi OCSE (meglio solo del Messico, che però ha un Pil procapite tre volte inferiore). Le destre italiane, demonizzando l’intervento pubblico hanno contribuito alla crisi del sistema industriale e all’indebolimento delle strutture statuali. Le sinistre hanno pochi fiori all’occhiello. Per esempio l’immigrazione, lungi dall’essere un “non problema”, è una questione di portata epocale. Dal 1870 al 1971 l’Italia ha registrato un saldo migratorio costantemente negativo. A partire dal ‘72 la dinamica si è invertita e negli anni Duemila l’afflusso netto di immigrati è stato costante per 239mila ingressi all’anno. La popolazione non italiana è passata da appena 356.159 unità nel ‘91 agli oltre 5 milioni attuali. È avvenuto mentre la popolazione residente è diminuita per la prima volta nella storia unitaria nel 2021 (a 59 milioni), anche a causa di un deflusso verso l’estero che ha toccato quota 198mila nel 2020, portando la popolazione italiana residente all’estero al 13 per cento del totale (non solo giovani laureati, ma intere famiglie). Un cambiamento epocale.
Anche sulle tasse i numeri di Anzolin e Gasperin ci raccontano che pagarle non sempre è bello. L’Italia ha una pressione fiscale sul Pil (42,4 per cento) che è tra le più alte fra i Paesi Ocse, davanti alla Germania. Mentre è calata la progressività fiscale data dall’imposizione diretta, sono aumentate le imposte indirette come l’Iva (arrivata al 22 per cento) che gravano sui consumatori indipendentemente dal reddito, dunque sono socialmente regressive. Alcune tasse andrebbero alleggerite (ridurre l’Iva al livello pre-2011 contribuirebbe a controllare l’inflazione), altre andrebbero aumentate.
I mali dell’economia italiana sono noti, non da ieri. Competizione a basso costo, sottodimensionamento delle imprese, fratture territoriali, interazione con un vincolo esterno che ha imposto politiche macroeconomiche segnate da austerità e privatizzazioni. Se è insensato glorificare Berlusconi, protagonista del degrado economico e culturale del Paese, altrettanto fuori luogo sarebbe incensare le sinistre per il sostegno all’austerità, nonché per l’infatuazione per privatizzazioni e liberalizzazioni che hanno arricchito percettori di dividendi italiani e non (anche nelle imprese partecipate dallo Stato il 40% dei dividendi va ad azionisti stranieri).
Come chiosa dei numeri forniti dagli autori, è giusto trarre due considerazioni. In primo luogo la retorica della “crescita”, fatta di flessibilità del lavoro, concorrenza sui prezzi, incentivi alle imprese, ha connotato in senso regressivo la contrazione del Pil. La “decrescita” andrebbe invece abbracciata come un dato di fatto di un mondo in cui emergono altre regioni industriali e in cui i limiti naturali all’espansione produttiva sono stati superati. Abbracciare la decrescita (o la “prosperità”, termine preferito da Bruno Latour) significherebbe orientare le scelte non tanto all’aumento del Pil, quanto al miglioramento della qualità della vita e alla transizione ecologica. Per esempio, rilanciando servizi pubblici più efficienti di quelli privati, intervenendo sulle produzioni industriali, riducendo gli orari di lavoro, redistribuendo ricchezza verso le fasce più povere (e meno responsabili dell’inquinamento), rilanciando l’economia pubblica nella gestione del settore energetico. Persino sul Financial Times è stato scritto che “i governi, non BlackRock, devono guidare questo nuovo Piano Marshall... massicce spese in deficit saranno necessarie, non un nuovo Etf”.
Un’altra questione riguarda l’immigrazione. L’idea che si possa cambiare di segno al declino italiano con ulteriori massicci innesti di manodopera non italiana a basso costo per spingere il Pil, o per equilibrare il sistema pensionistico, non tiene conto del cambiamento epocale già in atto, né delle conseguenze sociali, drammaticamente evidenti nel degrado delle periferie francesi. Ci sono ragioni di carattere morale per l’accoglienza, nonché di carattere politico e culturale sulle responsabilità che gli europei devono assumersi per l’epoca coloniale, ma la priorità dovrebbe andare internamente alla piena inclusione dei migranti (per esempio con l’apertura di nuove moschee), ed esternamente a una battaglia per modifiche strutturali dell’economia internazionale. Qualcosa come un vero “Piano Mattei” per l’Africa in cui soldi e risorse naturali restino lì, non le mosse predatorie che Eni-Meloni spacciano a nome del fondatore.
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