Quando il Partito Democratico era al governo la Cgil (e lo stesso PD) non voleva nemmeno sentir parlare di salario minimo per legge, sulla base dell’argomentazione che soltanto la contrattazione sarebbe in grado di garantire veri aumenti salariali.
Una tesi che venne confutata persino da Bruno Trentin il quale, ai primi anni novanta, da segretario della Cgil, si dimise dopo aver firmato l’abolizione della scala mobile proprio in cambio del salario minimo garantito, poi mai approvato.
E addirittura nel lontano 1954 l’allora segretario generale Cgil, Giuseppe Di Vittorio, propose una legge per fissare un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori.
Ora che il PD è all’opposizione, si è intestato la battaglia sul salario minimo e la Cgil (sindacato collaterale al PD) – ma guarda un po’ – adesso lo sostiene.
L’Italia, si sa, è un paese dalla memoria cortissima.
All’epoca del primo governo Conte, la USB si ritrovò sola nel sostenere la proposta della ministra Nunzia Catalfo di introdurre il salario minimo orario di 9 euro per legge.
Ora i nuovissimi epigoni del salario minimo sanno benissimo che l’attuale maggioranza non approverà mai una legge sul salario minimo, in linea, ovviamente, con il “no” di Confindustria, che oltretutto lega l’ipotesi di aumenti salariali ad eventuali, ennesimi, sgravi fiscali alle imprese (per la serie “paghi la collettività”).
E allora, Cgil Cisl Uil collegano la richiesta di un salario minimo ad una legge sulla rappresentanza cucita su misura – per la serie “siamo noi gli unici autorizzati alla contrattazione” – dimenticando che i salari poveri in Italia sono il frutto dei contratti al ribasso che loro hanno firmato, nonché della giungla contrattuale che hanno avallato nel corso degli ultimi trent’anni.
Un odioso gioco delle parti sulla pelle di milioni di lavoratori che devono riuscire a sopravvivere nonostante paghe da fame mentre l’inflazione galoppante continua ad eroderne il già magrissimo potere d’acquisto.
Volendo rendere attuale il severo (ma forse non del tutto infondato) giudizio che Orson Welles – regista e drammaturgo statunitense – espresse nei primi anni Sessanta, nei confronti del nostro “popolo”, si potrebbe dire che l’Italia conta 59 milioni di attori e che i peggiori, forse, stanno nei partiti e nei sindacati della ex-sinistra.
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