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31/07/2023

GERD: “la diga della rinascita” nei rapporti di forza dell’Africa Orientale

Il 6 luglio 2023 a margine di un incontro tenutosi a Il Cairo per raggiungere un accordo per garantire la fine del conflitto sudanese – che ha coinvolto tutti gli stati attigui al Sudan – l’Egitto di Al Sisi e l’Etiopia di Abiy Amehed hanno concordato di finalizzare un accordo sulla gestione delle fasi di riempimento della “diga della rinascita”, cioè la gigantesca diga posizionate a valle delle acque del Nilo Azzurro (la GERD) situata nel territorio sotto la sovranità etiope.

Quando venne sviluppata la GERD, siamo attorno al 2011, l’intenzione era quella di costruire un impianto che fosse in grado di generare abbastanza energia elettrica per poter servire un territorio molto ampio, potenzialmente in grado di rifornire di elettricità una zona che valicasse i confini nazionali etiopi e andasse anche ad interfacciarsi con territori e popolazioni limitrofe sia in direzione est – abbracciando il Corno d’Africa – sia verso il continente africano a valle dell’orografia del Nilo azzurro, toccando poi le prime parti di quello più profondo.

Un genere di infrastruttura quindi con un impronta strategica, tale per cui, paesi importanti come l’Egitto, avente un peso abbastanza significativo nel bacino orientale del Mediterraneo, non potevano non generare una mediazione diplomatica.

Due paesi, l’Etiopia e l’Egitto, che oltre a rivestire storicamente una grande importanza regionale, erano e sono alle prese con problemi interni di prim’ordine: una crisi economica data da un inflazione galoppante, una necessità di investimenti per ristrutturare e costruire impianti produttivi ed infrastrutturali all’avanguardia.

Per l’Etiopia, inoltre, una guerra civile durata poco più di due anni contro le milizie della regione separatista del Tigray.

Vista questa situazione la diga acquista quindi un importanza ancora maggiore per la vita delle popolazioni e per la tenuta dei governi che dovrebbero rappresentarle.

Lo storico delle mediazioni diplomatiche che precede le decisioni degli ultimi giorni non lasciava intravvedere nulla di roseo.

Dopo la mancata mediazione avvenuta all’interno dell’Unione Africana e sotto il patrocinio degli Stati Uniti, si era addirittura arrivati a toni molto aspri tra Il Cairo e Addis Abeba, tanto che nell’ultimo incontro della Lega Araba, che – sotto pressione egiziana ha dovuto occuparsi della cosa – pur non essendone l’Etiopia un membro, ha visto Al Sisi aprire velatamente a reazioni anche militari, qualora non si fosse arrivati ad un accordo, quantomeno sul funzionamento della diga in fase di riempimento.

Da parte loro i dicasteri di Addis Abeba avevano sempre dichiarato la legittimità dell’opera in base alle regole internazionali, che non impediscono la costruzione di un infrastruttura sul territorio sovrano vista la potenzialità in termini di sviluppo del territorio stesso, ed anche in termini di sostenibilità ambientale.

Per questo la tensione era salita fino a livelli di guardia considerevoli.

Ma qualche giorno fa, dopo questo precedente che sembrava progredire verso frizioni sempre crescenti, è arrivata la notizia di un pre-accordo raggiunto tra Il Cairo e Addis Abeba che si impongono un percorso di quattro mesi per arrivare ad un intesa.

Per iniziare a sondare questo cambiamento nell’atteggiamento delle due nazioni dobbiamo andare a vedere più a fondo i loro rapporti internazionali.

Egitto

L’Egitto è un paese di importanza cardinale per quanto riguarda il territorio del Maghreb e il bacino orientale del Mediterraneo.

Nel 1952 un colpo di stato militare depone il re Farouk e instaura una repubblica basata sull’esercito che produrrà poi una costituzione, quella del 1971, che dota le alte cariche militari di importanti poteri costituzionali.

Durante il periodo delle primavere arabe, nel 2011, l’apparato militare burocratico egiziano, retto al tempo da Mubarak, viene spinto alle dimissioni.

Nel 2012 le elezioni vengono vinte da Morsi, candidato del Partito Giustizia e Libertà che segue la direzione dei Fratelli Mussulmani, direzione che ha breve vita, visto il rivolgimento militare del 2013 che porta al potere Al-Sisi.

Un cambiamento che, fondamentalmente, ripropone con qualche variazione l'impianto istituzionale previsto dalla costituzione del 1971.

Il governo Al Sisi è caratterizzato internamente da una situazione economica non idilliaca, che vede come priorità lo sfruttamento delle risorse gasifere del Mediterraneo orientale, un contenimento delle spinte secessioniste in Libia, innescate dall’intervento della NATO contro Gheddafi e un governo che tenga conto della situazione del Sudan, da sempre considerato il proprio “giardino di casa” da parte del Cairo, più le tensioni con l’Etiopia che costituiscono l’ argomento principale di questo articolo.

Per la gestione di queste situazioni Il Cairo ha cercato appoggio da entrambi i macro schieramenti che vediamo oggi sulla scena internazionale.

Da una parte l’Egitto media con Israele per mantenere lo status quo soprattutto riguardo la zona del Sinai, interessata dall’operare di formazioni jihadiste come il Wilayat Sinai cioè la branca egiziana del Daesh.

Una zona che riveste un importanza strategica per Il Cairo, visti i progetti che vorrebbero essere implementati per la ristrutturazione del canale di Suez.

Se questa mediazione pareva attrarre l’Egitto sempre più coerentemente verso le sfere di potere occidentale, le critiche rispetto al rivolgimento che ha deposto Morsi, le mancate mediazioni per quanto riguarda la questione del Nilo Azzurro e le interferenze libiche hanno prodotto spaccature tra Washington e Il Cairo che hanno portato alla non ratifica dei finanziamenti decisi a Camp David nel 1979.

Nonostante questo Al Sisi ha cercato più volte, per la natura della situazione economica egiziana, aiuto dal Fondo Monetario Internazionale come accennato più avanti.

Da un altra parte la partnership con l’Unione Europea sembra essere continuata, lato commerciale, più per una questione di mancanza di investimenti in Egitto che per altro, considerando che, come ricordano i casi Regeni e Zaki per parlare del rapporto tra Roma e Il Cairo, non sono mancati momenti di tensione.

Ma questa fame di investimenti ha portato anche ad un avvicinamento con altri attori internazionali, come la Cina e la Federazione Russa.

A livello regionale la Turchia ha rappresentato, almeno fino a qualche mese fa un avversario, visto il legame di Ankara con i Fratelli Mussulmani scalzati dal potere in Egitto proprio dal rivolgimento comandato da Al Sisi, mentre i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, cioè con le cosiddette Monarchie del Golfo è stato ottimo fin dall’insediamento della giunta militare, avendo queste prestato dal 2013 al 2021 svariati miliardi di dollari per la ricostruzione produttiva egiziana (secondo alcun fonti occidentali non confermate i prestiti sarebbero a quota 100 miliardi), anche se, la mancanza di obbiettivi raggiunti nella vita economica egiziana ha prodotto forti critiche da parte dei dicasteri di Riyadh nell’aprile di quest’anno.

Etiopia

L’Etiopia, nella sua attuale configurazione, si presenta come uno stato formato da una sorta di federazione di differenti etnie, aventi una grandezza e un unione differenti fra loro, ma che sono formalmente sotto il governo centralizzato di Addis Abeba

Questa situazione, unita ad una storia ricchissima e molto corposa che comprende regni come quello di Aksum, ha garantito a questo territorio il sottrarsi al dominio occidentale, cosa unica nel continente africano, pur sviluppando situazioni di tensione enormi.

È il caso della regione nord occidentale del Tigray sotto il controllo del TPLF, che dopo aver avuto un ruolo determinante nella caduta del governo Derg (comitato provvisorio militare per l’Etiopia Socialista) presieduto da Menghitsu, dopo una lunga guerra civile dove incassò l’appoggio statunitense, ha formato dagli anni ’90 una sorta di ceto dirigenziale.

Dopo la salita al potere di Abiy Ahmed, e il suo conseguente tentativo di unificare il Fronte Democratico rivoluzionario del popolo etiope in un unico partito (il Partito della prosperità), il TPLF, membro di detta coalizione, non accetta tale decisione e si defila.

La contingenza COVID-19 nel 2020, unita alla tornata elettorale per le elezioni generali, insieme a questi pregressi determina una situazione per cui, i continui rinvii delle elezioni vengono interpretati da Makelle (“capitale” del Tigray ) e dal leader del TPLF Debertsion Gebremichael, come un tentativo illegittimo da parte di Abiy di accentrare ulteriormente il potere.

Arrivati a questo punto quindi, le milizie tigrine decidono di tenere comunque le elezioni sul proprio territorio, nonostante la non validità sancita da Addis Abeba, e attaccano all'inizio del novembre 2020 le unità del governo centrale nel territorio tigrino, requisendo importanti forniture militari e uccidendo svariati soldati di Addis Abeba.

Da qui ha inizio un conflitto che termina, almeno per quanto riguarda la sua intensità maggiore, solo lo scorso anno, attraverso una mediazione tra Addis Abeba e Makelle, che sembra aver portato la situazione ad un equilibrio, anche se continuano certe sacche di resistenza nel Tigray, probabilmente alimentate da gruppi di semplici banditi intenti ad arraffare ciò che possono dalla “coda” di questa questione.

Una situazione di equilibrio che sembra essere stata il frutto anche dell’intervento eritreo, che ha garantito militarmente (e pare stia ancora garantendo, almeno stando alle notizie frammentarie che giungono in occidente, attraverso lo stazionamento di truppe nei confini con l‘Etiopia settentrionale) questo cessate il fuoco.

Ma la natura inter-etnica e contrastiva che abbiamo in Etiopia non sembra placare le tensioni, considerando ad esempio i mal di pancia che paiono crescenti nell’etnia Oromo, che attraverso le proprie strutture politiche non sembra essere contenta della nuova strutturazione raggiunta, dove pensava si arrivasse ad un maggior peso della più grande entità etiope attualmente presente nello stato nazionale con capitale Addis Abeba sotto il governo Ahmed, ma che ora non è più tanto convinta dell’operato del presidente.

Un qualcosa che potrebbe scatenare altre tensioni razziali, purtroppo numerose nell’antico regno di Aksum, anche se gli Oromo non paiono così unitari come per quanto riguarda l’etnia tigré.

Le contingenze attuali nel quadro regionale

L’Egitto, come detto, è in una fase di crisi economica e Al Sisi dalla sua salita al potere ha cercato di ovviare alla fame di investimenti esteri chiamando il Fondo Monetario Internazionale.

All’ultima tornata l’FMI ha stipulato un accordo con Il Cairo per 3 miliardi di dollari, facendo seguire a questa linea di credito varie condizioni tra cui una maggiore fluttuazione dei tassi d'interesse, una decentralizzazione dello stato nella vita economica del paese, che in Egitto significa in concreto esautorare l’establishment legato ad Al Sisi, cioè una delle parti principali sulle quali è fondato il suo potere.

Questo ovviamente dovrebbe essere propedeutico all’instaurazione di un economia trainata dalla logica privata per ovviare alla crisi, che già sotto l’attuale establishment ha visto un aumento dei tassi di interesse.

Una strada, questa, non graditissima ad Al Sisi che deve costruire infrastrutture per ammodernare il paese, facendo fronte a costi che attualmente non sembrano alla portata dell'economia egiziana.

L’Etiopia, anche essa alle prese con problemi simili, almeno nell’ambito produttivo, ha avuto un maggior supporto da parte della Cina, che nel secondo stato più popoloso dell’Africa ha attivato partnership economiche da tanto tempo, relazioni bilaterali che hanno passato la storia dell’unico paese africano a non essere mai stato sottomesso dai colonizzatori occidentali e continua tutt’oggi, sia nella collaborazione nell’ambito industriale, come la formazione di industrie tessili nelle aree limitrofe ad Addis Abeba, sia lato infrastrutturale, come i finanziamenti per la costruzione del tratto ferroviario che collega la capitale etiope a Djibouti o quelli relativi, anche se non maggioritari, alla GERD.

Una collaborazione senza condizioni legata alla condotta in politica economica, al contrario delle proposte occidentali incassate da Il Cairo, che ora può guardare anche ad una possibile collaborazione con Pechino, già attiva nell’apertura di linee di credito per la costruzione della nuova capitale amministrativa.

Così come può rivolgersi al Cremlino per raggiungere accordi bilaterali riguardanti i rifornimenti alimentari e il commercio relativo tra i due paesi, un qualcosa di indubbio carattere strategico se consideriamo che la popolazione egiziana produce molto meno di ciò che abitualmente consuma.

Un opportunità, quella aperta dal poco appeal occidentale, che ha visto giocare al tavolo anche un altra potenza regionale che negli ultimi giorni ha fatto discutere riguardo gli atteggiamenti tenuti all’ultima tornata degli incontri dell’alleanza Atlantica a Vilnius, cioè la Turchia.

La Turchia ha sempre mantenuto nei confronti dell’Egitto post 2013, un atteggiamento di chiusura totale, come testimoniato, oltre alle numerose uscite al veleno tra Ankara e Il Cairo, anche dall’assenza di relazioni diplomatiche ufficiali negli ultimi dieci anni.

Ma è notizia di una settimana fa della volontà bilaterale di riaprire queste sedi diplomatiche e proseguire il rapporto fondandolo sul confronto piuttosto che facendo muro contro muro come nell’ultimo decennio.

Una Turchia che nella questione del GERD era sempre stata più vicina, quindi, ad Addis Abeba, anche grazie alla rete culturale messa in piedi da Fetullah Gulen e poi occupata dopo il 2016 dai gruppi legati all’AKP, in una situazione in cui Il Cairo preoccupava Ankara sia in ottica Libia, sia in ottica riserve di gas nel bacino orientale del Mediterraneo, uno dei dossier sui quali i dicasteri di entrambi i paesi hanno dichiarato di voler raggiungere accordi che tengano conto degli interessi rispettivi di entrambe le parti.

Se da una parte quindi le necessità legate allo sviluppo di sistemi produttivi arretrati poiché interessati storicamente, a differenti intensità, dello stato di colonizzazione e semi colonizzazione che ha contraddistinto la sponda sud del Mediterraneo e l’Africa stanno portando all’apertura di un dialogo, garantito materialmente dai rapporti storici instaurati col continente africano dalla Repubblica Popolare Cinese, dall’altro la situazione interna del terzo Stato toccato dalle acque del Nilo Azzurro e attore protagonista anche esso di questo dossier, il Sudan, sembra aver accelerato queste trattative.

La situazione sudanese

La situazione sudanese vede le forze governative radunate attorno ad Abdel Fattah Abdelrahman Al-Burhan generale delle forze armate sudanesi, contrapporsi a Mohamed Hamdan Dagalo Hemedti suo antico vice, uomo d’affari e capo delle RSF cioè forze costituite in maggioranza da tribù del Darfur e usate come corpo mercenario nel conflitto yemenita.

Questa contrapposizione nasce anche essa dagli appetiti Imperiali dell’occidente che hanno mantenuto strenuamente un controllo di classe di questi capi militari attraverso il mancato processo di transizione dopo il rivolgimento popolare del 2019 per contrastare i sentimenti anti-coloniali che avevano portato alla cacciata di Al Bashir.

Durante il colpo di stato dell’ottobre 2021, che pone fine alla transizione democratica successiva ai rivolgimenti popolari del 2019, l’esercito è stato affiancato dal gruppo paramilitare denominato Forze di Supporto Rapido (RSF), guidato dal generale Hemedti, poi vice di Al Burhan nella giunta militare al governo del Paese.

La situazione dopo questa data diventa subito molto critica considerando gli asprissimi scontri di piazza che hanno prodotto centinaia di morti.

Così nell’agosto dello scorso anno si arriva ad un “piano di transizione democratica” per l’installazione di un governo civile, che però vede affiorare subito tensioni tra l’esercito sudanese comandato da Al- Burhan e le formazioni guidate Dagalo Mehmeti, che sono contrarie ad una totale subordinazione dei comandi alla direzione insediata a Karthoum.

Ne scaturisce quindi un conflitto civile iniziato nell’aprile scorso, che ha visto concentrare le operazioni attorno alla capitale.

Oltre a questa situazione bisogna inoltre sommare i conflitti presenti nei distretti sudanesi del Nilo azzurro, nel territorio di al-fashaga, conteso all’Etiopia, e ovviamente nel Darfur.

Questa serie di interminabili conflitti ha prodotto numerose migrazioni che espandono le loro direttrici in tutte le direzioni, con una preferenza verso il bacino orientale del Mediterraneo, in particolare modo l’Egitto, che è legato a doppia mandata storicamente alla formazione del Sudan.

Ma per capire anche quelle che sono le difficoltà economiche e produttive di questo territorio dobbiamo fare menzione del processo che ha portato all’indipendenza del Sud Sudan.

Dagli anni ’50 in poi, durante cioè il tartassato processo di decolonizzazione avvenuto sempre all'interno di forti interessamenti occidentali, il Sudan si è presentato con una forte spaccatura tra nord e sud.

Un nord più legato all’Egitto e al mondo arabo mussulmano ed un sud più legato all’Africa profonda e centro orientale, dove ha preso vita un importante movimento di liberazione, che riesce a raggiungere l’indipendenza nel 2011 dopo due guerre civili sudanesi (1955-1972 e 1983-2005) che strappano questo territorio a Karthoum.

In questa zona, avente propria sovranità da dodici anni, sono presenti le maggiori riserve petrolifere del paese, che però sono staccate dagli impianti di raffinazioni presenti principalmente al nord, ragione per cui si è dovuto arrivare ad un accordo che se pur flebile garantisce l’estrazione e la circolazione del greggio tra nord e sud oltreché la ripartizione degli utili che rappresentano una voce percentuale enorme per quanto riguarda l’esportazione plenaria di queste zone.

Un altra voce importante a fini economici e quindi sociali, relativa alla vita dei territori anche limitrofi, ha a che fare con le risorse d’acqua, in particolar modo con il controllo a valle del Nilo bianco.

I movimenti di liberazione del Sud Sudan e il governo provvisorio di Karthoum, raggiungono un accordo nell’ottobre del 2020, per quanto riguarda un cessate il fuoco plenario nelle zone interessate dalle tensioni belliche che sembra tenere nonostante la decisione di non partecipare all'assise da parte delle formazioni più importanti protagoniste della lotta per l indipendenza del Sud Sudan come l’esercito di liberazione del Sudan che denunciano un infiltrazione dei gruppi islamisti oltranzisti nelle compagini del nord.

Il Sudan nella contingenza attuale

La guerra civile che si sta consumando per il controllo della sovranità esercitata a Karthoum sta generando masse enormi di rifugiati che fuggono dal paese in varie direzioni.

L’Etiopia sta ospitando ad esempio sessantamila rifugiati, mentre l’Egitto, visto anche i legami storici col Sudan ne sta ospitando duecentocinquantamila.

Da questi dati allarmanti, che si legano alle situazioni prima descritte, si è arrivati quindi ad un tavolo chiamato proprio da Il Cairo, che ha visto partecipare Ciad, Africa centrale, Sudan meridionale, Etiopia ed Eritrea, per arrivare ad un cessate il fuoco.

Questo interessamento regionale arriva appena dopo il tentativo di mediazione dell’IGAD, cioè l’associazione degli stati del corno d’Africa sorta nel 1986 sotto spinta occidentale e presieduta anche dalla Commissione europea, che si è vista rifiutare dall’esercito regolare sudanese la possibilità di stanziare truppe extraterritoriali per garantire il cessate il fuoco, decisione questa presa dall’attuale establishment sudanese probabilmente perché intenzionato a non esacerbare i sentimenti anti-coloniali che avevano prodotto le insurrezioni popolari dell’aprile 2019.

Vista l’importanza della situazione a margine di questo incontro per aprire un dialogo sulla questione sudanese, il Cairo ed Addis Abeba, come detto all’inizio di questo commento, hanno deciso di riaprire il dialogo, dandosi anche un arco temporale congruo per sviluppare proposte ricevibili da entrambe le parti, come ad esempio un governo trilaterale riguardo il riempimento della diga, che ovvierebbe al problema economico derivante dall’abbassamento del livello delle acque così importanti per l’agricoltura egiziana e sudanese, guardando comunque al fabbisogno elettrico etiope, che, come detto inizialmente, ha una potenzialità molto grande, essendo le due centrali a ridosso della diga in grado di generare 5150 Mw costituendo così la più grande centrale elettrica del continente africano.

Conclusioni

Il “governo” diplomatico di questa questione, cioè un impostazione che tenda a togliere dalle possibilità di risoluzione dei problemi la guerra, è ancora molto incerto e pieno di difficoltà e dipenderà probabilmente anche da come si comporteranno gli stati occidentali che stanno caratterizzando l’attuale spinta alla militarizzazione nel contesto globale, se cioè le forze occidentali, che a più riprese si interessano di queste questioni, dalle potenze maggiori come gli Usa, regionali come la Turchia a quelle gregarie come la Francia e l’Italia (il viaggio della Meloni ad Addis Abeba, propagandato sotto il “titolo” mistificatore di “Piano Mattei” e che puntava ad ampliare determinati legami economico politici facendo perno sugli interessi presenti nel paese africano della Salini Impregilo ad esempio), decideranno di aggredire la zona, e quindi di esacerbare determinate tensioni e fratture mai sopite in questo quadrante o meno.

Ma se esistono chance in questo senso, che cioè tendano ad appianare le divergenze tra stati e quindi a scongiurare azioni militari, dobbiamo vedere come reagirà questa parte di “altro mondo”, se si arriverà ad una distensione iniziale – come per ora quella che sembra tenere tra Iran e Arabia Saudita – oppure i venti di guerra si ingrosseranno anche in questa importante parte di mondo sotto la spinta delle insegne imperialiste, sempre attente ad inserirsi e ad alimentare scontri razziali, confessionali o a spalleggiare qualche intraprendente borghesia compradora.

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