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21/07/2023

La guerra in Ucraina sta stressando l'austerità europea

Dopo 18 mesi di guerra statunitense in Europa (e contro l’Unione Europea, in specifico contro la crescente “egemonia tedesca”) gli effetti si fanno sentire. Per capirci qualcosa, però, bisogna evitare le trappole del pensiero “geostrategico”, o meglio di quella sua banalizzazione che riduce i problemi sistemici ed economici ad “affari tra gli Stati”.

Quel che è entrato in crisi è infatti un modello di governance delle economie continentali gestito da trattati, ma sorvegliato da una sovrastruttura sovranazionale relativamente indipendente dagli Stati che formalmente la compongono. Ma in definitiva orientata dal modello mercantilista di matrice ordoliberista, specificamente “tedesco”.

Secondo quel modello l’austerità nel controllo del debito pubblico, i bassi salari, la riduzione degli investimenti pubblici e soprattutto della spesa sociale dovevano produrre una duratura “crescita sostenibile” e senza squilibri.

Di fatto, come sappiamo, la crescita si è bloccata da molti lustri anche nel paesi-guida di questo modello (Germania e Francia). E prima la pandemia, ora la guerra, hanno fortemente eroso sia le condizioni per portarlo avanti, sia la sua credibilità nei confronti delle popolazioni.

La crescita in tutti i paesi UE dell’ultradestra parafascista è solo un riflesso – perverso e mostruoso – del venir meno del consenso sociale. Non è insomma questa crescita a determinarne la crisi, come vorrebbero far credere i governi parafascisti e nazionalisti. Demolendo, en passant, anche l’efficacia di qualsiasi richiamo “all’unità delle forze democratiche per impedire la vittoria delle destre” nelle varie elezioni.

La “riforma” della governance, come sempre nell’Unione Europea, avviene per “aggiustamenti successivi”, ma è importante notare come già i primi “aggiustamenti” mettono radicalmente in discussione i pilastri fondamentali dell’austerity “vecchio stile”.

Non certo per “svoltare” verso un modello sociale meno diseguale. Semmai per portare avanti i vecchi equilibri nelle nuove condizioni. Pesantemente scosse da una politica guerrafondaia statunitense che punta esplicitamente a fare dei paesi europei ex sovietici la punta di lancia di una riduzione “dell’Europa” a variabile dipendente dalla volontà di Washington. E delle multinazionali stelle-e-strisce.

Argomento complesso, certamente. Che bisognerà studiare più nei dettagli e nelle tendenze, ma che già ora solleva l’attenzione degli analisti più attenti. Il business as usual, in Europa, è finito.

Quello che lo va sostituendo viene monitorato molto da vicino. Forse anche troppo da vicino, col rischio che il dettaglio impedisca di vedere nelle sue reali dimensioni il processo in atto. Ma meglio informati che ignoranti...

Questo articolo di Francesco Ninfole, apparso su Milano Finanza, può aiutare a scuotere convinzioni e disinformazioni ormai fossilizzate...

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Si sta incrinando in Europa la linea tedesca sulle regole per gli Stati e le banche

Francesco Ninfole

Qualcosa si sta muovendo in Europa su Patto di Stabilità e bail-in delle banche.

I dogmi tedeschi, a lungo sostenuti anche da organismi europei, si stanno incrinando al di fuori della Germania. Perciò Berlino dovrà scontrarsi con più Paesi e anche con istituzioni come la Commissione Ue e la Bce, che si sono espresse a favore di una sostanziale revisione delle norme.

Sia chiaro, la Germania non vuole cedere. Basti pensare alle recenti dichiarazioni del ministro delle Finanze Christian Lindner che hanno confermato la tradizionale rigidità su regole fiscali e bancarie. Berlino ha ancora il potere di bloccare progressi su norme per gli Stati e Unione bancaria.

Ma si intravedono segnali di una maggiore consapevolezza in Europa degli errori della linea tedesca alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni. La pandemia e la crisi energetica hanno definitivamente evidenziato l’irrealizzabilità del Patto, mentre le crisi bancarie (anche quelle più recenti fuori dall’Europa) hanno indicato l’esigenza di maggiore flessibilità nella gestione dei dissesti.

La revisione del Patto

Riguardo al Patto, la Commissione ha messo da parte la regola del ventesimo, che imponeva un’automatica riduzione della parte del debito oltre il 60% del pil.

Il nuovo modello è basato sulla calibrazione della spesa e su piani concordati con gli Stati su un orizzonte di quattro anni, che può essere esteso a sette anni in caso di riforme e investimenti.

La Commissione, su pressione di Berlino, ha mantenuto alcune rigidità come l’obbligo per gli Stati di un aggiustamento fiscale annuo dello 0,5% per chi ha un deficit oltre il 3% del pil. Ma non c’è dubbio che l’approccio sia diverso da quello del passato.

Anche la Bce si è detta a favore di norme «attente alla crescita» e «più anticicliche» nella recente opinione ufficiale sulla riforma del Patto di Stabilità.

«Una stabilizzazione credibile dei rapporti debito pubblico/pil richiede politiche economiche favorevoli alla crescita, compresi gli investimenti pubblici, che devono essere adeguatamente incentivati», secondo la Bce.

La banca centrale non solo approva la direzione intrapresa ma accoglierebbe «con favore ulteriori progressi», come «un coordinamento più efficace dell’orientamento fiscale dell’area euro e l’istituzione di una capacità fiscale centrale permanente».

I tempi sono stretti per la riforma delle regole fiscali. La vecchia versione del Patto tornerà in vigore dal 2024. Perciò serve un accordo tra Stati prima di fine anno.

La Germania potrebbe approfittare della situazione per ostacolare la riforma, ma è anche vero che sempre più Paesi (tra questi anche la Francia) sono favorevoli a dare un’impostazione diversa alla normativa.

La normativa sui dissesti delle banche

Un altro netto cambio di rotta c’è stato in Europa sui dissesti bancari. La Commissione Ue nel 2015 ha impedito l’uso dei fondi di garanzia dei depositi nelle crisi (procurando un grave danno all’Italia), mentre ora proprio i Dgs (Deposit Guarantee Schemes) sono diventati un pilastro del nuovo sistema proposto. In mezzo c’è stata la sentenza su Tercas della Corte di Giustizia Ue.

Bruxelles ha allargato le risoluzioni alle banche medio-piccole consentendo un maggior ruolo nell’uso dei Dgs (tra cui l’italiano Fitd) attraverso l’abolizione della cosiddetta super-priority, come proposto da tempo dall’Italia, anche sulla base dell’esperienza delle crisi vissute sulla propria pelle.

I Dgs potranno contribuire alle svalutazioni richieste dal bail-in fino all’8% del passivo di una banca: così si possono evitare perdite per i depositanti, anche quelli non garantiti, cioè con conti oltre 100 mila euro (un’eventualità che sarebbe più probabile nelle banche medio-piccole).

Inoltre in questo modo si possono attivare in modo più semplice le risorse del Srf (Single Resolution Fund), un punto non gradito da Germania e Francia ma che sbloccherebbe denaro non utilizzato finora nelle crisi.

La Bce ha dato un giudizio positivo anche sulle proposte della Commissione Ue sulle crisi bancarie, in particolare riguardo al maggiore utilizzo dei Dgs. Come per le regole fiscali, per la Bce si dovrebbe semmai fare ancora di più, in particolare consentendo un’esenzione in caso di rischi per la stabilità finanziaria.

La clausola consentirebbe di accedere al Srf senza svalutare l’8% del passivo come richiesto dal bail-in, proprio per evitare in ogni modo che le perdite possano diffondere il panico tra i risparmiatori e innescare una crisi sistemica.

L’esenzione sarebbe possibile solo a condizioni stringenti. Per Lindner però «non è saggio» rinunciare alle perdite del bail-in perché «occorre avere la responsabilità degli azionisti e dei creditori».

La Bce ha evidenziato anche la necessità di maggior flessibilità nella procedura sulle ricapitalizzazioni precauzionali, usata in passato per Mps.

Inoltre Francoforte ha chiesto requisiti più stringenti sugli Ips (schemi di protezione istituzionale), al contrario di quanto vorrebbe la Germania.

Più in generale Francoforte ha osservato che occorre procedere con l’Unione bancaria definendo una garanzia comune sui depositi e attivando il Mes come backstop nelle crisi (un punto che invece rischia di essere un boomerang per l’Italia, unico Paese a non aver ratificato la riforma del Fondo).

La Bce ha chiesto una «rapida finalizzazione» delle proposte Ue sulle crisi bancarie ma non sarà semplice trovare un accordo prima della fine della legislatura europea. Berlino può ancora opporsi, così come per le nuove regole per gli Stati.

Ma l’Europa è sempre più consapevole, anche a causa degli errori del passato, che occorre cambiare rotta per garantire investimenti per gli Stati ed evitare che le difficoltà di una banca possano causare problemi sistemici.

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