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31/07/2023

Hollywood party, Hollywood strike


Jane Fonda, allo Starbucks Workers Rally di alcuni giorni fa, organizzato dal sindacato dei lavoratori della catena di ristorazione in sostegno ai lavoratori dello spettacolo in sciopero ed in picchetto di fronte al Quartier Generale di Netflix, ha spiegato che chi opera in questi diversi settori chiede fondamentalmente le stesse cose: «un posto di lavoro stabile, sicuro e dignitoso, con un salario che permetta di vivere».

I lavoratori della catena di ristorazione sono al centro di uno dei più interessanti processi di sindacalizzazione negli Stati Uniti, mentre i lavoratori dello spettacolo (prima gli sceneggiatori, seguiti dagli attori che si sono uniti a loro, organizzati rispettivamente dalla WGA e della SAG-AFTRA) sono in lotta contro i giganti di Hollywood.

È la prima volta dal 1960 che sceneggiatori ed attori “incrociano le braccia”, cioè da quando colui che divenne più tardi presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, guidava il sindacato degli attori.

I circa 160 mila attori e attrici iscritti alla Screen Actors Guild-American Federation of Television and Radio Artists (SAG-AFTRA), sono scesi in sciopero dopo che il tavolo negoziale tra le parti è saltato a metà luglio, mentre più di 11 mila sceneggiatori della Writes Guild of America (WGA) avevano incrociato le braccia ad inizio maggio.

Quest’azione sta mettendo in ginocchio le produzioni cinematografiche e televisive nord-americane. Kevin Klowdem del Milken Institute stima che gli scioperi possano costare all’economia nord-americana circa 4 miliardi di dollari.

Come emerge da una recente inchiesta di The Hollywood Reporter, che ha intervistato una dozzina di CEO delle aziende coinvolte rispetto al cambio di calendario della programmazione dovuta all’agitazione: «Nessuna decisione è stata presa. Questo in parte perché, alcuni affermano, molti sono ancora speranzosi che lo sciopero possa terminare presto. Altri stanno aspettando di vedere cosa faranno i propri competitor».

È chiaro che una dilatazione dei tempi potrebbe portare alla cancellazione dell’abbonamento da parte degli abbonati delle otto maggiori aziende che offrono programmi in streaming negli USA: Amazon’s Prime Video, Apple TV+, Disney+, Hulu, Max, Netflix, Paramount+ e Peacock.

Secondo un sondaggio riportato da WrapPro sono soprattutto i sottoscrittori di Hulu quelli più pronti a cancellarsi; un dato significativo, visto che i clienti della piattaforma sono il pubblico più “soddisfatto” della propria scelta.

Ma tutte le aziende avranno lo stesso problema.

Per dare un ordine di grandezza: Netflix ha 238,4 milioni di abbonati in tutto il mondo.

Sebbene gli streamers stiano dicendo a Wall Street che non si attendono un impatto significativo in tempi brevi dallo sciopero, la narrazione potrebbe essere costretta a cambiare, e non è detto che la “bolla finanziaria” su cui si regge il settore, insieme all’iper-sfruttamento dei suoi dipendenti ed alla “fidelizzazzione” dei propri clienti, non possa scoppiare.

La finanza ha trasformato Hollywood in un modello di business che ora tenta di sfruttare “il salto di qualità” tecnologico per una ristrutturazione complessiva.

Come ha scritto Xochtl Gonzalez per The Atlantic: «sotto la pressione per accontentare Wall Street, troppi amministratori delegati, hanno perso il copione del loro film. Non guidano aziende per sfornare un buon prodotto, come un libro o una tazza di caffè, o come in questo caso un film o uno show televisivo. Guidano le aziende per fare buoni profitti. La qualità del loro prodotto ha smesso di essere importante».

L’esempio più eclatante è quello di HBO Max, che ancora fa la parte del leone nelle nomine degli Emmy ma che è stata fatta scomparire da Warner Bross Discovery, che l’ha di fatto trasformata in una app incomprensibile infarcita di reality a basso budget.

Una volta “specializzata” in prodotti di qualità come le serie “The Wire”, “True Detective”, e “Game of Thrones”, è stata trasformata in quello che possiamo definire televisione spazzatura.

Quello a cui stiamo assistendo è uno sciopero storico contro un processo di ristrutturazione che ha al centro l’automazione, che vede differenti figure della “fabbrica dei sogni” lottare anche contro lo stravolgimento che il settore subirebbe con l’uso discrezionale dell’intelligenza artificiale (IA) nella catena produttiva dell’industria dell’intrattenimento.

Ma come ha detto Steve Buscemi, nel rally di attori e sceneggiatori del 25 luglio a New York, non è l’unica ragione.

«Siamo qua perché è tutto in stallo – una paga decente, la condivisione dei guadagni, la tutela della salute, i fondi pensione, un processo di selezione per i provini trasparente, la protezione dall’Ia ed eque compensazioni.»

Un piatto ricco di rivendicazioni.

Gli fa eco Bryan Cranston, che il pubblico conosce in particolare per la sua interpretazione in “Breaking Bad”: «ci stanno inchiodando per farci restare nello stesso sistema economico che è inadatto e datato. Vogliono che facciamo un passo indietro nel tempo. Non possiamo e non lo faremo».

Tanta è la determinazione vista in queste settimane, con picchetti e rally da una parte all’altra degli Stati Uniti, così come il livello di mediatizzazione della vertenza che ha come protagonisti persone universalmente conosciute su rivendicazioni che accomunano gran parte della working class statunitense.

Tornando al rally comune insieme ai lavoratori di Starbucks, rivolgendosi ai management delle rispettive aziende, uno dei capi negoziatori della SAG-AFTRA, Duncan Crabtree-Ireland, ha sostenuto che «Se il vostro modello di business da priorità a Wall Street mentre sfruttate i vostri dipendenti, siete dal lato sbagliato della storia, e ne affronterete le conseguenze».

Si tratta di una tipologia di discorso molto simile a quella con cui il presidente dei Teamstears, O’Brien, ha impostato la narrazione ed ha ottenuto il migliore contratto per i lavoratori di UPS nella storia, con una vittoria che ha travalicato – per il suo significato – i confini dei 340mila dipendenti statunitensi della multinazionale della logistica.

Settori molto diversi, ma accomunati dalla stessa condizione.

Nella parte finale del suo discorso il sindacalista dei lavoratori dello spettacolo, ringraziando per la solidarietà concreta al picchetto, ha concluso dicendo: «insieme, con una visione condivisa del futuro, possiamo ottenere qualsiasi cosa».

È la voce di mainstreet – della strada – che si leva contro Wall Street.

Ed i magnati dello spettacolo, come Bob Iger, CEO della Disney, fanno di tutto per “soffiare sul fuoco” come ha dimostrato con la sua infame intervista del 13 luglio alla CNBC, nella bucolica Sun Valley, con cui ha voluto testimoniare il proprio disappunto nei confronti delle richieste dei lavoratori.

Il miliardario è a capo di una delle aziende maggiormente coinvolte nella vertenza ed ha tacciato di “irrealistiche” le richieste del sindacato, colpevole di «aggiungersi all’elenco delle sfide che questo business sta già affrontando; cosa che è, francamente, molto disturbante».

Maria Antonietta non si sarebbe potuta esprimere meglio.

Grazie alle scelte fatte proprio da Iger, Disney è divenuto un “gigante dai piedi d’argilla” con le acquisizioni di Pisa, Marvell, Lucasfilm e FOX.

Nettare finora per Wall Street, fino a che la bolla regge, esattamente come per gli altri Big Player del settore, ma che potrebbe avere un effetto boomerang.

Certamente lo sciopero sta cambiando la percezione che il pubblico di alcuni attori e attrici televisive entrati nelle nostre vite attraverso i film e le serie.

Una delle storie più sorprendenti è quella di Fran Drescher, universalmente conosciuta attraverso la sua interpretazione nella “Nanny” negli Anni Novanta (“La Tata” che accudiva tre figli di una famiglia facoltosa dell’Upper East Side), alla testa della SAG-AFRA dal 2021, il cui discorso in cui si annunciava lo sciopero è divenuto virale.

Una presa di posizione che rifletteva sulle profonde trasformazioni del settore cambiato dallo streaming, dal digitale e della IA, in cui ha affermato: «Questo momento storico è un momento della verità. Se non ci solleviamo ora, saremo in pericolo», rischiando di essere sostituti dalle macchine e dal «big business a cui importa più di Wall Street che di noi e delle nostre famiglie».

Ma il curriculum della Drescher mostra come da tempo sia una paladina di varie battaglie, anche con posizioni radicali.

In una intervista a Vulture nel 2017 aveva affermato che il suo approccio era “anti-capitalista”: «l’avarizia del big business è attualmente il problema del sistema globale» (!).

Come darle torto...

E nella seconda stagione della “Tata”, in un episodio, si rifiuta di rompere un picchetto a Broadway, ricordando le tre regole fondamentali che sua madre le aveva trasmesso, di fronte al suo “datore di lavoro: «Never, ever, ever cross a picket line».

Una regola che sta mantenendo, insieme ai suoi colleghi, da quelli che divenuti volti conosciuti in popolari serie televisive dovevano poi arrangiarsi facendo altri lavori, o da vere e proprie star ed ora rischiano di essere sostituiti (dalla star alla comparsa fino allo stuntman, con un effetto caduta per tutto l’indotto) dall’intelligenza artificiale già nel corso dello sciopero.

Netfllix, Disney e Sony sembra si stiano muovendo in questa direzione per usare l’intelligenza artificiale in funzione di crumiraggio.

Un meme, ha trasformato la foto delle lettere della collina di “Hollywood” in “AI Wood”.

Una distonia che potrebbe diventare realtà contro cui i lavoratori dello spettacolo stanno combattendo.

Ci voleva l’azione dei lavoratori per far scoppiare l’ennesima bolla prodotta dall’oligarchia finanziaria nord-americana con la stessa forza travolgente dello strepitoso Peter Sellers in Hollywood Party.

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