Le ondate di calore, combinate con altri fattori da stress, non colpiscono tutti allo stesso modo. E i lavoratori più esposti sono quelli pagati peggio.
Gli immigrati, i braccianti, gli edili, i rider, i lavoratori della logistica e quelli retribuiti in modo frammentario e intermittente sono i più esposti al rischio di disidratazione e sovraesposizione al calore.
Questa nuova violenza di classe è conosciuta, e tollerata, nei paesi europei che registrano l’aumento choc delle temperature, ma sono i meno preparati per proteggere i lavoratori con una specifica legislazione.
In Francia, il codice del lavoro non stabilisce una temperatura massima sul luogo di lavoro, ma esiste una norma che permette ai lavoratori di fermarsi quando temono un pericolo immediato per la loro vita. In mancanza di una legge, una simile situazione può essere soggetta a interpretazione, dunque a conflitti e ricorsi.
In Italia il diritto del lavoro non definisce una temperatura massima consentita sul luogo di lavoro ma, analogamente alla Francia, richiede che i datori di lavoro si assicurino che sia possibile lavorare in sicurezza.
La Cassazione, con la sentenza 6631 del primo aprile 2015, ha deciso che i lavoratori hanno il diritto di interrompere la loro attività – senza perdere il reddito o essere licenziati – se il datore di lavoro non garantisce condizioni di lavoro sicure o li fa lavorare a temperature proibitive.
La sentenza parlava di temperature estremamente basse, non c’è motivo di interpretarla in senso contrario. Ma appunto, bisogna dimostrarlo.
La Germania definisce la temperatura massima che dovrebbe essere raggiunta sul posto di lavoro in 26 gradi in circostanze normali, ma questo non è un limite sancito dalla legge.
Quando il termometro supera i 35 gradi l’ambiente di lavoro è considerato «inadatto». Ciò non significa che i lavoratori debbano andare a casa: i datori di lavoro devono piuttosto provvedere a raffreddare l’ambiente. Nel frattempo, potrebbero fare la «siesta».
Sembra una battuta, ma è stata ripresa dai media anche in Italia. Anja Piel, del sindacato DGB ha invitato a ragionare seriamente: «Le valutazioni del rischio non sono ancora lo standard nelle aziende – una mancanza del tutto inaccettabile, considerando i cambiamenti climatici e le estati estreme». Fa una grande differenza se le persone lavorano in un ufficio, in un magazzino o in un cantiere.
La Spagna, invece, regolamenta in modo piuttosto chiaro la temperatura massima sul luogo di lavoro. L’Istituto Nazionale per l’Igiene e la Sicurezza sul Lavoro sostiene che per il lavoro in ufficio è necessaria una temperatura compresa tra i 17 e i 27 gradi centigradi, mentre i lavori che richiedono un leggero sforzo fisico dovrebbero essere svolti a una temperatura compresa tra i 14 e i 25 gradi.
Se un datore di lavoro non rispetta i requisiti può essere denunciato all’Inspección de Trabajo y Seguridad Social o a un sindacato.
La sociologa spagnola Claudia Narocki, nel rapporto Heatwaves as an occupational hazard scritto per l’Istituto sindacale europeo (Etui), ha sostenuto che le politiche esistenti siano ispirate ai piani della salute pubblica adottati dal 2004. Si concentrano su segmenti della popolazione considerati vulnerabili come gli anziani.
E sono stati preparati senza il contributo delle organizzazioni sindacali e dei datori di lavoro. La prevenzione del caldo sul lavoro deve ancora essere integrata nelle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici.
Gli interventi adottati in maniera emergenziale non incidono sui doveri di prevenzione da parte dei datori di lavoro. La particolarità dei rapporti di lavoro sfuggono a protocolli improvvisati o ai «consigli» sulla prevenzione.
In molti contesti professionali le specifiche esigenze sono ignorate o lasciate alle contingenze del momento. Si continua con l’invito neoliberale a controllare i comportamenti, invece di legiferare in nome del benessere e della sicurezza dei lavoratori.
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